Dialogo con Marco Bellocchio

Marco Bellocchio è un Maestro. Ha innovato il cinema italiano, ha rivoluzionato certi archetipi, ha costruito un linguaggio. Lo ha fatto con la naturalezza e l’inquietudine di chi vuole sempre andare oltre, trovare altro, con la curiosità di provare, da quando ha 26 anni (quando esordì), a stupirsi prima ancora che a stupire. Per questi motivi e per la sua importanza anche politica – nel senso più ampio del termine – e civile nella nostra arte, Linea d’Ombra gli ha conferito il riconoscimento alla carriera “Maestri di cinema”. E in quest’occasione, in una lunga intervista, ha ripercorso gli ultimi esaltanti 55 anni di arte, impegno e personali rivoluzioni. E leggerlo in questi giorni in cui sulla Rai sta andando Esterno Notte, il suo ennesimo capolavoro e il ritratto sconcertante e potentissimo di un paese quasi colpito a morte – e che forse da allora non si è mai ripreso – è ancora più emozionante e importante.

Dialogo con Marco Bellocchio

Fabrizio Gifuni mi ha detto che Esterno Notte “è stato lo splendido incontro tra due ossessioni al momento giusto”

“C’è stata una bella convergenza tra di noi, la scintilla è stata il quarantennale dalla morte, in cui Aldo Moro è stato molto commemorato. E lì, guardando alcune foto, ho pensato di vedere, raccontare questa tragedia italiana dal di fuori, perché Aldo Moro non è (solo) la sua prigionia, ma è prima, dopo e sì, anche durante. Lui lo aveva già interpretato in un Romanzo di una strage con Marco Tullio Giordana e poi mi ha colpito tantissimo il suo spettacolo Con il vostro irridente silenzio. Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro in cui interpretava, appunto, il memoriale dello statista con una partecipazione, una furia e una grandezza uniche. E lì, sul palco, l’ho guardato e ho pensato che quella grandezza, quella forza analitica e interpretativa, quella passione poteva confluire dentro il progetto Esterno Notte. Fabrizio Gifuni è stato più di un attore, in questa serie, lui ha dato qualcosa di speciale e necessario. Si è trasformato in un’immagine cinematografica, nello spettacolo era solo con un leggìo, per un’ora e mezzo in cui è Moro e racconta di Moro, qui è un personaggio in famiglia, in politica con gli amici democristiani, nella prigionia. Un ruolo completamente diverso ma che probabilmente racchiude in sé tutte le mie e le sue tappe di avvicinamento al racconto della parabola esistenziale, politica, umana di quest’uomo”.

In quello spettacolo peraltro la drammaturgia era il suo corpo, Fabrizio interpretava parola per parola il memoriale senza la mediazione della mediazione o dell’adattamento. Trovo che questa vostra collaborazione trovi il suo apice nel monologo finale con il prete. Lì c’è un unione di intenti e talenti unica.

“Doveva essere fondamentale la distanza tra camera e protagonista, quella confessione con un sacerdote, che non si sa se ci sia stata o meno, dovevamo capire, sentire quale fosse il modo giusto di raccontarla, a partire proprio dalla vicinanza ai protagonisti di quella scena. Era una situazione decisamente libera, in cui poter intervenire nella storia e metterci del nostro. Cossiga aveva lasciato intendere fosse avvenuta, ma non sappiamo cosa si siano detti. Ho deciso di tenermi vicinissimo, lui ci ha messo tanto, tutto e io ho potuto, da quella giusta distanza, dare il giusto valore a quel momento incredibile. Fabrizio ci ha messo la rabbia, la fragilità, il risentimento, la passione che esplode, giustamente, in un personaggio fino a quel momento trattenuto, quella tensione e potenza emotiva sono una liberazione e Fabrizio ha percorso tutto questo con tale grandezza che con Francesca Calvelli (la montatrice e compagna di vita di Marco Bellocchio – ndr) non abbiamo voluto spezzarlo. Abbiamo tenuto quasi tutto di quella scena”.

Sei sempre alla ricerca di progetti anche molto diversi tra loro. Questa è la prima volta che torni sul luogo del delitto, che racconti nuovamente qualcosa e qualcuno su cui avevi già detto la tua.

Buongiorno Notte era tutto ambientato o quasi nell’appartamento-cella, con piccole evasioni oniriche o la tv che faceva da finestra sulla vita esterna. Qui potevamo uscire fuori: nell’ufficio di Cossiga, nella casa di Moro, in Vaticano e poi sì anche nel covo di Morucci-Faranda e vedere poi l’attentato e cercare di rappresentarlo in modo personale e in un mondo che non esiste più. Lì è stato prezioso poter girare davvero a Via Fani. Siamo partiti dai fatti, ma anche dalle tante interpretazioni diverse, non rinunciando ad avere uno stile, nel costruire un montaggio complesso, nello sbizzarrirci pure con gli effetti speciali, a partire da scene d’azione violenta che mi ero permesso prima solo con Il traditore”.

La morte di Moro è stata la morte di un paese. La morte di solito santifica e annichilisce, qui ritroviamo un Moro risorto come uomo e statista, non più santino e simbolo.

“Mi viene in mente un bell’articolo di Francesco Piccolo, su uno che aveva scritto un libro su Moro e che è passato a Via Fani mentre noi giravamo. Uno dei tanti pezzi di verità su Moro che attraversava un altro lato del suo racconto, che si ripropone costantemente in forme diverse. Su Aldo Moro di verità ce ne sono tante, troppe, ma non è la risoluzione del mistero della sua morte che mi interessava, ma riportarlo in vita, capirlo di più e con lui certo, un paese come il nostro. La data del sequestro e dell’assassinio di Moro nella nostra Storia e nel nostro immaginario hanno un peso enorme, non è un caso che continuiamo tutti a tornarci, ma non dobbiamo e possiamo dimenticare tutto quello che purtroppo lo ha portato lì. E sì di fronte a un’eterna riproposizione delle stesse foto, delle stesse parole e aneddoti, abbiamo voluto guardare altrove”.

Se non sbaglio Esterno Notte è la tua prima esperienza con la serialità televisiva.

“Ero attratto da qualcosa che non avevo mai fatto. Ho fiancheggiato molte serie a cui ha lavorato Francesca (Calvelli – ndr), e le guardavo. E mi sono appassionato anche a guardarne altre in tv. Ovvio che non mi sono prefisso a freddo di farne una, ma questa tragedia è venuta da sé scandita in sei episodi, e mi ha affascinato anche l’obbligo di essere sbrigativo, di andare su personaggi e fatti, usando tecniche immediate, più classiche, perché la spinta in avanti ti costringe a non esitare mai. É un passo diverso dal film, sei obbligato a procedere nel racconto, e a suo modo è molto affascinante”.

Dialogo con Marco Bellocchio

Un bel rischio. Come d’altronde il precedente progetto, Il traditore.

“Abbiamo lavorato molto, proprio perché devi sempre cercare qualcosa non di autobiografico – per fortuna non c’è nulla di simile tra me e Buscetta -, ma che riguardi il tuo modo di vedere il mondo e poi portarlo in quel contesto lì. Un attore di quel film mi disse che quell’aula di maxiprocesso era una scenografia teatrale incredibile, io che praticamente il teatro non l’ho mai fatto ma l’ho sempre amato e spesso messo nel mio cinema probabilmente sono stato attratto da quell’aula bunker: quel maxiprocesso era una grande messinscena, con Buscetta che recita una parte quasi shakespeariana, vera ma comunque interpretata, e i detenuti pure, tra chi si cuce le labbra, chi impreca, chi mette in atto proteste estreme e coreografiche. Quello è un pezzo di teatro montato in un film. E qui c’è stato il “problema” di un altro esordio, nel mio cinema non c’erano mai stati, o quasi, colpi di pistola. E non ho voluto evitare la sfida, ma ho scelto la strada della brevità, totalmente in contrapposizione alla lezione di Sergio Leone, perché a mio parere dovevamo mettere dei punti, doveva esserci il sangue ma non coprire le altre direzioni che il film voleva e doveva prendere”.

Il trovare qualcosa di tuo nelle storie è forse il segreto di come sei riuscito a raccontare grandi storie realmente accadute e al contempo film di totale finzione. Anche questo ti ha portato a un costante rinnovamento e rottura del linguaggio?

“Ho sperimentato partendo da una base di realismo, ho voluto usarlo come uno steccato e da lì cercare di spingermi oltre, di sconfinare. C’era una necessità in Esterno Notte di essere chiari, ma senza rinunciare alle allucinazioni, ai sogni, a partire dalla Via Crucis immaginata e confusa dal Papa, come in fondo c’erano in Buongiorno Notte, pensa alle passeggiate di Moro. Non c’è mai stata nella mia lunga carriera l’intenzione di rompere il linguaggio fine a se stessa, come molti grandi maestri facevano, da Godard in giù: per lui il disprezzo e l’annientamento del linguaggio era l’obiettivo, io sono stato molto più normale, classico”.

Ora però sei di nuovo al lavoro su una storia vera, La conversione.

“Con Barbara Ronchi (nel cast anche Timi, Gifuni, Russo Alesi e Paolo Pierobon) abbiamo finito il set sul film sul piccolo Edgardo Mortara. Lo stiamo montando. Steven Spielberg stava per fare questo film ma misteriosamente lo ha lasciato. Quella vicenda, quella tragedia di questo bambino di famiglia ebrea rapito perché battezzato su ordine e impulso del Papa mi aveva colpito da subito, ma avendo intenzione di farlo lui non ci avevo più pensato, per fortuna ho sempre tanti progetti. Quando abbiamo intuito che non aveva più alcuna intenzione di riprendere quella storia, per cui era arrivato fino a fare i sopralluoghi a Roma, abbiamo voluto provarci. I due progetti di film sono radicalmente diversi, ne abbiamo fatto una versione italiana e dopo alcuni provini Barbara Ronchi è risultata perfetta per fare la mamma di Edgardo“.

A proposito di Barbara, ti ha definito “straordinario allenatore d’attori”.

“Io allenatore di attori? Non lo so, ne sono felice intendiamoci, ma è vero che spesso gli attori mi riconoscono la capacità di dirigerli bene. Credo perché volessi fare l’attore anche io e perché parlo pochissimo a differenza di altri colleghi, che raccontano tutto dei loro personaggi, io invece mi annoio in fretta e dico pochissimo. Si crea però sempre un’intesa direi fisica, evidentemente sentono la mia frustrazione e fallimento come attore, quelle sensazioni si trasmettono a loro e cercano di sublimarle con il loro lavoro”.

Molti di quelli che hanno lavorato con te parlano anche della grande fiducia ricevuta da te sul set.

“Non è banale fidarsi degli attori, ma dentro il rapporto con loro ci sono due realtà solo apparentemente in contrasto. Ovvero inserire la libertà dentro fortissime limitazioni, in un film tutto è preparato, scritto, progettato, immaginato, figuriamoci in una serie e in un presente in cui tutto è più controllato rispetto al passato. In questo steccato devi difendere e cercare la tua libertà, io come regista e loro come attori. Sono piccoli spazi, ma conta la forza con cui combatti per conquistarli: così fanno la differenza. Io non ho mai avuto la possibilità di riunirmi con gli attori per lunghe prove, letture del copione collettive, l’Italia ha una stile che non arriverei a definire cialtronesco e superficiale ma che fa sì che si arrivi sui progetti sempre all’ultimo momento, in cui magari vedi i protagonisti la sera prima e il giorno dopo già giri”.

Capisco l’umiltà, ma spesso e volentieri con te gli attori arrivano dove prima non immaginavano. E forse neanche dopo. Penso al Cossiga di Fausto Russo Alesi in Esterno Notte.

“Intendiamoci, conta tanto il talento e il rigore dell’interprete. Con lui è vero che abbiamo parlato di più del personaggio, della sua misura, anche perché ha lavorato tanto al cinema ma più come caratterista e comprimario: qui invece era un protagonista. Bisognava sottrarre molto al suo talento e carisma molto teatrale,ma senza mai arrivare al grigiore, mantenendo una luce, una potenza espressiva, ma diversa. Mi vengono in mente Mastroianni e Volonté che non facevano fatica a entrare dentro un personaggio e trovar loro le misure, così Fausto che è un grande attore e ha capito dove e come muoversi molto in fretta. Poi attenzione al cinema gli attori sono molto aiutati anche dal montaggio, li proteggiamo e cerchiamo ciò che è meglio per il film e per loro. La sua forza è stata trovare la sua grammatica da attore di cinema e indossarla alla perfezione. Conta tanto il lavoro, penso a Favino che è un fanatico, quasi da diventare noioso, ne Il Traditore fa tre trasformazioni fisiche enormi e lui cura sempre ogni dettaglio, è impressionante. Abbiamo usato anche trucchi prostetici importanti con lui, ma la sua cifra è sempre evidente ed è una somma di dettagli e di cura. Con Fabrizio invece abbiamo scelto di tenere la sua faccia, abbiamo capito che con piccole correzioni poteva sovrapporsi al personaggio. E poi con Fabrizio che devi fare? Che gli devi dire? Come Volonté, devi solo guardarlo e godertelo. Ce ne sono di interpreti bravi nel nostro cinema, penso pure a Margherita Buy (in Esterno Notte Eleonora Moro), un’attrice che ho scoperto tardi ma è grandissima, le dai quattro indicazioni e diventa un’interprete drammatica, lei che sei abituato a immaginarla più come una commediante”.

Mi permetto di contraddirti. “Marx può aspettare” conferma che sei anche un grande attore.

“Sì lì ho voluto esserci, anche se non l’avevo capito subito. Il film è durato cinque anni, inframmezzato da altri progetti, ma tra la prima e ultima ripresa è passato più di un quinquennio. La storia si è fermata, ha ripreso la sua corsa, e a un certo punto ho capito che dovevo esserci anche io davanti alla macchina da presa. Anche io ero un protagonista di quella tragedia, della morte di mio fratello Camillo, gemello peraltro. Ed ero un protagonista del tutto particolare che aveva capito quello che altri non avevano compreso, gli altri non lo avevano chiamato, seguito, non avevano intuito il pericolo che correva. Io però ho fatto me stesso, un attore invece fa più parti. Ma è vero che l’ho fatto con una certa serietà, senza sfottere, senza ridicolizzarmi, la recitazione è una cosa seria, figuriamoci in qualcosa di così importante per me e per la mia famiglia. E poi era l’ultimo momento utile per parlarne, le mie sorelle sono invecchiate, mio fratello Piergiorgio è morto. Io pure non sono un ragazzino”.

Ti ha stupito il successo del film? La partecipazione degli spettatori in termini di quantità e qualità del gradimento?

“No, non potevo immaginare che avesse questo impatto sul pubblico una storia così personale. Credo che abbiano capito la sincerità della storia, anche la serietà del progetto e la cura con cui lo abbiamo portato avanti, dalle aggiunte alle connessioni con i film, l’iconografia così ricercata. Ma sì, non immaginavo che tanti si sarebbero commossi e peraltro in tutto il mondo. Arriva molto, a New York hanno applaudito, NY Times e New Yorker hanno pubblicato recensioni bellissime. E mi piace, ne sono felice”.

Dialogo con Marco Bellocchio

Nasce come un documentario Marx può aspettare?

“In quel film abbiamo capito alcune cose importanti verso la fine, dopo che avevamo raccolto tanto materiale, negli ultimi sei mesi sicuramente c’è stato un salto di qualità e la scelta della cornice narrativa. Io immaginavo inizialmente di sottrarmi al racconto e di ricostruire con la finzione una parte della storia legata ai momenti più tragici dell’accaduto. Ma rivedendo le testimonianze ci siamo resi conto che quelle parole erano più forti di qualsiasi messa in scena e allora ci siamo tenuti come momenti di fiction solo la mia lettura della lettera nella palestra e il mio passaggio sul Ponte Gobbo in cui incrocio un giovane che dovrebbe essere proprio Camillo. Il resto è tutto rapporto diretto con i personaggi. E repertorio, immagini importanti come La Liberazione dei Partigiani di Piacenza, i manifesti del ’48, alcuni comizi”.

Torniamo all’esordio. I pugni in tasca. Mi ha cambiato la vita, ha cambiato il cinema.

“Mamma mia, è passata una vita. Ogni volta che vedo immagini di quel film, ricordo, non so perché, il momento in cui il protagonista entra nella sala dove c’è la madre e canticchia. Credo perché sia una delle poche cose allegre che ricordo di mia madre che ci allietava con alcune romanze delle sue opere preferite, e in particolare quella in scena c’è un pezzo del Rigoletto. Lo aggiungemmo al doppiaggio, insieme Paolo Carlini che dava la sua voce a Lou Castel. È un film arrangiato”.

Trovo affascinante che uno dei capolavori del cinema italiano tu lo definisca “arrangiato”

“No, arrangiato dal punto di vista della produzione. Io volevo raccontare in sceneggiatura una mia esperienza familiare, quella di mio fratello Paolo, schizofrenico. Le sue urla e i suoi comportamenti hanno condizionato la mia famiglia per anni, con mia madre che non capiva che aveva bisogno d’aiuto e che doveva separarci da lui. Io desideravo metter dentro il film questo personaggio ma eravamo a Bobbio e tutti volevano fare il pazzo, perché pensavano fosse facile interpretarlo, che bastasse andare sopra le righe. Un errore che fanno tutti e invece di questo tipo di superficialità bisogna sempre diffidare. Perché farlo bene, un matto, è difficilissimo, ma poi trovammo un ragazzo normalissimo ma che da bambino aveva avuto la poliomielite. E così la disabilità mentale che immaginavo divenne handicap fisico, per necessità. E fu una chiave importante del film che arrivò per motivi casuali e anche di difficoltà produttive nel fare un casting ad ampio raggio. Peraltro lui non ha continuato col cinema, è diventato un impiegato a Bobbio, si è sposato”.

Domanda da un milione di dollari. Quando è arrivato il colpo di fulmine per il cinema?

“Spezzo il romanticismo, non c’è un momento cruciale. Io mi avvicino gradualmente al cinema, studio al Centro Sperimentale, mi diplomo in regia, con 27/30 dietro Silvano Agosti che ottenne il massimo dei voti. Ancora conservo quel diploma nel mio studio, con un po’ di ironia e un po’ d’orgoglio. Non c’era nulla di esaltato, improvvisato ma la consapevolezza di un 23enne introverso – poi il film lo comincerò a 25 – che non voleva fare la gavetta. Non per presunzione, ma perché sapevo avrei avuto difficoltà a stare in mezzo agli altri. Non riuscivo a concepire di passare per l’aiuto regia, volevo capire subito chi fossi, se potessi essere in grado di fare davvero il regista. Scrissi la sceneggiatura de I pugni in tasca, ci credetti nonostante nessuno volle farla. Persino mio fratello Piergiorgio cercò di dissuadermi, ma con tenacia e ostinazione trovai il finanziamento di una banca. E riuscii a farlo. Non mi bastavano i saggi di diploma per sentirmi regista, capii di esserlo nei primi giorni di ripresa, mi divertivo, mi coinvolgeva, volevo imparare a farlo. Poi venne tutto il resto: non c’era la percezione che il film avrebbe avuto una vita così lunga fino a condizionare la mia, mi sbilanciò molto quel film, il suo successo internazionale”.

In che senso ti sbilanciò?

“Difficile spiegarlo razionalmente, provo a raccontarti un aneddoto di quegli anni. Ricordo un grande intellettuale che venne a casa mia e mi intervistò per una rivista per intellettuali. Mi fece delle domande molto complesse parlandomi di filosofia, e io non sapevo nulla. Rimase deluso, mi immaginava erudito in tante materie, immerso in letture profonde e a un certo punto se ne andò indignato. C’è da dire che non ho mai saputo vendermi per ciò che non sono. In questo sono affascinato dai giovani colleghi che rilanciano anche sul più piccolo successo, tesaurizzano, mentre io feci completamente il contrario, arrivò il ’68, una strada differente, dispersi quel clamoroso successo mondiale. Non rimpiango nulla però”.

Dialogo con Marco Bellocchio

Quel film parte da Bobbio. Da cui di fatto non te ne sei mai andato

Bobbio è stata importante, ma l’ho abbandonata, avevo bisogno di un film romano con un’ambientazione romana che mi facesse fare un salto nel vuoto, e che scelsi proprio per rendere più fisico e reale quel distacco e poi più in la con Vacanze in Val Trebbia che voleva essere una separazione con la mia terra ma che in realtà lo era con alcune persone, fine di un matrimonio compresa. Poi a Bobbio sono, siamo tornati quando è nata mia figlia, con Francesca. E ci siamo divertiti facendo tante piccole cose, per me molto importanti, un festival e una scuola e pure dei film”.

Se devo pensare a un punto di svolta nella tua carriera e nella tua vita penso a Diavolo in corpo.

“Che ricordi, soprattutto di critiche ferocissime e censure e scandali per le scene erotiche. Io trovo che sia un film eccezionale nel senso letterale del termine. Una messa in discussione profonda che nasce dall’analisi collettiva con Massimo Fagioli. Le novità, le rotture nascono da profonde scontentezze, avevo proposto a Manzotti, un produttore, di fare un film dal libro di Raymond Radiguet. Ma capii subito che non potevo farlo come volevo, che avevo bisogno di un coautore, e scelsi, in modo “scandaloso”, Massimo Fagioli, su cui si sono dette tante stupidaggini. Nell’essere così diverso da me, quel film lo sento molto vicino, perché mi ha mostrato, insegnato un altro modo che avevo di girare. Solo il Sogno della farfalla può sembrare ancora più estraneo a me, ma intanto è importante perché lì iniziò il mio lavoro con Francesca. Di quella lavorazione ricordo che dissi a Fagioli “io non ho capito un cazzo di ciò che hai scritto ma lo faccio lo stesso”. E ammetto che alcune cose le ho capite poi, dopo averle fatte”.

E poi un’altra svolta è “L’ora di religione“.

L’ora di religione è un film sentito e importante per me, elabora e trasforma quello che era la partenza de I pugni in tasca. Lui ha una madre uccisa dal bestemmiatore (nel film c’è una scena in cui il protagonista bestemmia disperato, una delle preghiere a dio più belle mai viste al cinema – nda) che in Vaticano vogliono fare santa, e il film attraversa tanti temi della mia vita. È chiaro che Sergio Castelllitto ha fatto un lavoro ottimo, attento, profondo e questo è stato determinante. Poi va detto che è stata una delle tante ripartenze della mia vita e carriera, dopo La balia, il principe di Homburg e tanti altri film ancora. Ma ne L’ora della religione c’è la mia vita, rielaborata cinematografica anche contando ciò che avevo fatto prima. Sì è una delle mie opere più importanti e che ho amato di più, anche se subito dopo arriva un lavoro più sfortunato ma che ha anche ottimi colpi come Il regista di matrimoni. De L’ora di religione mi affascinava anche la sua durata temporale, la narrazione è tutta concentrata in due giorni e sì, mentre lo giravo, mi accorgevo quanto mi piacesse farlo. Lo senti, certe volte, quando un lavoro è speciale”.

E lo senti, mentre ascolti Marco Bellocchio, che è una chiacchierata speciale.

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La guerra e la solitudine di Papa Francesco, tra i pochi a chiedere con forza la pace: ce ne parla Alessandro Di Battista con un commento in apertura. All’interno anche il 2024 in Medio Oriente, la crisi climatica, il dramma dei femminicidi in Italia, la cultura e lo sport. Da non perdere, infine, le rubriche Line-up, Ultima fila e Nel mondo dei libri, realizzate da Alessandro De Dilectis, Marta Zelioli e Cesare Paris.

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