L’IDF continua senza sosta il suo massacro verso il popolo palestinese, tra manie di protagonismo e azioni deplorevoli
Tra la percezione di sé che ha l’esercito israeliano e l’effettiva realtà delle cose c’è un abisso. Così profondo da farci precipitare giù tutte le menzogne propinate dai diretti interessati, che oggi, dopo un massacro di oltre 40mila persone, non stanno più in piedi, da qualsiasi punto di vista si analizzi la questione. Ebbene, quello israeliano sarebbe l’esercito più morale al mondo. Un titolo così mendace che non necessiterebbe neanche di ulteriori smentite, perché i numeri prima, e i video poi, dimostrano esattamente il contrario.
Tuttavia, a seguito della recente visita di Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti, e di quanto detto al Congresso USA, ribadire la vera natura dell’esercito israeliano è d’obbligo. Bibi, tra gli applausi e l’ovazione dei parlamentari americani, insieme al colonnello John Spencer, citato nel suo discorso, è riuscito a riscrivere la storia. “Quanti civili sono stati uccisi a Rafah? Praticamente nessuno”, ha dichiarato il primo ministro. Potrebbe sembrare l’affermazione di una persona affetta da un disturbo delirante, eppure così non è. Il premier israeliano ha raccontato una storia al contrario, ed è persino stato acclamato.
“Mi annoio, quindi sparo”
Fortunatamente, però, per amor di cronaca e non certo in senso letterale, ci sono le testimonianze di chi a Gaza c’è stato, che riferiscono un’altra versione dei fatti, quella vera, cruda e ben lontana dalle narrazioni edulcorate che piacciono tanto a un certo tipo di stampa. Qualche mese fa, infatti, il magazine israeliano +972 ha pubblicato un’inchiesta che fa luce sulla condotta, davvero poco rigorosa, del sedicente esercito morale. Ebbene, un riservista dell’IDF, che ha prestato servizio nel nord della Striscia, e che ha deciso di parlare a condizione di anonimato, ha raccontato i dettagli del fronte, dove non v’è traccia di umanità. “Le persone qui [a Gaza] vogliono vivere la guerra appieno”.
Ciò, in alcuni casi, si è tradotto in “sparare senza motivo, in aria, a terra, dentro le case”. “Personalmente – ha confessato il riservista – ho sparato tanto per farlo anche io”. Certo, può capitare che i proiettili vadano a vuoto, spaventando la popolazione. Ma questa è solo la migliore delle ipotesi, perché altre volte, quei colpi partiti senza alcun senso, hanno ferito o ucciso. Si potrebbe pensare poi che questa pratica sia un caso isolato, avvezza ai soli fanatici con la divisa. Eppure non è così, e il perché lo ha suggerito lo stesso testimone: “L’azione di sparare senza che vi sia necessità è chiamata ‘fuoco normale’”. Una sorta di nome in codice per indicare quella che sembra essere una procedura non scritta, ben nota tra le fila dell’esercito israeliano. Tant’è che +972 ha intitolato il suo reportage così: Mi annoio, quindi sparo.
Nell’articolo del magazine israeliano figurano anche altre dichiarazioni di soldati che hanno confermato “il grilletto facile e la libertà d’azione sul campo”. Questo avverrebbe in certi casi con l’appoggio dei comandanti, in altri invece con il loro silenzio assenso. Insomma, briglie sciolte e noia, che non possono di certo essere annoverate tra le medaglie al valore per i membri di un esercito che vuol essere un esempio per il mondo intero.
Uccidere i civili con estrema facilità
A smontare le menzogne di Netanyahu sono gli stessi soldati che hanno prestato servizio a Gaza. Sempre su +972, sono riportate le testimonianze di sei riservisti, membri di una brigata che era di stanza accanto a due corridoi umanitari. Se Bibi al Congresso USA ha dichiarato che “Israele ha salvato i civili dai pericoli a Gaza”, i riservisti – così come i numeri delle vittime e i video che stanno documentando ogni cosa – raccontano ben altro. Già, perché uno dei soldati ha asserito che, questa politica permissiva, “ha consentito di uccidere civili palestinesi, nonostante fossero stati identificati come tali prima di premere il grilletto”. Un episodio spiega meglio le dichiarazioni del militare.
La zona dove operava la sua unità era suddivisa in due aree, una verde e l’altra rossa. Nella prima i civili potevano circolare, nella secondo no, in quanto off-limits per tutti. Tuttavia, all’arrivo dei convogli carichi di aiuti umanitari, accadeva sistematicamente che delle persone, giovani e meno giovani, valicassero il confine in cerca di qualsiasi cosa potesse cadere da quei camion. A questo punto il riservista ha dichiarato quanto segue: “Era chiaro a tutti noi che quei civili che si spingevano nella red zone erano rifugiati, disperati, non avevano nulla”.
Eppure, si può aprire il fuoco su chiunque oltrepassi la linea rossa. “Quando qualcuno entrava nella red zone andava segnalato via radio, dopodiché si poteva sparare, senza attendere alcun permesso”. Ecco spiegata la natura di quelli che troppo spesso, e con approssimazione, vengono definiti “incidenti”.
A confermare questo uso scellerato delle armi è anche il quotidiano israeliano Haaretz, che, in un articolo di Yaniv Kubovich, descrive bene le dinamiche al fronte. Chiunque metta piede nella zona interdetta può essere ucciso in quanto considerato un terrorista. Una definizione quanto mai arbitraria, perché i civili affamati sono tanti, quelli assetati pure. In molti si spingono fin là non per disobbedire, ma per cercare di sopravvivere.
La banalità del male sui social dei soldati
Quel che sta accadendo nel povero e martoriato lembo di terra che è la Striscia di Gaza è ben documentato dai giornalisti e dagli operatori sanitari. Eppure, a tutto questo si aggiunge persino un ulteriore aspetto inquietante, ben visibile sui social più in voga, e alla mercé di chiunque voglia curiosare. Basta dare un’occhiata ai profili dei sedicenti soldati morali. Sbirciando qua e là si possono vedere immagini raccapriccianti di militari israeliani mentre indossano sopra la divisa la biancheria intima di donne palestinesi. Reggiseni e vestaglie issate come bandiere sui loro carri armati. E ancora, soldati immortalati nell’atto di urinare sul sajjada, il tappeto da preghiera musulmano.
L’asticella dell’orrore si alza quando i video pubblicati sui social ritraggono gli uomini dell’IDF intenti a divertirsi con piccoli tricicli, biciclette e bambole di pezza, che una volta appartenevano a dei bambini. Ora in fuga o morti, chissà. C’è poi un video in cui due soldati mettono in scena una finta lezione in quel che rimane di una scuola a Gaza. I banchi sono vuoti, ovviamente, e uno dei militari, sorridendo, chiede se ci sia qualcuno in grado di risolvere un’equazione matematica. Non risponde nessuno, l’aula è vuota, e tanto basta per far sbellicare dalle risa i due militari.
La rassegna è lunga, e sarebbe impossibile riportare tutti i video realizzati in questi mesi di guerra. Tra gli altri, ci sono anche dei sondaggi pubblicati su un gruppo Facebook, in cui un soldato, dopo aver trafugato alcuni oggetti personali dei civili allontanati dalle loro case, chiede agli utenti se i prodotti per il make up in foto possano ritenersi safe, e dunque idonei. Li vorrebbe regalare alla sua fidanzata.
Ancora un esempio: in un video postato su TikTok delle donne in divisa ballano gioiose. Il loro capo è coperto con dei sacchi per la spazzatura, i loro denti sono colorati di nero. Il trend è chiaro e ha fatto il pieno di like: le soldatesse si fanno beffa delle donne arabe che una volta vivevano lì. La banalità del male, verrebbe da commentare, nulla più. I soldati dell’IDF, a dirla tutta, avrebbero persino il divieto di filmare le “attività militari” a Gaza, e non sarebbe ovviamente questo il nocciolo della questione. Tuttavia, infrangono il veto per concedersi un po’ di divertimento, in barba alla legge e a chi tra quelle macerie ci è morto ammazzato.
L’orrore a Sde Teiman
Ci sarebbe poi anche un altro episodio, messo a segno sempre da alcuni membri dell’esercito più morale al mondo. A sud del Paese c’è una base militare, divenuta prigione dopo il 7 ottobre 2023. Si tratta di Sde Teiman, ed è nota per essere buco nero nel deserto del Negev, dove i diritti umani restano fuori dai cancelli. La sua fama la precede e, di recente, è tristemente balzata agli onori della cronaca per via di un fatto eclatante: un detenuto palestinese è stato sodomizzato con la forza da nove soldati israeliani.
Tali violenze hanno portato all’arresto dei militari coinvolti, un evento straordinario per la politica interna di Israele, dove l’impunità regna sovrana e dove le indagini interne dell’IDF quasi mai si concludono con un provvedimento giudiziario [circa l’1%]. E difatti, per tutta risposta, centinaia di manifestanti, compresi dei parlamentari di destra, hanno protestato contro tale disposizione. Anzi, alla Knesset, il Parlamento israeliano, si è persino discusso sulla liceità di poter infliggere pene e abusi ai detenuti gazawi, che agli occhi dei fanatici sionisti sono considerati animali e non esseri umani. Lo scambio surreale tra i deputati Ahmad Tibi e Hanoch Milwidsky spiega accuratamente il livello di odio a cui si è arrivati.
Il primo è il leader di Ta’al, un partito di rappresentanza araba alla Knesset; il secondo è un politico del Likud, ovvero la stessa fazione del premier Benjamin Netanyahu. Ebbene, durante un incontro legislativo, quando Tibi ha domandato se fosse lecito torturare i prigionieri palestinesi, chiedendo letteralmente “se fosse legittimo inserire un bastone nel retto di un detenuto”, l’estremista Milwidsky non ha avuto dubbi nell’affermare che sì, “tutto è lecito contro un nukhba” [membro dell’unità speciale dell’ala militare di Hamas].
Quindi, a una certa destra, messianica e sempre più popolare, poco importa dei diritti umani. E ancor meno importa dei ripetuti appelli dell’ONU, che nell’ultimo rapporto di giugno ha denunciato “l’utilizzo sistematico di abusi sessuali e trattamenti disumani sui palestinesi”. In un Paese di apartheid travestito da democrazia i diritti valgono per i soli appartenenti alla “razza fortunata”. A chi subisce, invece, nulla è concesso.