Vengo da una generazione che andava in giro con le mani e i gettoni in tasca: quelli per telefonare, non quelli per le giostre. Li cercavi con le dita, mischiati alle monete da cinquanta e da cento lire, senza che fosse necessario tirali fuori: li “sentivi” al tatto i gettoni. Poi puntavi la cabina più vicina e dovevi sperare che fosse libera. Che se c’era qualcuno dentro che parlava e parlava, discretamente ti facevi notare, e a quel punto, con il gettone in mano, lo giravi e lo rigiravi, lo lanciavi e lo riacchiappavi e magari speravi che ti cadesse per terra e il tintinnio richiamasse l’attenzione del tipo che doveva avere una discussione piuttosto accesa con il suo interlocutore all’altro capo del telefono. Mi capitava di domandarmi, mentre l’attesa si faceva snervante, cosa mai lo avesse infervorato, che di questo si trattava a giudicare dalla gestualità sempre più accesa e vibrante. Afferrai allora un’imprecazione di quel tizio che non so a chi ripetesse una cosa del tipo: “Lo dovrebbero sapere tutti quello che stai sostenendo, per ridicolizzarti…”. Non so perché, ma quella scena si è fatta largo nella mia memoria in questo nostro tempo così diverso, così ipertecnologico, dove le vite si vivono sui social. Anzi, lo so bene perché mi capita di ripensare a quella scena. Perché se quel tipo avesse avuto un telefonino e un profilo Facebook, o Twitter, o Instagram, insomma uno di questi social, ecco, probabilmente lo avrebbe fatto sapere lui con un post cosa stesse sostenendo quel suo interlocutore “per farlo ridicolizzare”. E quell’altro avrebbe reagito. E chiunque avrebbe potuto dire la sua.
Schierarsi. Patteggiare per questo o per quello. E raccontare, e criticare, e insultare, perché no? Del resto, non è quello che succede da quando i social hanno sdoganato il pensiero di chiunque ne abbia uno, a costo di sostenere che la terra è piatta, che nessun uomo è mai sbarcato sulla luna, che l’11 settembre è una montatura, e via a sciorinare la sagra della retorica populistica, fino a giungere ai giorni nostri per dire che “il Covid non esiste” oppure che “è stato diffuso apposta per favorire le case farmaceutiche” e quindi “non vaccinatevi che vi iniettano veleno”. Per comodità di linguaggio, la cronaca li chiama No Vax. Ora, sia chiaro: bisogna rispettare chi abbia scientemente scelto di non vaccinarsi: non è un reato! Ma attenzione, se si vive in uno stato di diritto, bisogna accettare le regole, è il paradigma del vivere civile; pertanto, se vengono introdotte misure restrittive per coloro che non si vaccinano – su cui peraltro, giova ricordare, la Corte costituzionale non ha avuto nulla da ridire-, bisogna adeguarsi. Se uno fa il medico e lavora in corsia, è giusto che debba vaccinarsi; ma dato che è libero di non farlo, non può pretendere di restare in corsia a curare i malati. Ecco, ora succede che esistendo i social, chiunque si sente in diritto di dire quel che pensa, e ci mancherebbe. Non serve scomodare Voltaire, o chiunque abbia coniato quell’aforisma secondo cui “non sono d’accordo con quel che dici, ma darei la vita affinché tu possa dirlo”. Purtroppo, però, succede che c’è chi si affida a questa saggia massima per rivendicare la propria tesi, anche se sia strampalata, insensata, incongruente, fasulla.
Tanto poi ci pensa l’effetto domino dei social a renderla verosimile: un complottista lo trovi sempre on line. E così, senza preoccuparsi di documentare quanto affermato, di andare a verificare se quello che ha scritto Tizio abbia un fondamento, basta l’idea di prendere di mira le istituzioni, un nemico del populismo, e il gioco è fatto. Ha funzionato con il Covid, sta funzionando con la guerra in Ucraina. Se a proposito di virus e vaccini mi sia capitato di leggere scemenze come: “quella si è fatta il vaccino e si è beccata lo stesso il virus, hai visto?” e tutti i negazionisti dietro a gongolare appesi al “che vi avevo detto?”; oppure a un obbrobrioso “lo sempre sostenuto io” (con buona pace per la grammatica), ecco che arriva la guerra ad alimentare la mai sazia fame complottista dei “leoni da tastiera”, come li chiamano oggi. Fateci caso: i No vax si sono riscoperti, guarda caso, se non proprio filo-putiniani, quanto meno sospettosi che quell’antipatico di Zelensky “se la sia cercata”, e che per questo si dovrebbe arrendere e consegnare le chiavi del paese ai Russi per evitare la carneficina del suo popolo. Certo, non tutti coloro che hanno scelto di non vaccinarsi rientrano in questa sfera. C’è anche chi ha capito bene come stanno le cose: che c’è un aggressore e un aggredito. E che non serve rilanciare il mantra “ma allora gli Usa quando hanno invaso l’Iraq?” Resta il fatto che la stragrande maggioranza di No vax pur di essere contro il sistema, contro l’occidente, si ritrova filo-putiniana, o filo-putinieri come dice qualcuno.
Non è un reato, per carità. Ma certo sono posizioni che non aiutano a razionalizzare, ma anzi finiscono per creare confusione e alimentare il plotone di un certo manicheismo negazionista. Chi studia il fenomeno lo attribuisce all’influenza delle reti sociali virtuali, all’uso smodato che se ne fa ormai per comunicare. Del resto, i politici per primi ricorrono a un tweet, o a un post su Facebook per lanciare una dichiarazione, piuttosto che affidarla al proprio ufficio stampa che dovrà redigere un comunicato e poi inviarlo via mail (o via WhatsApp, come si usa sempre di più oggi). Ma i social, anche per loro, soprattutto per loro, sono un’arma a doppio taglio. Raggiungono più in fretta una platea ampissima, è vero; ma è altrettanto vero che la platea è formata anche da oppositori del politico che twitta, per non parlare del qualunquista di turno, pronti a seppellire di invettive, se non di insulti veri e propri, la bacheca dell’autore della dichiarazione. Ogni giorno mi capita di imbattermi nei post di Matteo Salvini o di Giorgia Meloni, per citare due tra i politici più attivi sui social. Andate a leggere i commenti sotto a ogni loro dichiarazione! Se ne trovano molti di più di denigratori, spesso anonimi, o che si celano dietro falsi nomi, o nickname, che non di sostenitori. È la dura legge della giungla on line. Loro lo sanno, lo hanno messo in conto, e capiscono, come tutti, che nel nostro tempo rinunciare alla presenza sui social è un po’ come non esistere. Come non avere una carta d’identità, non risultare all’anagrafe. Lo sanno tutti. Lo hanno capito pure le nonne e i nonni, quelli che vengono dall’epoca precedente alle cabine telefoniche, quella dei telefoni attaccati alle pareti, alle “signorine” della Sip (la vecchia Telecom) a cui bisognava chiamare per fare una telefonata internazionale: “resti in linea le faccio il numero”. Chiamava lei per noi e quando all’altro capo rispondeva qualcuno “ecco, siete in linea parlate pure”.
Anche quei giovani di allora, che sono oggi i nostri nonni, sono spuntati sui social con le loro facce beate e sorridenti, levigate dagli anni, magari sollecitati dai nipoti “ma come nonno, non sei su Facebook? Vieni, ti faccio vedere io…ti creo io un profilo”. Ed eccoli lì, coccolati ai figli e dai nipoti, dietro alle torte dei compleanni, e gli auguri che fioccano anche dagli sconosciuti che si imbattono in quella foto festosa, in quel vecchietto che ne fa 90, se non cento, beato lui. Già, i compleanni al tempo dei social! Ho fatto un esperimento. Sul mio profilo Facebook, per ogni mio compleanno mi sono giunti migliaia e migliaia di auguri. Ma così tanti che anche io mi son dovuto piegare al rito del post unico di ringraziamento. Poi una volta mi son detto: ora provo a togliere dal profilo la mia data di nascita e vediamo l’anno successivo chi si ricorda del giorno del mio compleanno. Ebbene, il mio compleanno sui social senza la data che lo ricordasse è passato totalmente sotto silenzio. Nessuno, dico nessuno, ha scritto un solo messaggio, uno che fosse uno. Ma ho riscoperto il piacere delle telefonate, o dell’SMS sul telefonino. E qui, fatalmente, saltano fuori le persone più vicine a te, le più care, quelle che sanno che quel giorno è il tuo compleanno senza aver bisogno che glielo ricordino i social. Un “mi piace” non si nega a nessuno nell’era virtuale, ma volete mettere la bellezza di un augurio diretto, personale non richiesto, non sollecitato? Questa è l’altra faccia dei social. Quella che ci rende più umani, più solidali. Quella che ci permette di farci conoscere, di far sapere quello che facciamo, quello che produciamo, con comprensibile dose di sano narcisismo.
Sono uno straordinario strumento promozionale i Social Network. Pensate per un attimo a chi scrive libri (ne so qualcosa per interesse diretto). Si buttano sui social per annunciare l’uscita del nuovo romanzo, che diversamente come farebbero i lettori a saperlo? Solo i nomi più famosi hanno la possibilità di spuntare in tv, di farsi intervistare e finire sui giornali. Ma tutti gli altri? Quando non c’erano i social dovevano confidare nel passaparola. Oggi basta un post: la foto della cover, magari con faccia sorridente dello scrittore, due righe ammalianti e fioccano i “mi piace”, i “complimenti, non vedo l’ora di leggerlo”. Insomma, grazie ai social abbiamo la grande fortuna di condividere le gioie, le felicità. Del resto, se ci accade qualcosa di bello, di gratificante, di emozionante, se non lo condividessimo con i parenti, con gli amici, non avremmo un ritorno di quella nostra felicità. La condivisione, dunque, nel bene e nel male. Nel bene quando ci piace l’idea di far sapere a tutti che il nostro bel giovanotto si è laureato; o nostra figlia ha vinto un premio importante. Nel male, quando abbiamo perso una persona cara, un padre, una madre, e proviamo ad esorcizzare il lutto, con un post che ne tratteggi il ricordo, e il fiume di condoglianze che inonda le nostre pagine social ci conforta, ci dà sollievo, come i telegrammi di una volta: quando ho perso mia madre non esistevano neppure i telefonini, e il postino bussò quel giorno chissà quante volte per consegnarci centinaia di telegrammi; più recentemente è mancato mia padre, e al tempo di Internet, non è arrivato un solo telegramma, ma migliaia di messaggi sui social. La vita che cambia è tutta qui. Ce l’hanno trasformata le relazioni virtuali. E se un riccone sfondato come Elon Musk offra 43 miliardi di dollari per acquistare Twitter, beh, una ragione ci sarà. Peccato però che abbiano sdoganato anche le aggressioni, che alla lunga finiscono per ripagare. Dentro ai social proliferano non solo complottisti e negazionisti, ma anche sedicenti guaritori, santoni, cartomanti, medici fasulli: un circo mediatico di obbrobri e orrori che abbindola la povera gente, che finisce per crederci e se ne convince al punto da indebitarsi. Quando penso a questa faccia dei social, ecco, mi domando se non fosse meglio il tempo delle cabine telefoniche.