È uno degli scrittori più raffinati e affascinanti della letteratura contemporanea. È un prestigioso critico teatrale che da svariati decenni collabora con Il Corriere della Sera. Per coloro che calcano le scene, un suo giudizio è un termine di paragone imprescindibile. Il suo ultimo libro: Tao 48, definito come un insieme di tessere che formano un mosaico complesso e affascinante. Tra le sue opere recenti, la più nota è Il duca di Mantova. Tra quelle, sempre recenti, più intimistiche e toccanti sotto il profilo emotivo, e che richiede una sottile capacità di lettura: Una sostanza sottile. Franco Cordelli è, certamente, uno degli scrittori e degli intellettuali più prestigiosi del nostro tempo. Una voce autorevole, obiettiva, che affascina e invita sempre alla riflessione: mai banale, mai scontata. Una lingua, quella di Cordelli, levigata e lavoratissima, altamente musicale, piena di luce e di energia. Noi de il Millimetro abbiamo deciso di incontrarlo per conversare con lui sulla sua vita, le sue passioni, su teatro, cinema e letteratura. E Cordelli, con la gentilezza e la squisitezza che da sempre lo contraddistinguono, ha subito accolto l’invito.
Parliamo di ricordi. Quali sono stati i primi film e i primi libri che hanno acceso la sua passione per la letteratura e l’arte in genere?
Il primo serio ricordo che ho in proposito riguarda il cinema. Era il 1960, il 3 febbraio per l’esattezza. Stavo per compiere 17 anni. Mi trovavo davanti all’ingresso del cinema Fiamma dove, per la prima volta, si sarebbe proiettata La dolce vita. Attendevo con ansia di poterlo vedere. Perché, mi chiedo ancora oggi, un ragazzo di 17 anni desiderava vedere un film come quello? Me lo sono domandato parecchie volte, ma ancora non ho trovato la risposta giusta. O forse non mi ricordo le ragioni che avevo allora da adolescente. Fatto sta che non riuscii a dormire per quanto ne rimasi colpito, affascinato e anche turbato. Le immagini di certe scene mi perseguitarono per tutta la notte. Si tratta di un film che, nel tempo, non ho mai smesso di amare come, invece, è accaduto per altri film e altri libri. E anche con alcune persone, che prima si amavano e poi non le si ama più, oppure le si ama in un modo diverso da come si ricordava. E debbo dire, tornando alla Dolce vita, che Fellini non è tra i miei registi preferiti. Ma questo suo lavoro è rimasto una costante della esistenza. Quanto ai libri, dopo le letture fatte nell’infanzia, il primo serio – che non ho più riletto e che penso sia abbastanza mediocre – fu Vacanze di Natale di Somerset Maugham. La mia formazione intellettuale, però, si è compiuta sui maestri del modernismo novecentesco: l’Ulisse di Joyce e L’uomo senza qualità di Musil.
Autori e opere costanti nel suo percorso intellettuale?
L’Ulisse non l’ho più riletto. Musil sì. Mi colpisce, dell’Uomo senza qualità, l’elemento saggistico di tipo sociologico, ma anche psicanalitico. Poi aggiungerei, oltre a questi due, anche Proust, sebbene sia stato meno importante. Ma, paradossalmente, è stato l’autore che ho letto di più, in particolare La prigioniera e Il tempo ritrovato.
Come mai?
Li ho ripresi in mano in momenti importanti della mia vita. Proust è un autore che mi è stato di aiuto e conforto. Quindi importantissimo, sebbene in senso diverso rispetto a Joyce e Musil.
Quindi considera questi tre scrittori i suoi maestri?
No. Il mio maestro, lo scrittore che considero tale, è senza dubbio Malcolm Lowry. Sotto il vulcano è il suo libro che ho amato di più in assoluto. Al punto che una decina di anni fa, quando seppi che un regista belga lo avrebbe ridotto per le scene, presi l’aereo e andai a vederlo pur sapendo che si sarebbe trattato di uno spettacolo modesto. Andai ugualmente per poterne scrivere. Sono un po’ di anni che non rileggo Sotto il vulcano, ma è un libro che continuo ad amare e sono più che certo di quello che dico.
Che rapporto ha Franco Cordelli con se stesso?
Non mi compiaccio mai. Lo trovo ridicolo. Occasionalmente possono piacermi gli articoli che scrivo, qualche mio libro. Ma, di me, non ho grandi cose che trovo così divertenti.
Perché?
Per uno scrittore come me, che si è formato attraverso i libri che ho citato, è normale dire questo. Non posso neppure pretendere di avere chissà quale pubblico di lettori. Ma ciò va benissimo per la battaglia che ogni scrittore deve intraprendere con sé.
Vale a dire?
La vanità. Averla, per quanto mi riguarda, è sciocco. Ed è d’obbligo batterla. Lo penso da sempre. Certo: fui contento di pubblicare Procida, Le forze in campo, I puri spiriti. Ma già l’essere contenti di questo era, per me, una manifestazione di vanità.
Non le piacevano quei suoi libri?
Più che altro, quando scrissi Procida, non mi piacque la forma diaristica che diedi al libro. La eliminai. Poi, in una edizione uscita di recente, l’ho ripristinata. Ma, all’epoca, non mi piacque proprio.
Perché?
Appunto per il discorso che facevamo prima sulla vanità che lo scrittore dovrebbe a mio avviso combattere. Però, in quel periodo, stiamo parlando degli anni Sessanta e Settanta, c’era l’avanguardia letteraria, quella del Gruppo 63 per capirci. Io mi sentivo, letteralmente, con le spalle al muro. A parte Giuliani e Pagliarani, gli scrittori di quel consesso non mi piacevano. Anzi: li detestavo. Sapevo che quello non era il mio territorio. Che potevo fare? Nient’altro che ricominciare da capo. E scelsi una delle forme letterarie più naturali e spontanee: il diario.
Cosa considera importante e imprescindibile nella vita?
Certamente la comunità, che per me non è un valore ideologico ma affettivo. Ovviamente anche l’amore: sia quello canonico che include il lato erotico, che quello per gli amici. Ma ciò che per me conta molto è il senso dell’affettività nei tanti modi in cui si manifesta.
Lei è un importante e prestigioso critico teatrale…
Più che altro, amo definirmi un cronista teatrale.
Come ha cominciato?
Sono stato fortunato. Malgrado fossi andato a teatro molte volte, la mia passione era il cinema. Fin da quando facevo il liceo, avevo ben chiare due cose che nella mia vita non avrei mai fatto: il servizio militare e il lavoratore dipendente, con orari da osservare e un capo a cui render conto.
E ci è riuscito mi pare, no?
Per quanto riguarda il servizio militare, fui esonerato perché avevo 5,5 gradi di miopia. Per quanto riguarda l’aspetto del lavoro, le cose andarono così. Ero uno studente universitario. L’assistente di Giacomo Debenedetti: Walter Pedullà, col quale ero in rapporto di amicizia, dirigeva le pagine culturale de L’Avanti e mi chiamò per scrivere qualche articolo e qualche recensione. All’epoca io lavoravo come commesso in una libreria, che oggi non c’è più, e che stava tra Piazza del Popolo e Piazzale Flaminio. Venivo pagato in libri. Divenni amico del proprietario, Gastone, al quale quando dicevo che c’erano dei volumi che mi interessavano, me li faceva prendere senza problemi. A pochi metri da lì, abitava Elio Pagliarani, il quale aveva iniziato a occuparsi di critica teatrale per Paese Sera. Pagliarani lesse le recensioni e gli articoli che scrissi per L’Avanti, gli piacquero e mi chiamò chiedendomi di collaborare in qualità di critico drammatico per Paese Sera. Pensai: “Ce l’ho fatta”. Compresi che quello era il mio colpo di fortuna.
E non ebbe torto.
Fui fortunato, sia come occasione professionale che come momento culturale. Quelli furono gli anni dell’avanguardia teatrale italiana: un periodo felicissimo che, insisto nel pensarlo e ne sono sempre più convinto, non ebbe, non ha e mai avrà eguali, sia in Italia che all’estero. In quegli anni lì mi sono fatto le ossa, a torto e a ragione.
Cioè?
Nel senso che iniziai a mostrare insofferenza nei confronti del teatro cosiddetto “tradizionale”, all’epoca rappresentato dalla Compagnia dei Giovani di De Lullo e Valli. A proposito di Romolo Valli, c’è un episodio che ricordo ancora con un po’ di rimpianto.
Lo vuol raccontare?
Quando divenne direttore artistico dell’Eliseo di Roma, Valli mise l’orario serale di inizio spettacolo alle 20:30. Cosa che, per me, era una follia. Roma era, ed è fondamentalmente, una città di impiegati. Per chi finiva di lavorare alle 18:00, andare a casa, lavarsi, mettersi l’abito e uscire per andare a teatro alle 20:30 era impossibile. Scrissi un articolo ferocissimo, al quale Romolo Valli rispose risentito. Poco dopo, morì nel modo sfortunato e disgraziato che tutti conosciamo. Uno dei miei grandi rimpianti fu quello di non averlo mai conosciuto e di essere stato aggressivo nei suoi confronti in quell’articolo che scrissi.
Lei si considera una persona aggressiva, intellettualmente parlando?
Di base non lo sono. Però posso esserlo. Credo sia un lascito dell’avanguardia.
Il nome di Franco Cordelli, nella critica teatrale, vuol dire severità e rigore.
Mi capita di essere rigoroso e, ripeto, talvolta anche aggressivo, quando mi accorgo di vedere uno spettacolo evidentemente mediocre che presume troppo di sé. In quel caso divento severo e posso anche essere aggressivo. Se, invece, mi trovo di fronte a uno spettacolo sì mediocre, ma che non vuole apparire di più rispetto a ciò che è, mi limito alla registrazione del fatto ed evito di infierire.
Ha memoria di qualche spettacolo che ha scatenato la sua severità e motivato il suo rigore?
Lo zoo di vetro per la regia di Leonardo Lidi, dove i personaggi erano vestiti da clown e si muovevano come tali. Un’interpretazione che trovai orrenda. Oppure Il compleanno di Pinter per la regia di Peter Stein, che mi parve senz’anima, senza alcuna vibrazione. In questo caso, pur trovandosi di fronte a un grande maestro della regia, bisogna dire ciò che si pensa senza andare troppo per il sottile. Io, almeno, la vedo così.
Come critico teatrale lei si è formato on the job.
Assolutamente sì. Non lessi nulla per prepararmi. Poi, naturalmente, negli anni ho letto i vari recensori drammatici. Ma, praticamente, mi sono fatto le ossa sugli spettacoli di Memè Perlini, Simone Carella, Giancarlo Nanni; andando nelle cantine romane dove debuttarono, per citare due nomi oggi famosissimi e che recensii io per primo su Paese Sera, Carlo Verdone e Roberto Benigni.
Il teatro italiano, sotto il profilo artistico, non sta attraversando un bel momento. O mi sbaglio?
La ragione, quella a mio avviso più importante, del malessere del nostro teatro risiede nel fatto che bisogna farsi tutto da soli. Ma da sempre. Chi fa teatro, deve mettere in gioco non qualcosa soltanto, ma la propria vita. Il punto è: chi sei? E soprattutto: cosa proponi? Essere capocomici di se stessi non è facile. Non lo è mai stato, proprio perché bisogna mettersi in gioco totalmente, completamente. Simone Carella e Giancarlo Nanni, che ho citato poco fa, non erano mica ricchi. Anzi! Eppure, rischiarono senza riserve e oggi ancora li si ricorda. Quello che hanno realizzato resta. Se non si capisce questo, non vedo come porre fine al malessere del nostro teatro.
E la critica teatrale?
Non la si vuole più. I giornali hanno tolto, gradualmente e radicalmente, spazio non solo alla critica teatrale, ma alla critica tout court. Ormai si fanno solo interviste e presentazioni. In Italia è così. All’estero non so. Ma credo che la situazione non sia tanto diversa nelle varie nazioni dell’Occidente.
Franco Cordelli scrittore. Il suo ultimo libro, Tao 48, è uscito l’anno scorso. Ha già qualche idea per il prossimo?
Non lo so. Non c’è mai stato un mio libro che avevo razionalmente programmato di scrivere. Non prevedo nulla e vorrei non prevederlo. Per La nave di Teseo usciranno, gradualmente, le mie opere. Il prossimo titolo sarà I puri spiriti. Libri nuovi, per il momento, non so e vorrei non sapere. Poi la vita sorprende sempre. Accadono episodi particolari, che ti segnano, che non immaginavi sarebbero potuti succedere e sui quali inizi a fantasticare e, quindi, a scrivere. Vediamo.
Si riferisce a qualche episodio in particolare?
Penso per esempio a quando rividi, dopo anni, Maurizio Rosenberg Colorni, che con quel cognome, per me che sono un fanatico di Ventotene e dell’idea di Europa che da lì uscì, vuol dire tantissimo. Oppure all’episodio di embolia che ebbi subito dopo la scomparsa di mia madre: due minuti in più e sarei morto. Sono eventi che non ti aspetti, che incidono in profondità nell’animo e sui quali si torna a pensare di continuo. E da questi ripensamenti, può accadere che venga fuori un libro. Ma, come ripeto, questo non lo so mai in anticipo. Penso che un libro debba nascere da sé, liberamente. E credo non si debba sapere in anticipo, o programmare, se sarà un romanzo, o una narrazione, o un saggio.
Che rapporto ha con la politica?
Mi riallaccio a quello che dicevo prima sulla comunità, che sento più come un valore affettivo che ideologico. Se ripenso al mio passato, mi viene in mente una persona che su di me ebbe un’influenza profonda: il professor Enzo Monferini, padre di Augusta che fu direttrice della Galleria Nazionale di Roma. Mi ricordo che quel professore del liceo Tasso ci raccontò delle sue amicizie con persone straordinarie come Pavese e Argan, delle sue battaglie da partigiano durante la Resistenza. Tutto questo mi formò in modo decisivo. Poi mi ricordo il ’68, gli episodi di Villa Giulia. Io c’ero. E con me c’erano anche Paolo Mieli e Giuliano Ferrara. Rispetto ad allora sono cambiato, siamo cambiati. Riguardo alla politica, potrei dire – in virtù di quello che ho appena ricordato – che mi sento di sinistra. O per lo meno mi sentivo di sinistra. Oggi, onestamente, non so più cosa voglia dire essere di sinistra. Ma questo non perché io rinneghi ciò che sono stato e alcuni momenti fondamentali della mia vita. Ma perché, essendo per me dei modi di essere e non delle ideologie, di volta in volta dobbiamo sempre porci sotto analisi e cercare di comprendere come stiamo mutando rispetto al tempo che passa. O, almeno, io così faccio.