*il 3/01 sul N. 4 della rivista il Millimetro
Sono passati sette mesi dal brutale assassinio di Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese freddata dai cecchini israeliani nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania. Per tale barbarità il mondo occidentale non si è indignato quanto avrebbe potuto e dovuto. Il mainstream ha il terrore di occuparsi di tutto quel che ruota attorno alla questione palestinese e alle sue tragedie. Nel 2020 Amadeus, direttore artistico di Sanremo, annunciò un “messaggio emozionante” di Roger Waters, leader dei Pink Floyd, da mandare in onda in una delle serate del festival. Quel video non l’ha visto nessuno. Per motivi di scaletta, questa la giustificazione della Rai, il video-messaggio di uno dei cantanti più influenti della storia del rock, non è andato in onda. Roger Waters ha una gravissima colpa. Sostiene la causa palestinese e lo fa con ardore e attenzione. “I palestinesi sono trattati come gli ebrei nella Germania nazista”. Lo disse anni fa. Sono frasi imperdonabili e chi le pronuncia rischia di finire nella black list. Il mainstream ti inizia a guardare con sospetto. Evita, ove possibile, di parlar di te. Contratti e contatti diminuiscono e i video-messaggi non vanno in onda. È l’establishment, bellezza! Il 13 maggio scorso, durante il corteo funebre per Shireen Abu Akleh, la polizia israeliana pensò bene di manganellare decine di palestinesi che vi partecipavano. Vennero colpiti persino i ragazzi che trasportavano il feretro in spalla. Scene di ordinaria violenza in Cisgiordania. In quanti hanno visto quelle immagini? Se fosse stata la polizia russa a malmenare i cittadini accorsi ai funerali di una giornalista uccisa dai servizi segreti di Mosca cosa sarebbe accaduto? Quanti avrebbero avuto la possibilità di guardare quelle immagini e, dunque, indignarsi? Ai palestinesi è precluso il diritto alla patria, alla terra, ad una moneta propria, alla libertà. A tutti noi è precluso il diritto alla conoscenza, all’indignazione, alla presa di posizione di fronte alla loro tragedia. Per questo Roger Waters non ha potuto parlare nel programma televisivo più visto in Italia. Per questo il corteo funebre di Shireen Abu Akleh non è stato mostrato dai tg più importanti. Per questo Gaza, l’unica città al mondo dalla quale è impossibile uscire, è come se non esistesse.
Poi sono arrivati i Mondiali. È arrivato il calcio con i suoi splendori e le sue miserie per dirla alla Galeano. Le miserie le conosciamo. Corruzione, partite truccate, plusvalenze fittizie, stipendi immorali, doping più avanzato dell’anti-doping e quella stramaledettissima finanza che omologa ogni cosa. Ma il calcio ha anche i suoi splendori, in campo e sugli spalti. Il Marocco, primo paese africano a raggiungere una semifinale mondiale, ha entusiasmato centinaia di milioni di persone. Abbiamo visto festeggiare a Milano, Parigi, Madrid, Bruxelles. Quanto avranno gioito in Marocco davanti alle recinzioni che separano il Paese da Ceuta e Melilla, le città spagnole che si trovano, ancora, in territorio africano, proprio dopo la vittoria della loro nazionale ai rigori contro le furie rosse? Per una volta il rumore degli scoppi sotto alle recinzioni sarà stato quello dei petardi accessi per festeggiare e non quello dei proiettili di gomma sparati contro i marocchini intenti a scavalcare. A Gaza, almeno per una notte, i sorrisi hanno ricoperto i volti dei bambini. Quei bambini che soffrono dannatamente la prigionia che sono costretti a subire. Quei bambini che pensano al suicidio perché vivere in un carcere a cielo aperto e, soprattutto, non aver mai conosciuto nessun’altra condizione al di fuori di questa, deve essere intollerabile. A Gaza sventolavano le bandiere del Marocco dopo la vittoria sul Portogallo. In un auditorium della città migliaia di persone, insieme, hanno visto la partita. Hanno esultato ogni qual volta la tv qatarina inquadrava una bandiera palestinese sugli spalti dello stadio Al-Thumama. Il mondo arabo, mai così diviso in virtù delle scelte di governanti prese spesso in contrasto con le pubbliche opinioni, si è unito intorno alla bandiera palestinese. Quella bandiera censurata, oscurata, vilipesa. Il panarabismo non è morto. E la questione palestinese continua a togliere il sonno di decine milioni di arabi. Il mainstream ha mostrato centinaia di volte i giocatori iraniani che non cantavano l’inno o la nazionale tedesca che si tappava la bocca. Il primo è un gesto politicamente rilevante. Il secondo cela soltanto ipocrisia. Tuttavia avrebbero anche dovuto mostrare i calciatori marocchini mentre festeggiavano al termine della partita con la Spagna sventolando la bandiera palestinese. Abdelhamid Sabiri, giocatore marocchino con cittadinanza tedesca in forza alla Sampdoria, dopo la vittoria con il Portogallo si è fatto fotografare avvolto dall’emblema della Palestina e ha postato l’immagine su Instagram. La lotta della Palestina per la libertà ha unito tutti i tifosi arabi. Anche quelli provenienti da paesi i cui governi sono in pessimi rapporti tra loro. Anche quelli provenienti dai paesi che hanno normalizzato le relazioni con Israele o che hanno sottoscritto con Tel Aviv gli accordi di Abramo. Accordi, evidentemente, che hanno soddisfatto la classe politica, molto meno i popoli.
Free Palestine è la frase che decine di tifosi, non soltanto arabi ma inglesi, francesi, spagnoli, hanno rivolto, in diretta, a favor di telecamera, ogni qual volta, al di fuori degli stadi, un giornalista israeliano chiedeva loro un commento sulla partita. Il mainstream pavido prova a nascondere la sua spiccata codardia dietro all’annosa questione degli ascolti, dell’interesse pubblico, delle scalette, come successo a Sanremo. Come a dire, se non parliamo di Palestina, di Assange o dei morti in Yemen è perché si tratta di questioni che interessano poco. Menzogne! La questione palestinese interessa ancora, e oggi forse oggi ancor di più. E non interessa soltanto il mondo arabo ma il mondo intero. Un mondo schifato dal doppio standard, dalle censure d’establishment, dall’ipocrisia imperante. Un mondo che non tollera più i giornalisti difensori delle verità comode ma che si girano dall’altra parte quando c’è da schierarsi. Forse la questione palestinese non interessa più le élite degli Emirati Arabi, dell’Arabia Saudita o del Bahrein. Ma interessa i popoli. Più o meno la stessa cosa che succedeva a Maradona, dimenticato dai palazzi del calcio ma sempre nel cuore della gente, a cominciare da quella più umile. E non è un caso, evidentemente, che il Pibe di Villa Fiorito sostenesse apertamente la causa palestinese. A Gaza si vive d’inferno e si continuerà a vivere d’inferno anche ora che sono finiti i mondiali. Ora che il freddo rende ancor più complicata la vita nella Striscia. Ma l’amore che milioni di persone nutrono verso il popolo più dimenticato della terra ha alimentato la speranza. Ed è la speranza che i governi reazionari israeliani temono più di ogni altra cosa. Più dei razzi rudimentali, più delle proteste dimenticate dal mainstream, più delle sacrosante denunce da parte di Al Jazeera – l’emittente per la quale lavorava Shireen Abu Akleh – alla Corte penale internazionale dell’Aja. Perché Israele può mostrarsi arrogante di fronte al mondo intero. Può, dichiarare, come ha fatto giorni fa il premier Lapid rispondendo ad Al Jazeera che “nessuno interrogherà o indagherà i soldati dell’esercito israeliano”. Può continuare ad occupare terre altrui, praticare apartheid, giustiziare giovani che combattono per la loro libertà. Ma mai e poi mai potrà controllare la speranza. Perché l’Argentina ha alzato la coppa. Ma i mondiali li hanno vinti i palestinesi.