Luoghi di culto, storie diventate leggende, testi scritti tra un bicchiere di vino e una chiacchierata con un ladro. I ritrovi che hanno fatto grande la musica italiana
Se venisse chiesto ai Baby Boomers e alla Generazione X “Cos’è il terzo posto?”, molto probabilmente non riuscirebbero a trovare una risposta. Se la stessa domanda venisse fatta alla Generazione Z e alla Generazione Alpha, altrettanto probabilmente buona parte di essi non troverebbe risposta. Ma dov’è la sostanziale differenza tra le generazioni nate prima e durante la digitalizzazione e quelle che, invece, sono nate in un periodo successivo? Le prime generazioni citate non conoscevano il significato di questo “Terzo Posto”, ma senza saperlo avevano la grandissima fortuna di poterne godere appieno.
Le seconde generazioni citate, oltre a non conoscerne il significato, non ne hanno alcuna esperienza. E la Generazione Y? Quella dei Millennials, del multiculturalismo, dell’euro, totalmente immersa nel digitale? È probabile che abbia contribuito, più di tutte le altre, ad un netto cambiamento in questo ambito. E, dunque, cos’è il Terzo Posto?
“Quattro amici al bar”
Come disse il sociologo americano Ray Oldenburg: “E’ una sorta di ancora, è dove ti rilassi in pubblico, dove incontri volti familiari e fai nuove conoscenze. Una terra neutra dove si incontrano persone che hanno poco o nessun obbligo di essere lì, quindi sono gioiose”. Prima dell’avvento dei cellulari e dei social media c’erano tre luoghi: lavoro, casa e un luogo di ritrovo sociale. Un vecchio campo da calcio in cemento, la panchina di un parco, un muretto ed i bar di quartiere. Gli stessi bar che sono stati luoghi di evasione, quelli che raccontavano storie di vita quotidiana, quelli in cui il barista diventava una sorta di psicologo, quelli che hanno visto passare e crescere grandissimi artisti.
Nella cultura popolare italiana del dopoguerra, il bar era una situazione di aggregazione sociale dove si discuteva, tra invettive sogni e speranze, in piena sincerità e senza la paura del giudizio altrui. Gino Paoli lo sapeva bene ed era avvezzo alle classiche “discussioni da bar”. A raccontarlo è proprio lui in una delle sue note e stracantate canzoni dal titolo “Quattro amici al bar”.
Genova, bar latteria Igea. E il Roxy del Blasco
Proprio negli anni Sessanta nel capoluogo ligure nasceva la “Scuola Genovese”, un movimento culturale artistico incentrato sulla canzone d’autore italiana. I cantautori erano soliti ritrovarsi nel quartiere Foce, in particolare in questo bar in via Casaregis, all’angolo con Via Cecchi. Era una sorta di quartier generale in cui lo scambio di opinioni tra artisti, e non, ha portato alla nascita di temi reali e linguaggi realistici. Gino Paoli stesso afferma di aver rifiutato la poetica e di aver utilizzato le parole che si usavano per la strada, senza troppi artifici lessicali.
Al bancone, infatti, tra un bicchiere e l’altro, ci si ritrovava a parlare con un ingegnere o con un ladro e l’empatia che si creava non aveva bisogno di carte d’identità. Lo scandire del tempo trascorso in quel bar lo si evince dal fatto che nel brano i protagonisti inizialmente bevevano CocaCola, poi vino ed infine whisky. A tal proposito, in un successivo remix si aggiunse al termine della canzone il ritornello di “Vita Spericolata”, in cui viene citato il Roxy Bar. Ma è mai esistito veramente? Certo, a Bologna, ma non è mai stato un punto di ritrovo di artisti e cantanti, né tantomeno è mai stato frequentato da Vasco Rossi, il quale era stato condotto lì una sola volta per idea di Red Ronnie. Negli anni la proprietà, per fini commerciali, ha inventato storie per le quali il cantante sembrerebbe esser stato un habitué lì. Il Roxy bar di cui parla il Blasco, piuttosto, prende ispirazione dalla canzone “Che notte!” di Fred Buscaglione, morto in un tragico incidente stradale proprio dopo aver trascorso la notte esibendosi in un locale notturno a Via Margutta. La musicalità del nome e le dinamiche che hanno condotto a miglior vita colui che lo aveva ispirato, sono stati questi i pilastri della scelta del cantante modenese. Se il Roxy Bar ha avuto eco nelle successive generazioni, anche per via dell’orecchiabilità del nome, non si può dire lo stesso del “Bar del Giambellino”.
Nel 1998, gli Articolo 31 nel singolo “La fidanzata” cantano queste parole: “Perfino al bar del Giambellino dicevan che ero un mago, mi chiamavan Drago.” Di cosa parlano? Fanno riferimento a “La ballata del Cerutti” di Giorgio Gaber.
Periferia di Milano, bar Giambellino, anni 60
“Il bar era un luogo di ritrovo e aveva un’anima sua. Si passavano le serate giocando a scopa e a biliardo e i tavolini si allungavano sul marciapiede fino all’1 di notte. Se avevi un problema, non andavi al consultorio, scendevi al caffè”. Queste sono le parole di Guido e Nando Fiamenghi, proprietari della salumeria accanto allo storico locale di cui parla Gaber nel suo iconico canto popolare. A dir la verità, il cantautore non passava le serate lì, ma si fermava molto spesso a fare aperitivo quando andava a prendere Ombretta Colli, che in seguito divenne sua moglie. Il bar era frequentato da prostitute, papponi e ladri, ma nessuno giudicava l’altro per la strada intrapresa. Un giorno Gaber conobbe Angelo Ceccotti, il cantastorie del bar, di giorno imbianchino e di notte, Barbera e chitarra, cantava filastrocche. Prese forse spunto da lui? “La ballata del Cerutti” parla di Gino, un ventenne scansafatiche, che passava le giornate al bar con gli amici. Un giorno vide una Lambretta blu parcheggiata lì davanti e decise di rubarla. Qualcuno chiamò la polizia e lui venne arrestato e condannato a tre mesi. Uscirà in anticipo con il condono ed una ramanzina da parte del giudice. Tornato al bar, divenne l’idolo degli amici. Questa storia nasconde un lato positivo ed uno negativo di quegli anni. La positività sta nel raccontare semplici episodi di vita quotidiana, a volte anche fuori dall’ordinario e all’apparenza fantasiosi, e trasformarli in capolavori senza tempo, privi di noiosità. La negatività, invece, sta nel fatto che non fu un buon esempio per i giovani dell’epoca. Erano i tempi della Ligera, la limitata malavita di quartiere, caratterizzata da piccole rapine ma senza nuocere nessuno. Nel 1960, con l’uscita della ballata, ci fu infatti un esponenziale incremento della criminalità nel quartiere Giambellino e nelle zone limitrofe.
“È la sera dei miracoli, fai attenzione…”
Tra coloro che hanno trasformato i bar nella scenografia delle proprie canzoni e tra quelli che, invece, ne hanno semplicemente attinto la parte più costruttiva e stimolante, non si può dimenticare di citare Lucio Dalla. Un tipo socievole e solitario al tempo stesso. In un’intervista affermò: “Amo poter parlare con uno così, che non conosco, che viene da me e che mi chiede come va, tanto per cominciare a parlare. È una cosa grossa, è la cosa più bella”. Era indomabilmente curioso, era lui che scopriva gli altri. Il classico uomo da chiacchiere di vita e da bar, quelle conversazioni trite e ritrite. Entrava nei caffè e discuteva di arte, sport e fantasia. Lucio viveva a Bologna ed era consuetudine incrociarlo al bancone di un bar.
A Forlimpoli, negli anni 70, venne addirittura immortalato in una foto nel “bar Tazza d’Oro”, mentre scherzava dall’altra parte del banco con l’allora titolare Dino Robuffo, trasformandosi da cliente a barista. Il brano “La sera dei miracoli” fotografa un momento particolare per la città di Roma all’inizio degli anni 80, quando con l’arrivo dell’estate si concludeva la stagione degli anni di piombo e cominciava un nuovo decennio carico di aspettative e novità. In questo contesto poteva forse astenersi dal nominare il bar? “Si muove la città, con le piazze e i giardini e la gente nei bar”. E ancora, il videoclip del brano “Anna e Marco”, in anni recenti, è stato girato all’interno del bar Edera a Bologna. Insomma, un amore senza fine verso questo genere di luoghi.
“Ci vediamo da Mario, prima o poi…”
In un’intervista nel podcast BSMT risalente al 2023, è stato chiesto a Luciano Ligabue quale fosse il momento preciso in cui decise che il “bar Mario” sarebbe diventato un punto di riferimento. Anche qui, come nel caso di Vasco Rossi, la risposta sorprese. Il bar Mario negli anni 80 era molto vicino ad un’ex stalla adibita a sala prove degli “Orazero”, la prima band di Ligabue, che dopo il lavoro concludeva la giornata mangiando gnocchi fritti e bevendo proprio in questo locale. Nonostante ciò, il cantautore afferma che non ha mai considerato un punto di riferimento quel luogo in quanto tale, ma che tramite quel nome volesse alludere a tutta la galleria dei bar che frequentava, dei personaggi che vedeva. Il bar Mario rappresenta la psicologia di un certo periodo che il cantautore conosceva molto bene.
“Adesso i bar sono molto più di passaggio, ma una volta erano posti in cui vedevi dal dodicenne al settantenne ammassati nello stesso posto. C’erano tavolini per quasi un centinaio di persone, biliardi e biliardini, e sentivi raccontare tutte le storie che contavano del paese, non solo quelle di corna, passavano tutte di lì. C’erano i famosi estrosi del paese, che volevano finire nelle leggende raccontate nel bar, quindi compivano le gesta più assurde pur di far parlare di se stessi”. Gli estrosi certamente non sono passati di moda, ma se la moda è il frutto di processi potenzialmente destinati a ripetersi, cosa ne sarà del vecchio concetto di bar?