La comunicazione elettorale mina la verità

La storia della politica americana passa dall’informazione e da come vengono veicolati alcuni messaggi: tutto quello che c’è da sapere a ridosso delle presidenziali

Yes she can. Tre parole, e Barack Obama, che per qualche ora dopo l’abdicazione di Joe Biden sembrava poter tornare da VicePresidente (e che potrebbe invece cambiare molte carte in gioco con un ruolo all’Onu, pare), ha messo le ali alla comunicazione elettorale di Kamala Harris, proprio nelle ultime ore. Potremmo analizzare in modo accurato come quel we che diventa she ci dica tanto, troppo di come sia cambiato il mondo, l’elettore medio, lo sguardo sul futuro di una generazione, ma non lo faremo. Quelle tre parole che sono state l’ultimo appello all’idealismo della politica occidentale – finite ahinoi per diventare utopia da t-shirt e hashtag – e sono l’unica cosa che amiamo vedere della politica a stelle e strisce. Quella che si auto dipinge come corretta, perfetta, giusta.

Kamala Harris pronta a sostituire Joe Biden
Joe Biden e Kamala Harris (foto LaPresse) – ilMillimetro.it

Quella che importa la democrazia esattamente come la esporta, a forza di slogan ma rimanendo debole di principi. Tutto questo avviene sempre con la solita strategia: la manipolazione propagandistica delle informazioni. In qualche modo la Convention democratica in corso ne è un esempio, ma simboleggia al contempo una rottura di questa tendenza. E tutto si gioca sui coniugi Obama: unisce, blandisce, incoraggia Barack, spara su Trump senza tanti sconti (anzi), Michelle, che in fondo in Kamala Harris vede un’occasione. Persa o rimandata, lo sapremo in futuro.

Tutto nacque… con Lincoln

La propaganda manipolatoria è da almeno 40 anni la stella polare della comunicazione elettorale e bellica statunitense. Che siano armi di distruzioni di massa fantasma o false informazioni sugli avversari politici, poco importa, la struttura è sempre la stessa e obbedisce a un principio connaturato alla fondazione stessa degli Stati Uniti moderni. Già, perché se per il senso comune il machiavellismo è solo europeo (ed europea e molto è la Convention dem di questi giorni, ma ci torneremo fra poco), in realtà il fine che giustifica i mezzi, ad ogni costo, è soprattutto il seme fondante dell’american dream. 

Per capire la comunicazione americana, bisogna tornare indietro di qualche secolo
Abraham Lincoln fu il sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America – ilMillimetro.it

Ricordate Lincoln di Spielberg? Il regista da troppi, stupidamente, definito alfiere di quel sogno americano, buonista e consolatorio? Ecco, solo gli stolti in quel film guardano il dito della conquista della libertà per gli schiavi ignorando la luna di come questa sia stata ottenuta. E fu ottenuta corrompendo cinque senatori. Deliberatamente, programmaticamente, diremmo pure serenamente. Con quel capolavoro e una successiva, terribile scena di devastazione Steven che non è la vestale dell’American dream, ma il custode della sua reale portata, ci dice che quel peccato originale, che ha portato un progresso fondante e fondamentale in quella società, ha pure corrotto per sempre il sistema. Senza gli anticorpi ormai stanchi del disincanto europeo, ma con il fondamentalismo ottuso di quel popolo incapace di mettersi in discussione, ma solo di proclamare sé stesso come faro.

Nel bene e nel male, dando per scontato di essere sempre dalla parte giusta. Nella comunicazione elettorale tutto questo è rimasto – parzialmente – nascosto o sotto controllo fino all’elezione di Ronald Reagan. Per carità, abbiamo Roosvelt e Pearl Harbour (sapeva? Ha lasciato fare?), ma in guerra e in amore, si sa, tutto è permesso. E, diciamocelo, il primo scontro televisivo Kennedy-Nixon fu troppo rivoluzionario nei mezzi e nell’espressione per necessitare di un doping di fake news o simili. Ma gli anni ’80 portano il turbocapitalismo deregolamentato, l’esplosione dei media endemici e un crollo dei valori che si risolve con l’abdicazione della politica (fino ad allora candidati e presidenti erano più o meno figli delle grandi famiglie americane, che fossero aristocrazia borghese, militare o in minima parte intellettuale) in favore dell’immagine.

Un ex attore è il perfetto frontman per la ri(n)soluzione in atto. Obbedisce alla risacca in cui l’uomo comune diventa un vessillo e, diventandolo, viene strumentalizzato e tradito. E qui comincia la valanga. Quella che ha portato per intenderci all’ondata di sabotaggio digitale russo, quella disinformazione esplosa come un virus da Twitter ora X (Musk is the new and old Trump contemporaneamente, con i suoi satelliti che condizionano la guerra in Ucraina e i social pilotati da lui e Zuckerberg) ma che nasce dalla Guerra Fredda, proprio da quegli Stati Uniti che l’hanno coccolata come hanno fatto con i talebani, finché non gli si è rivoltata contro. Convinti come sono sempre che loro il male possono domarlo, perché sono nel Giusto, e non pensando mai, come succede nei grandi blockbuster hollywoodiani, che “quell’arma in altre mani potrebbe provocare la fine del mondo”. Che poi, pure nelle loro, non è che scherzi. 

Una frase freudiana che conferma come Hollywood, peraltro, sia da sempre la coscienza proiettiva del sistema USA, la scatola nera di tutte le sue paure e di tutte le sue ambiguità, puntualmente in procinto di diventare realtà. Da qui c’è chi la definisce profetica, ma potremmo semplicemente considerarla sillogistica. 

1988, la rivoluzione mancata di Dukakis

Tornando a noi, comunque, c’è probabilmente una data in cui si è arrivati al punto di non ritorno. È il 1988, Ronnie in due mandati ha asfaltato tutte le (già limitate) garanzie legislative in favore delle multinazionali di cui è il fantoccio, nascondendole dietro il disarmo deciso con Gorbaciov (fatto così male e alla ricerca di un salvagente per i rispettivi pachidermici apparati militari da diventare, di fatto, un pericoloso e frammentato vivaio nucleare a disposizione di troppi). 

La politica a stelle e strisce continua a far rumore
La storia della comunicazione americana – ilMillimetro.it

I repubblicani, ormai depositari degli interessi del neoliberismo e dei nuovi poteri, devono continuare il loro regno, faticosamente costruito da Rumsfeld, i Bush e soci fin dall’inizio degli anni ’70 – un arco che da semplici conservatori li porterà a diventare teocon poco più di un decennio dopo – e scelgono un uomo altrettanto manipolabile ma più interno al sistema. George W. Bush padre. I democratici, come spesso accade loro, fanno una scelta lodevole ma poco incline alla contemporaneità. Micheal Dukakis: uno che ha posizioni dure sul neoliberismo, contrario alla pena di morte e critico sulle leggi sulle armi, di sinistra per quanto lo si possa essere negli Usa.

Ma poco a suo agio in tv e negli scontri all’ultimo sangue. È un ex attivista, un intellettuale borghese, un professore (e tale tornerà dopo la fine del suo governatorato nella radical Boston). Piace, nonostante il carattere introverso. Per farvi capire chi fosse l’uomo che avrebbe radicalmente cambiato l’America se ne avesse avuto l’opportunità, fu il governatore del Massachusetts che ha riabilitato Sacco e Vanzetti. Così, per dire. E i repubblicani, allora, rompono il soffitto di vetro del fair play. Da Bush che lo chiama razzisticamente Zorba il greco, alle fake news che sostengono, senza alcuna prova, che la moglie in una manifestazione contro il Vietnam, da minorenne, abbia bruciato una bandiera americana. Ah, gira una voce, con tanto di medico che lo analizza a distanza, che lui sia un malato mentale.

Incredibile, vero? Non vi risulta nuovo o sbaglio? Trentasei anni prima, si era già arrivati a quell’abiezione (e nel frattempo siamo passati per Hillary Clinton e la classe dirigente dem pedofila, QAnon e campagne elettorali con fotomontaggi, video fake e i social pieni di not). Dietro le quinte di quella macchina del fango, nel 1988, più o meno organici ai conservatori, ci sono due magnati della comunicazione e in un caso, anche dell’immobiliare. Rupert Murdoch, che non a caso proprio dal 1989 inizia la sua scalata inarrestabile, cominciata con gli studios della 20th Century Fox comprati nel 1981 (pagherà la sua cambiale a Bush figlio con Fox News), e Donald Trump, che è più pacchiano, decisamente meno abile ma più capace di bucare lo schermo (tanto da finire protagonista di un talent anni dopo).

Ora siamo a un punto di rottura. Sembrano essersene accorti i democratici, che nella loro convention hanno scelto un’unità di intenti e una sobrietà espressiva, ma come dimostrano gli Obama comunque muscolare (lo sarà abbastanza?), inusuali rispetto al passato. Scelta coraggiosa e rischiosa – di fronte c’è un Trump che, probabilmente anch’egli in una senilità esponenziale promette addirittura che queste elezioni saranno le ultime – che pagò con Biden, anche se in zona Cesarini. Alexandra Ocasio Cortez inneggia a Kamala Harris senza parlare del suo cavallo di battaglia, l’immigrazione, per non far paura agli indecisi, gli Obama tornano dalla naftalina in cui li ha costretti l’ex vicepresidente che ne temeva la popolarità a doppio taglio nella scorsa tornata elettorale, e sembrano più giovani, moderati e sfacciatamente belli.

Anche Bernie Sanders con il suo “fermiamo Trump e la guerra a Gaza” richiama all’unità. E gli attacchi a Donald sono sì duri, ma fuori dallo scherno triviale o le scorrettezze, e vale anche per i sostenitori “non official”. Tutti lavorano sui loro territori e sui finanziamenti (200 milioni di dollari nei primi 10 giorni raccolti da una Harris non ancora investita ufficialmente della candidatura dicono tantissimo), quasi a voler tornare politici e non più mediatici. Provano un cambiamento culturale, prima che politico ed elettorale. Con tempi brevissimi, ma come insegna No di Pablo Larrain, quando non hai dalla tua media, denaro e potere, devi usare le idee. E gli ideali.

Joe Biden, tutta la verità

E in questo cambiamento di prospettiva, forma e quindi anche contenuto, va sottolineata il ruolo di padre nobile di Joe Biden. Che Kamala Harris l’ha scelta quando non conveniva (troppo giovane e nera per un Trump che viaggiava verso una possibile rielezione) e che ora, vittima di un tiro al piccione, anche interno, clamoroso, ha pensato al paese e al partito. Poteva essere l’unico a poter dividere, a creare una corrente nemica o almeno ostracista alla nuova candidata, ma in questo anti trumpismo che sembra il nostro antiberlusconismo, eticamente, moralmente e persino emotivamente (il senso di vergogna e la grottesca percezione del sé statunitense all’estero), lui ha indicato la via.

Il presidente americano lascerà a fine mandato
Joe Biden sta per passare il testimone a Kamala Harris (foto LaPresse) – ilMillimetro.it

Lui che prova un rancore sordo per chi lo ha prima escluso e poi umiliato – con tanto di fake news che lo volevano in fin di vita o devastato dall’Alzheimer (non sembrava proprio, a Chicago) -, lui che almeno in due gaffe su tre di quelle utilizzate per “terminarlo” è stato manipolato secondo una strategia quasi repubblicana. Eppure non c’è stato sostenitore più forte e granitico di Joe, per Kamala. Se arriva forte, la candidata, alle prime battaglie contro Donald Trump, lo deve all’uomo che ha rinunciato alla verità su di sé, ignorandola nel discorso, per poter consegnare al mondo libero e al suo paese una presidente capace e che potrebbe continuare ciò che lui ha iniziato.

Sì, perché quella verità comunque va detta. Se è vero, infatti, che su Biden pesa drammaticamente la scelta sull’Ucraina – una scelta che però era davvero difficile da evitare, per gli Stati Uniti molto più che per l’Europa, e che per molti versi era “obbligata” – va detto che nessuno come lui ha costruito un percorso politico più coerente e che ai risultati di mid term, con cui si cerca sempre di vincere diffondendo dati economici trionfali e non di rado figli di contingenze altre (precedenti amministrazioni, bolle economiche), ha sempre preferito quelli di lungo termine. E così il vicepresidente che ha usato il piano di rinascita obamiano per le grandi opere che hanno portato un progresso reale agli Usa – andando sui cantieri, spesso, e operando un controllo ossessivo sui finanziamenti, fino ad arrivare ai 1000 miliardi di dollari del piano che prendeva il suo nome nel 2021, da presidente – ha rinunciato a ricordare a tutti che forse potrà sembrare pure rincoglionito in tv, ma da tempi immemori non si vedeva una crescita strutturale tale da queste parti. 

Joe Biden è il presidente che ha più investito nelle infrastrutture ma pure (1850 miliardi di dollari) nei piani socio-ambientali, l’economia americana cresce a tassi che Trump, che pure li rivendicava, si sognava nei quattro anni precedenti, l’immigrazione (ammesso che sia un valore, ma da quelle parti lo è, così come il calo dell’inflazione) ha raggiunto un maggiore equilibrio entrate (minori) – benessere del paese e di chi ha passato il confine (con annesse regolamentazioni delle loro posizioni). Le leggi sulle armi per la prima volta sono diventate più restrittive e non hanno allargato le maglie.

Mentre i media – complici del disastro degli ultimi 4 decenni – contavano le gaffe di Biden, ne facevano un’icona grottesca, usciva un report della Brookings Institution e de Mit (come ha ricordato qui da noi solo Il Foglio con la bravissima Paola Peduzzi) che testimoniava come gli investimenti statali nell’America profonda, territorio di caccia proprio di Trump, abbiano rilanciato ben 1000 piccoli centri e riportato i privati a pompare fondi laddove negli ultimi tempi si erano chiuse fabbriche, dislocati finanziamenti e affini. E la fiducia dei consumatori, che dalla East e la West Coast è una bibbia è ai massimi storici. Insomma, niente male per chi è stato dipinto come un vecchio pericoloso.

Gaza e Ucraina, quali sono le colpe di Biden?

La politica estera? Il tallone d’Achille di tutti. Pensate a Obama, nessun presidente Usa ha coinvolto il suo paese in più guerre (e in Diegopolitik abbiamo visto che in questo senso c’è una classe dirigente immortale, incarnata per almeno 60 anni dall’appena scomparso Henry Kissinger, che all’estero ha usato anche terroristi e terrorismi per ribadire la propria supremazia dall’Operazione Condor durata un quarto di secolo in Sud America passando per la Cia che spadroneggiava in Italia). 

Gli Stati Uniti hanno sostenuto sin dall'inizio l'Ucraina nella guerra contro la Russia
Joe Biden e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky (foto LaPresse) – ilMillimetro.it

Ma proviamo ad analizzare Ucraina e Gaza, i due punti più sanguinosi del suo mandato. In un caso pensate a un presidente nordamericano che è costretto a ribadire, di fronte a uno degli attacchi più feroci e inaspettati (durava da 9 anni quell’occupazione, l’escalation non poteva essere prevista in quei termini), il senso profondo dell’alleanza Nato di fronte alla solita, imbarazzante inazione europea. Prima pensatevi un momento in Finlandia, però, e poi rispondete. Finito? Ora pensate ai prossimi 10 anni, cosa si chiedeva a Biden? Un patto Molotov-Von Ribbentrop che poi avremmo scontato con Putin che si riprende la Germania Est? Davvero Zar Vladimir può essere storicamente sottovalutato? Ovvio che poi, probabilmente, l’escalation, anche perché Joe ha perso potere a causa degli attacchi interni, sia stata eccessiva e poco controllata, ma qual era l’alternativa? Gaza.

Ricordate un altro presidente che abbia posto così tanti paletti e critiche a un premier israeliano del Likud? I livelli di frizione tra le due leadership da sempre alleate di ferro ha raggiunto criticità mai viste prima. E questo, di nuovo nel periodo di maggior debolezza della sua presidenza. E, ma questo la lasciamo come considerazione al nostro Alessandro Di Battista, non è poi così di poco conto la risoluzione, seppur compromissoria e non del tutto soddisfacente eticamente e politicamente, della questione Julian Assange. Mentre veniva attaccato da un nazionalismo sciovinista e propagandistico, oltre che paranoico, da Trump e dalle destre statunitensi, Biden ha più volte aperto alla liberazione del nemico pubblico numero uno. Non male per uno chiamato Sleepy Joe.

Troppo poco e non abbastanza decisivo? Siamo d’accordo, ma stiamo parlando degli Usa. Un posto in cui se da candidato dici che il PIL non dà la felicità, ti ammazzano nelle cucine di un albergo. Insomma, abbiamo visto di peggio. Ecco, i dem rivendichino questo ultimo mandato. Come Trump fa, seminando bugie, con il suo che ha quasi distrutto l’Occidente e si è concluso con un tentativo di golpe. Altrimenti non solo non si farà giustizia del povero Biden – che peraltro ha scelto, in parte involontariamente, il momento migliore per andarsene, oscurando l’attentato con tanto di posa plastica e retorica dell’avversario e lanciando la convention dem tenendosi addosso tutto il fango possibile che ora può ritorcersi, almeno anagraficamente, su Broke Don -, ma per costruire una nuova era politica in cui arginare fenomeni come il trumpismo. Che non solo sono endemici ma, come dimostrano Bolsonaro, Orban, Milei e molti altri, epidemici. 

Maiali hitleriani – sarebbe il soprannome che lo staff di Biden aveva affibbiato a Trump e ai suoi – che potrebbero rendere un porcile questo mondo. Più di quanto non lo sia già. Ecco, riflettendo sulla comunicazione moderna, cominciamo anche ad analizzare più a fondo e senza faziosità la storia che si dipana davanti a noi. Così, forse, invertiremo una tendenza pericolosissima. Nessuno dovrebbe saperlo meglio di noi che permettevamo a Silvio Berlusconi e soprattutto al berlusconismo di massacrare il tessuto politico, sociale, economico ed etico dell’Italia (anche lì, colpa sua o di chi aveva permesso che quella pianta nascesse rendendo il terreno fertile?), mentre facevamo le pulci alle sue cene eleganti, alle sue barzellette e alle sue questioni di letto. Mentre con dieci domande ridicole e pericolose – immaginate se le avessimo fatte ad altri leader – spiavamo la sua vita sessuale neanche fossimo in una commediasexi, il paese crollava su sé stesso, finché l’Europa non lo ha commissariato e noi esultavamo nelle strade perché, diamine, calpestando la nostra sovranità, ci aveva liberato dell’orco!

Di fatto, scegliemmo di abbassare la comunicazione del paese (pensate ai soprannomi che il candidato repubblicano dà ai suoi avversari e poi a quelli che ogni tanto compaiono negli editoriali del Fatto Quotidiano), al livello in cui lui si sentiva più a suo agio. Se ci rifiutiamo di considerare la presidenza Biden con distanza e obiettività, se per seduzione divertita e superficiale accettiamo di farlo diventare un meme, Trump ha già vinto. E su questo i democratici hanno ragione, quello è un pericolo che non è possibile correre. Non di nuovo, Capitol Hill ci ha già spoilerato il finale di un suo ipotetico mandato.

Per acquistare l'ultimo numero della nostra rivista clicca qui:

Zombieland

Il narcotraffico e l’arrivo del fentanyl, la nuova droga che spaventa il mondo. Anabel Hernández, giornalista e scrittrice messicana, nota per le sue inchieste sui trafficanti e sulla presunta collusione tra funzionari del governo degli Stati Uniti e i signori della droga, ha analizzato la questione con un approfondimento in apertura. A seguire, Alessandro Di Battista è tornato sulla questione ucraino-russa, mentre Luca Sommi (new entry e giornalista del Fatto Quotidiano) ha presentato il suo nuovo libro “La più bella, perché difendere la Costituzione”. All’interno anche Line-up, Un Podcast per capello, Ultima fila e Nel mondo dei libri, le consuete rubriche di Alessandro De Dilectis, Riccardo Cotumaccio, Marta Zelioli e Cesare Paris.

Abbonati alla Rivista

il Millimetro

Ricevi ogni mese la rivista con spedizione gratuita, il formato digitale per email e ogni sabato la Newsletter con gli approfondimenti della settimana

Ultimi articoli

Tutto quello che c'è da sapere sul sabotaggio
Le storie estive che hanno fatto impazzire gli italiani
Il mondo si muove per salvaguardare il mare
il Millimetro

Newsletter

Approfondimenti, interviste e inchieste direttamente sulla tua email

Newsletter