Ergastolo, la pena e la speranza

*il 7/02 sul N. 5 della rivista il Millimetro

È una sensazione difficile da definire, sentimenti contrastanti che non riesci a decifrare. Paura e compassione. Paura perché sai entrando in una struttura dove sai che ci sono anche persone che hanno commesso brutali omicidi, compassione perché in fondo nessuno merita di morire sepolto tra quattro mura. Ma “tutto dipende da te” mi dice Franco mentre, sorridendomi, prende le chiavi della Cappella dall’armadietto dietro di me. L’ha precisato mezz’ora prima di lui anche la Direttrice del carcere accogliendomi nel suo ufficio al piano superiore. “Grazie alla collaborazione con i volontari e le realtà esterne al carcere – spiega Rosella Santoro – cerchiamo di proporre ai detenuti molte attività. Alcuni aderiscono, ma altri non sono interessati. Dipende molto dalla volontà del singolo. Ma se anche su 100 ne recuperi 1 va bene. L’importante è recuperarli. C’è gente che fa teatro, pittura, che si laurea… e loro sono la conferma che qui dentro ci si può recuperare, rieducare. Noi offriamo queste possibilità perché, per noi, quando la persona entra in carcere finisce il reato e inizia l’uomo”. Già, finisce il reato e inizia l’uomo, ripeto tra me e me mentre sono al piano terra, in un disimpegno, in attesa che arrivi l’appuntato per “presidiare” l’intervista. Ma Franco, che dopo aver preso le chiavi resta lì con me, già sa di essere lui. Si avvicina. “Sono per forza io quello che devi intervistare, ho l’ergastolo! Però sbrighiamoci che poi devo andare a pregare” dice sorridendo. Ci presentiamo. Franco non è il suo vero nome. Ha chiesto di restare anonimo. Mi stringe la mano, nell’altra tiene una Bibbia nera con le scritte dorate. Indossa una tuta e un piumino smanicato. Non ha un aspetto trasandato, anzi. La sua è una stretta di mano decisa. Ha uno sguardo intenso. Gli occhi di un ragazzo diventato uomo lì dentro. Vive a Rebibbia dal giorno dell’arresto, 21 anni fa. “Sono entrato poco più che 20enne con l’accusa di omicidio. Non ho avuto una adolescenza come te, come gli altri ragazzi. Non ho avuto la possibilità di farmi una famiglia. Non ho né una moglie né una fidanzata né dei figli, ma non per questo voglio vivere da relitto. Io ho scelto di vivere, no di sopravvivere”. Mi chiedo come si possa abbinare il termine vivere ad un carcere. Forse è un mio limite, una mia idea sbagliata. Ma se penso al carcere penso alla morte, non alla vita. Penso ad un luogo dal quale non potrai più uscire. Ma lui parla di vita, di futuro e di speranza. E io resto basita. Arriva l’appuntato, ci sediamo per iniziare la nostra chiacchierata in una stanza a pochi passi da dove stavamo aspettando. “Qui vicino c’è la falegnameria, per questo vedi tutta questa polvere” mi spiega. “Una falegnameria? In carcere? Non l’avrei mai detto” penso senza dire nulla. Al mio “come passi le tue giornate?” risponde subito elencando un’infinità di attività. Lo blocco e gli chiedo di andare per ordine. Gli faccio capire che dall’esterno si sa poco e niente del carcere. “La mattina mi sveglio intorno alle 5, resto a letto per un’oretta abbondante finché non mi alzo per preparare il caffè con la macchinetta che ho dentro la cella. Leggo un po’ la Bibbia e poi mi dedico alle mie attività”. Fino ad un mese fa lavorava nel reparto del carcere dove fanno la torrefazione del caffè, che poi viene venduto all’esterno. Un lavoro vero e proprio che ha svolto per 6 mesi. “Facevo le miscele e cuocevo il caffè. Finito il turno tornavo in cella per pranzo. Consumiamo i pasti sempre in cella: colazione, pranzo e cena”. “E non avete una mensa per mangiare tutti insieme?” “Ma no, quello nei film americani. Il carcere italiano è diverso: si mangia in cella, ma non per forza da soli. Se vuoi puoi invitare qualcuno. Il cibo lo garantisce lo Stato, ma volendo abbiamo anche un piccolissimo supermercato interno al carcere dove possiamo acquistare le cose. Ovviamente non ha tutto come fosse un normale negozio”. “E come funziona?” gli chiedo incuriosita pensando a come sia possibile maneggiare i soldi in un ambiente così. E infatti non succede. “Ognuno di noi ha un conto corrente ed è così che paga i beni che compra. Un conto dove finiscono i guadagni dei lavori che facciamo, come quello del caffè” racconta con disinvoltura e tranquillità. Si ferma un attimo a riflettere, resto in silenzio. Non voglio incalzarlo. “In fin dei conti in carcere se vuoi fare qualcosa hai la possibilità di farla. Dentro certi margini, certo, però ti viene data l’opportunità. Tutto, ovviamente, dipende dalla persona e dalla fiducia che questa riesce a ottenere”. “Dopo pranzo insegno agli altri detenuti a dipingere” mi dice spiegandomi che è proprio in carcere che si è avvicinato all’arte della pittura. Ma non è stata l’unica sua scoperta. Durante la detenzione “ho conosciuto Dio”. Il pomeriggio, insieme ad altri, legge la Bibbia. Lo fa tutti i giorni Franco, che ora è diventato pastore evangelico. Lo fa anche dopo cena, poco prima di addormentarsi. “Alle 18 circa si mangia”. Alla mia faccia stupita si interrompe. Ci guardiamo, sorridiamo, e mi dice “Se vuoi mangiare in compagnia devi farlo presto perché alle 20 chiudono le celle e non puoi più uscire fino al mattino dopo. Il nostro orologio biologico è diverso dal vostro”. Gli chiedo dove trova la forza per affrontare tutto questo. In galera sei solo, non hai la tua famiglia vicina e sai che la tua vita sarà sempre lì dentro. “Io non mi reputo un ergastolano, ma una persona che sta affrontando una prova che la vita gli offre. Una sfida personale che voglio combattere perché io la mia dignità non la voglio perdere. Non scappo dal debito che ho con lo Stato. Essere in prigione è come avere un cancro: sai che devi morire. E che fai? Ti butti su un letto aspettando la morte o cerchi di vivere a pieno la tua vita? Per me non ha senso buttarsi sul letto… Tutto quello che faccio lo faccio per la fede che mi lega a Dio. La fede che ho trovato in un libro” spiega alzando la Bibbia. Io però insisto, voglio capire se ha qualcuno vicino. Un parente, un amico… “Ogni quanto hai i colloqui? Chi viene a trovarti?” “Non voglio nessuno” risponde perentorio. Insisto. L’unico parente che lo viene a trovare, ogni 2-3 mesi, è suo nipote, nato proprio quando lui è finito in galera e che quindi l’ha conosciuto già da detenuto. Ma tutti gli altri non vuole che vadano, soprattutto sua madre anche perché ormai è molto anziana. “Con mia mamma facciamo le video-chiamate. Ci siamo sentiti pochi giorni fa dopo 5 mesi di silenzio per via di problemi burocratici. Ora però dovrei parlarci più o meno una volta a settimana, per un’ora”. “L’ultimo ricordo che hai di lei quando eri in libertà?”

Ergastolo, la pena e la speranza
Rosella Santoro, direttrice del carcere di Rebibbia – Foto di Luisa Urbani

“Stavo uscendo di casa, mi chiese se tornavo per cena. Varcando il portone risposi di sì. Ma non sono mai più tornato” racconta quasi commosso. Si sono rincontrati solo dopo l’arresto. Lei una volta è venuta a trovarlo, ma poi solo video-chiamate perché appunto lui non vuole. Suo papà invece è morto anni fa, senza che Franco potesse uscire per dargli l’ultimo saluto. “Non ho partecipato al suo funerale e non sono mai potuto andare al cimitero”. Le uniche persone che incontra quindi sono quelle del carcere: detenuti e poliziotti. Ogni tanto qualche volontario. Gli chiedo se ha amici qui. “La comunità del carcere – racconta – è molto cambiata. Vent’anni fa eravamo solo italiani. Adesso ci sono persone di diverse nazionalità, quindi lingue e soprattutto culture differenti. Ma tutti siamo uniti da un minimo comune multiplo: la sofferenza. Diciamo che sì, ci sono persone con le quali condivido le stesse idee”. “E con i poliziotti?”

Ergastolo, la pena e la speranza
Carcere di Rebibbia – Foto di Luisa Urbani

“Non è la divisa che conta, ma la persona, l’uomo che c’è dietro quell’abito”. Si gira subito verso l’appuntato e racconta di un fatto di molti anni fa che vede entrambi coinvolti. Per noi forse una sciocchezza che però conferma quanto per chi è dentro ogni piccolo gesto conti davvero molto. “Giocavamo in cortile e lei, appuntato, spesso ci restituiva il pallone che cadeva oltre la recinzione”. E da lì iniziano a chiacchierare loro due, li fascio fare. È una simpatica conversazione in cui cercano le parole per definire il rapporto tra guardie e detenuti. Una relazione basata sulla consapevolezza dei diversi ruoli, ma che non dimentica che si tratta sempre di essere umani. Un rapporto che già dalle loro chiacchiere capisco che può essere qualcosa di molto vicino all’amicizia. Mi rendo conto che certe volte non basta una parola per definire le relazioni. Amico forse è sbagliato, ma conoscente sarebbe davvero riduttivo. Alla fine Franco la definisce “un’amicizia limitata nel reciproco rispetto dei ruoli”. 40 anni circa. 20 in galera, 20 fuori. Quelli più significativi però in carcere. Franco insomma è cresciuto lì dentro. Ma come? Gli chiedo se si sente rieducato visto che secondo la nostra Costituzione “le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sorride. “Dovresti chiederlo agli altri, non a me. Io posso dirti che qui gli strumenti ci sono. E comunque lo diranno le scelte che farò in futuro”. Al sentir pronunciare la parola futuro mi blocco e lo interrompo. “Futuro? Come può un ergastolano parlare di futuro?”. Esprimo questa mia perplessità a lui. No, non ho capito male. Ha detto davvero futuro. “Io devo sperare in un futuro, altrimenti questa è una tortura perenne. Io non ho mai perso la speranza, per me il fine pena mai è una cosa scritta sulla carta. Non penso mai che morirò qui. Anche quando parlo con mia mamma le dico che uscirò”. “Non è forse un’illusione?” chiedo. “No”, risponde perentorio e aggiunge: “Dicono che la vita sia una sorpresa. Non è così, è una scelta. Sono qui, questa è la mia vita e voglio viverla appieno”. Una fermezza e una forza invidiabile. Una forza che lo spinge a scegliere di non lasciarsi morire su un letto, chiuso tra quattro mura. Ma di vivere ogni giorno. Ci alziamo, mi stringe la mano, sorride e se ne va. Io, che ero entrata spaventata, ora incredula percorro il lungo corridoio che mi porta all’uscita. Che mi riconsegna alla mia vita, lasciandomi alle spalle un mondo sconosciuto, una vita parallela alla nostra e che tutti dovrebbero scoprire. Perché quando esci da lì apprezzi ancora di più quello che hai fuori e – per quanto possa apparire retorico – davvero capisci il significato della parola libertà.

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Amen

La guerra e la solitudine di Papa Francesco, tra i pochi a chiedere con forza la pace: ce ne parla Alessandro Di Battista con un commento in apertura. All’interno anche il 2024 in Medio Oriente, la crisi climatica, il dramma dei femminicidi in Italia, la cultura e lo sport. Da non perdere, infine, le rubriche Line-up, Ultima fila e Nel mondo dei libri, realizzate da Alessandro De Dilectis, Marta Zelioli e Cesare Paris.

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