L’ombra di una regionalizzazione del conflitto israelo-palestinese si estende sul Libano
La polveriera mediorientale si è surriscaldata nel giro di un paio di giorni. Attacchi e rappresaglie condotti da nuovi e vecchi attori in Siria, Libano, Iran e Iraq sembrano comporre gradualmente il puzzle più temuto: l’unione di più crisi distinte con un potenziale esplosivo capace di appiccare un incendio regionale. Ma andiamo per ordine.
Primo: il 25 dicembre, viene ucciso da tre missili israeliani a Damasco il generale Sayyed Razi Mousavi, dirigente della Brigata Qods dei Guardiani della Rivoluzione iraniana (Pasdaran), “responsabile del fronte della resistenza in Siria” e stretto collaboratore del generale Qassem Soleimani, comandante della Forza Qods dei Pasdaran ucciso quattro anni fa in un raid americano all’aeroporto di Baghdad, in Iraq.
Secondo: nella serata del 2 gennaio, viene ucciso Saleh Al-Arouri, co-fondatore delle Brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas responsabile dell’attacco a Israele del 7 ottobre scorso, numero due dell’ala politica della milizia palestinese sunnita e, soprattutto, uomo di contatto con i Pasdaran e con la leadership di Hezbollah. Al-Arouri viene freddato con un raid israeliano con droni proprio nel covo del movimento politico e armato filo-iraniano libanese, ovvero nel sobborgo meridionale di Dahieh a Beirut, in Libano. Il primo attacco israeliano negli ultimi anni contro un leader della milizia palestinese al di fuori di Gaza e Cisgiordania. Assieme a lui, altri due dirigenti di Hamas restano uccisi.
Terzo: il 3 gennaio, durante la commemorazione del quarto anniversario della morte di Soleimani, due kamikaze appartenenti all’Isis si fanno esplodere tra la folla a qualche chilometro dalla tomba del generale, nella città iraniana di Kerman, provocando circa 84 morti e 284 feriti. Un doppio attentato che rappresenta la peggiore strage nella storia della Repubblica islamica.
Quarto: il 4 gennaio, vengono eliminati a Baghdad, in Iraq, due membri della coalizione di gruppi armati filo-iraniani Hashd al Shaabi in un attacco di droni condotto dagli Stati Uniti.
Il primo riverbero dell’escalation di violenze è a Gaza: si congelano i colloqui indiretti fra Israele e Hamas mediati dall’Egitto per un secondo scambio fra ostaggi israeliani e detenuti palestinesi in corso da settimane. Fonti saudite riferiscono che Hamas ha interrotto i negoziati per il cessate il fuoco “fino a nuovo avviso a causa dell’assassinio di Al-Arouri”, e il Cairo informa ufficialmente Gerusalemme di auto-sospendersi dal ruolo di intermediario nelle trattative.
Cosa vuole Israele
Israele non ha ancora deciso se intraprendere la strada della regionalizzazione del conflitto o meno. Dalle poche dichiarazioni rilasciate da alcuni membri dello staff del governo subito dopo l’eliminazione di Al-Arouri è emerso un primo tentativo di non esacerbare le tensioni. Il consigliere del primo ministro Netanyahu, Mark Regev, ha infatti dichiarato “Israele non ha rivendicato la responsabilità per questo attacco. Ma chiunque abbia fatto ciò, non si tratta di un attacco allo Stato libanese. Non si tratta di un attacco all’organizzazione terroristica Hezbollah. Si tratta di un attacco ad Hamas, questo è molto chiaro”. Dello stesso avviso è parso anche Hakan Fidan, il ministro degli Esteri della Turchia (paese ostile a Israele in questo conflitto) che ha dichiarato: “Penso che gli israeliani si stiano sforzando per cercare di non entrare in guerra con il Libano. Questa strada sarebbe un vicolo cieco”.
Eppure sono note le pressioni del ministro della Difesa Yoav Gallant che, subito dopo il 7 ottobre, aveva suggerito a Netanyahu un attacco preventivo contro Hezbollah, il “Partito di Dio” libanese. In quei giorni, secondo le indiscrezioni della stampa americana, il governo israeliano aveva già degli aerei da guerra pronti e in attesa dell’ordine di colpire la milizia filo-iraniana lungo il confine con il Libano. Ma il presidente americano Joe Biden sarebbe riuscito a convincere l’alleato israeliano ad annullare l’attacco già pianificato per l’11 ottobre.
E tuttavia, interpretare la visione di Gallant come quella di un pazzo guerrafondaio di estrema destra è miope e non ci aiuta a comprendere la portata della strategia che in Israele parte dell’establishment, di ispirazione sionista religioso, ha in mente a partire dal 7 ottobre. Secondo questa anima dello Stato profondo di Israele – ora nel governo rappresentata soprattutto dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich (leader del Partito Sionista Religioso) e dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir (leader di Potere Ebraico) – quella iniziata da tre mesi non è affatto una guerra solo per Gaza. Piuttosto, l’attacco di Hamas è stato il primo passo e in qualche modo l’evento acceleratore di un progetto assai più ampio e volto a emancipare lo Stato ebraico dallo status di emergenza permanente in cui è sorto a partire dalla sua nascita nel 1948.
In altri termini, la condizione geopoliticamente invalidante di convivere con un complesso d’assedio e di costante minaccia proveniente da tutti i confini esterni, nonché da fronti interni al suo stesso territorio, avrebbe impedito a Israele di sviluppare una visione strategica lucida, stabile e di lungo periodo per il suo futuro nella regione, costringendolo nel tempo a limitare il proprio pensiero a questioni prettamente difensive legate alla sua sopravvivenza che in Occidente abbiamo coniato col termine “diritto a esistere” di Israele. Questo deficit congenito allo Stato ebraico ha prodotto nel tempo una frustrazione antropologica collettiva e disallineata alle aspirazioni messianiche e redentrici di quella porzione della popolazione ebraica che afferisce alla tribù sionista-religiosa, una delle maggioranze degli ebrei di Israele oggi. È in questo senso che vanno interpretate le recenti dichiarazioni di Gallant, secondo cui “Israele è oggi attaccato su sette fronti (Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Yemen e Iran) e chiunque opera contro di noi rappresenta un obiettivo potenziale: non c’è immunità per alcuno”. Secondo alcuni, insomma, il 7 ottobre rappresenta l’opportunità di rimettere ordine in Medio Oriente, scoraggiando i principali nemici della regione, a partire dall’Iran e dai suoi proxies, e anche con attacchi preventivi, dal generare nuove minacce alla sua esistenza.
L’invito alla moderazione di Hezbollah e Usa
Il primo dei fronti aperti e da chiudere, oltre a Gaza, è proprio il confine a nord fra Israele e Libano, roccaforte di Hezbollah, braccio armato prediletto dell’Iran e capofila delle milizie anti-israeliane parte dell’Asse della Resistenza. A metà dicembre, dopo essersi rifiutato di evacuare volontariamente la zona di confine, Hezbollah ha iniziato a mobilitare le sue forze nell’area meridionale del fiume Litani in preparazione a un confronto armato che secondo il comandante del fronte interno israeliano, il Magg. Gen. Rafi Milo, era già diventato “inevitabile”.
Sul fronte opposto, invece, Hezbollah non sembra voler raccogliere la provocazione israeliana. Non solo perché il Libano è in ginocchio dal punto di vista socio-economico e non può permettersi in alcun modo di essere trascinato in una guerra che dal suo confine meridionale arriverebbe rapidamente a Beirut. Ma perché lo sponsor politico e militare del Partito di Dio libanese, ovvero l’Iran, si è evidentemente premurato col suo proxy di attendere alla finestra, senza elevare le regole di ingaggio nelle ostilità già in corso al confine con “il nemico sionista”. Sarà per questo che, dopo aver inteso chiaramente le intenzioni di alcuni membri del gabinetto di guerra israeliano – nel suo discorso del 3 gennaio il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah ha attaccato direttamente Gallant dicendo: “Al ministro Gallant, dico: Non raggiungerete i vostri obiettivi di guerra” – la leadership della milizia filo-iraniana non si è voluta intestare la responsabilità di aprire un nuovo fronte. Così, nonostante la condanna formale a Israele e senza poter escludere dai calcoli un ampliamento delle ostilità, Nasrallah ha rimesso la palla a Israele: “Noi combattiamo al fronte con calcoli precisi. Ma se il nemico scatena una guerra contro il Libano, la nostra battaglia sarà senza limiti, senza regole”.
E gli Stati Uniti? Dopo un primo silenzio di Washington sull’uccisione di Al-Arouri sintomatico dell’insofferenza americana per non riuscire a contenere l’autonomia di iniziativa offensiva dell’alleato israeliano (tanto nella Striscia quanto al confine a nord di Israele), gli USA hanno giocato di sponda con le parole misurate di Hezbollah. La Casa Bianca ha infatti invitato alla calma: “Un’escalation del conflitto in Medio Oriente non è nell’interesse di nessuno” ha detto il portavoce del dipartimento di stato Matthew Miller. Non solo. Il segretario di Stato Usa Antony Blinken è immediatamente partito per la sua quarta visita mediorientale dal 7 ottobre, con tappe in cinque paesi arabi (Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati), Israele, Cisgiordania, ma anche Turchia e Grecia. La diplomazia sotterranea statunitense, insomma, si è subito rimessa in moto per ottenere rassicurazioni dal governo israeliano su diversi punti chiave. Primo: una migliore gestione israeliana della questione umanitaria a Gaza, con un’attenzione agli aiuti per i civili. Secondo: la legittimità dei piani per il futuro politico di Gaza che escluda qualsiasi ipotesi di trasferimento forzato dei palestinesi da Gaza verso paesi terzi, come invece paventato da alcuni dei ministri precedentemente citati al fine di insediare nuove colonie israeliane. Terzo: la volontà di evitare una escalation incontrollata in tutta la regione. Il problema è che se sul primo e sul secondo punto Israele sembra essersi deciso a trovare una quadra con l’alleato a stelle e strisce, sul terzo sta ancora ragionando sul da farsi.