Cesare Garboli, o del dramaturg come artista

Si torna alle letture giovanili come gli assassini sul luogo del delitto. Ma, a differenza di questi, con occhi nuovi. Nuovi? Bugie! Gli occhi son sempre gli stessi, ma meno innocenti. E per questo più colpevoli. E si scrive, allora, su un argomento di gioventù non per confessare o fare ammenda, ma per recuperare quell’innocenza perduta. Al limite per ricordarla. Pensavo a questo quando mi capitò fra le mani, qualche giorno fa, un libro di Cesare Garboli che lessi durante il secondo anno di università: il solo, stando a quanto indicato negli scritti redazionali che accompagnano il testo, che egli scrisse dall’inizio alla fine – sebbene non consapevolmente – e che non nacque da una miscellanea di saggi d’occasione raccolti attorno a un tema. Il libro, pubblicato postumo, s’intitola: Il «Dom Juan» di Molière. Scritto, come tutto ciò che porta la firma di Garboli, con eleganza e una certa sinuosità che affascinano. Lo stile di questo scrittore – critici e saggisti lo sono alla pari dei romanzieri – non si perde mai nelle pastoie dell’accademismo, della pedanteria. Ma, al contrario, ama indossare l’abito della narrazione. L’arma migliore di un critico per permettere ai suoi lettori di entrare nei segreti di un’opera d’arte. Ma questo libro di Garboli, essendo formato da lavori che accompagnavano la sua attività di traduttore e adattatore per il teatro, è importante per una questione ai più sfuggita. Perché esso ci mostra, in medias res, un’attività nell’atto stesso del suo farsi di estrema importanza per lo spettacolo. Attività che ha un nome pressoché ignoto anche fra gli studiosi di settore: dramaturg.

Cesare Garboli, o del dramaturg come artista

I segreti del mestiere

Prima di arrivare al dunque, ci terrei a far vedere, in atto, il lavoro di un dramaturg. E lo farò ricorrendo a un testo, una lettera esattamente, che un prestigioso critico musicale – Fedele d’Amico – inviò a Luchino Visconti contestando la sua messinscena dell’Egmont di Goethe. Ecco qualche passo: “Dunque, io non sono d’accordo con l’impostazione che tu hai dato… (che fosse uno spettacolo di prima classe è un altro conto, non entra in questa discussione); la quale mi sembrò dettata non da uno che volesse interpretare il testo che aveva sottomano per quello che era, ma da uno che, ritenendo questo testo inefficiente (nel caso nostro, forse, perché se n’era fatta una prima idea attraverso una traduzione indigeribile), tentasse di «salvarlo» cambiandone il senso. Questa tuttavia è soltanto una mia ipotesi…

Per Goethe Egmont non è un campione della libertà politica se non per accidente, ossia perché si trova ad agire in un contesto politico. Ma in sé rappresenta, nell’evoluzione di Goethe, tutt’altro: il momento della fede nello slancio vitale puro, fatalistico, incurante d’ogni calcolo. Egmont si affida alla sorte, vive guerreggia banchetta gioca ama, di là da ogni impegno morale. È l’uomo baciato dalla fortuna; e sa che questa fortuna potrà abbandonarlo da un momento all’altro, ma non per questo si piegherà a sollecitarla. Il suo coraggio è tutto qui, in questa baldanza di correre incontro alla morte, e alla mala sorte, aderendo gioiosamente al fluire della vita così come si presenta: «d’ogni giorno ho goduto», dirà al momento della fine. Donde la sua fatale disponibilità a cadere in trappola, la sua gloriosa incapacità di fiutare l’inganno altrui; e soprattutto la sua radicale «apoliticità». Egmont si trova capopopolo e campione di libertà a suo malgrado, semplicemente per il fatto di essere bello, affascinante, generoso, e perciò universalmente amato, idolatrato. Tutti hanno istintivamente delegato a lui desideri e aspirazioni per loro irrealizzabili: dunque anche, all’occasione, la difesa politica. Ma il loro attaccamento è essenzialmente sentimentale (difatti chi lo impersona compiutamente è una donna innamorata, la quale lo sostiene fino all’ultimo con argomenti puramente affettivi); e lui di politica non capisce niente. Infatti il suo contegno, perfettamente coerente se lo guardiamo sotto il profilo dello slancio vitalistico, a considerarlo sotto il profilo politico e morale è pieno di contraddizioni.

Egmont ama la «libertà» ma, al pari di un qualunque Masaniello, crede nel re di Spagna

Egmont ama la «libertà» ma, al pari di un qualunque Masaniello, crede nel re di Spagna. Detesta le «maniere spagnole», ma si pavoneggia del costume spagnolo e delle relative croci da cavaliere. Difende davanti ad Alba le ragioni dei sudditi, ma poco prima l’abbiamo sorpreso mentre esortava il popolo a starsene buono, con argomenti degni dell’onorevole Malagodi. A carnevale ha combinato alcune beffe al regime, ma soltanto per scherzo. È generoso, perdona; ma «i quattrini bisogna che escano fuori». Il pensiero di donne e bambini uccisi dalla guerra lo fa inorridire, ma l’idea che «l’umano appetito» porti il soldato a rovinare come la grandine i campi, prati e foreste lo esalta. Vorrebbe aiutare un buon governo del suo popolo, ma le riunioni politiche gli fanno schifo, ha l’abitudine di piantarle in asso dopo un po’ per andarsene a cavallo. Eccetera. Questo è Egmont. E per questo cade nella trappola, lui e non Orange; il quale Orange, e non lui, è un vero politico, il vero campione della libertà, «il principale nemico del re»”.  Poche, ma essenziali, parole che mettono in luce il personaggio, i suoi rapporti nell’economia dell’intera opera, le sue ambiguità, la sua unicità, in certo senso anche qualche suo risvolto psicologico sul quale il regista può permettersi di lavorare, magari andando anche oltre quanto individuato dal dramaturg stesso. Un lavoro creativo in pieno, dunque, che si attacca al testo come un pipistrello sulla volta della grotta, ma volando via quasi subito, lasciando che l’opera diventi una sorta di flatus vocis costante, un basso continuo si direbbe in gergo musicale, che serve per ricordare i limiti – non così rigidi – entro i quali è bene che l’interpretazione propedeutica alla messinscena si muova.

Nel mondo di un dramaturg

Tornando a Garboli e al tema che mi sono proposto di affrontare: cos’è un dramaturg, stando anche a quanto esemplificato e intuito dal passo di Fedele d’Amico? Non colui che scrive un testo teatrale. Nemmeno chi si preoccupa di metterlo in scena. La si può definire, allora, una figura che fa da mediatore tra il drammaturgo e il regista. Spesso, quest’ultimo, surroga il lavoro del dramaturg. Ma, in genere, si tratta di ruoli ben distinti. Per sua natura, il dramaturg è una figura ibrida. In un certo senso è un critico, ma non in modo così restrittivo. Perché, se critica egli svolge, non è storica ma valutativa, secondo la definizione che ne diede Mario Praz introducendo Shakespeare nostro contemporaneo di Jan Kott. Una critica, in sostanza, che scopre somiglianze segrete fra i testi, le epoche e le concomitanze storiche, mostrando le affinità nascoste e non avendo alcun obbligo di rispetto filologico né di contestualizzazione.

Il dramaturg analizza criticamente un testo e, in certo senso, lo riscrive affinché il regista possa successivamente tradurlo per le scene. Ma quest’analisi non sarà mai pedante, scolastica e accademica. Volendo, la si può pensare simile a quella proposta da Oscar Wilde ne Il critico come artista. Ricreazione, vera e propria, di un’opera d’arte attingendo laddove essa non parla, si nasconde, è reticente, rinchiudendosi in un silenzio sornione che però, sotto sotto, brama d’essere scoperto e di avere una voce attraverso la quale parlare. 

“Con gli elementi del libro – dice Pietro Citati –, dei quali crede ora di conoscere il significato e i rapporti, l’interprete sta davanti al suo tavolino. Potrebbe limitarsi a enumerare e a descrivere tutte le unità minori e minime: o disporle, come qualcuno ha fatto, secondo figure geometriche, con frecce, controfrecce, linee di avvolgimento, grossi e piccoli numeri. Ma egli non può fare a meno di ricomporre ciò che aveva scomposto, e di riunire ciò che aveva suddiviso. Ama raccontare: crede che non ci sia piacere più grande che raccontare storie”. Non ultimo perché si fa teatro non per dimostrare una tesi, ma per mettere in scena una metafora, un simbolo addirittura – il più potente fra i segni – che scuota gli animi del pubblico, obbligandolo a riflettere ma senza rinunziare a divertirsi. Si può dire, allora, che il dramaturg sia un artista di seconda mano? Certamente sì. Egli prepara l’opera teatrale a uscire dai suoi confini cartacei, a dare corpo a quei segni, a riempire di significato e immagini quelle didascalie, a prevedere e proporre quale potrebbe essere il modo migliore che il regista dovrebbe inseguire per non indebolire la metafora. 

Cultura e irriverenza

Che si trovi di fronte a un classico o a un autore contemporaneo, il dramaturg non può venir meno ad una certa irriverenza. Egli non è mai per le attualizzazioni ad ogni costo, né per operazioni di archeologia del tutto asfittiche. La sua posizione ideale è quella proposta da Brecht nel Breviario di estetica teatrale: concentrarsi sui caratteri, vale a dire gli aspetti umani dei personaggi, e su di questi lavorare. Il dramaturg, quindi, non perde mai d’occhio il passato. Ma non lo subisce come, invece, farebbe il critico storico. Semmai è fonte d’ispirazione, di idee, di escamotage che secondo le necessità possono tornare utili per rafforzare l’idea interpretativa per la messinscena che il regista realizzerà.

Tutto ciò richiede cultura, conoscenza, capacità di studio ma, al contempo, una forte spinta creativa. Guai se erudizione e arte non convivessero in egual misura nel dramaturg. Egli deve essere un po’ come il Baudelaire dei Salons, il Sainte-Beuve dei Ritratti di donne. Non esistono manuali che insegnino il mestiere del dramaturg. Così come non esistono manuali che insegnino l’arte difficile della scrittura narrativa. Ma esistono testi da cui è bene prendere esempio. Il «Dom Juan» di Molière di Garboli è certamente il libro da avere sempre a portata di mano per chi decidesse di intraprendere il mestiere di dramaturg. Vi si troveranno lo studio del personaggio, delle condizioni storiche e sociali attraverso le quali un’opera d’arte è nata, delle intenzioni dell’autore che sottendono la scrittura di un testo creativo. Materiale che può tornare utile al regista, ma anche agli attori nel momento in cui si preparano per il ruolo da interpretare.

Che fare allora? Nell’attesa di tempi migliori, non rimane che leggere – o rileggere – Cesare Garboli

Ma concludendo: in che modo, attraverso questa argomentazione, si è recuperata quell’innocenza propria delle letture giovanili? Pensando al passato, ricordo un interesse per Cesare Garboli molto diverso: incentrato quasi, se non esclusivamente, sull’erudizione che avrei potuto suggere dalle sue pagine; mi ricordo avvinto dai rivoli nei quali il suo ragionamento si perdeva inseguendo un’idea accennata ad inizio di pagina, e rincorsa nelle sue infinite variazioni; e, contemporaneamente, ho un ricordo lievemente infastidito quando qui e lì incontravo citazioni e una metodologia di analisi propria alla filologia, riportando esempi che sapevano – così pensavo allora – molto di accademia. Queste le ragioni che misero Cesare Garboli lontano dalle mie letture formative, preferendo una scrittura anarchica, che procedeva liberamente per addizioni evocazioni ed analogie, come quella di Elémire Zolla, Angelo Maria Ripellino, Mario Praz e Giovanni Macchia. A distanza di anni, rileggendo Garboli con alle spalle più libri, più esempi attraverso i quali raffrontarlo, mi rendo conto quanto creativo sia il suo modo di procedere, anche – e soprattutto – se ricorre alla filologia a supporto di un’idea.

Da lettore innocente, cercando di capire chi e cosa fosse un dramaturg, pensavo che quello di Garboli fosse un metodo sbagliato. Da lettore smaliziato, ho cambiato idea. E cioè che un dramaturg è, insieme, narratore e filologo, critico e storico, artista e studioso. Non può sclerotizzarsi in uno solo di questi ruoli. Ne risentirebbe l’arte teatrale della messinscena, il lavoro del regista, quello degli attori: in una parola, lo spettacolo. Comprendere tutto questo, rende la lettura di Garboli piacevole, leggera, divertente, stimolante. E, contemporaneamente fonte di riflessione. Nel senso che se nel mondo del teatro ci fossero, ancora, critici-dramaturg e dramaturg-critici come Cesare Garboli, le scene sarebbero più colorate e divertenti. Ma così non è. Che fare allora? Nell’attesa di tempi migliori, non rimane che leggere – o rileggere – Cesare Garboli.

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La guerra e la solitudine di Papa Francesco, tra i pochi a chiedere con forza la pace: ce ne parla Alessandro Di Battista con un commento in apertura. All’interno anche il 2024 in Medio Oriente, la crisi climatica, il dramma dei femminicidi in Italia, la cultura e lo sport. Da non perdere, infine, le rubriche Line-up, Ultima fila e Nel mondo dei libri, realizzate da Alessandro De Dilectis, Marta Zelioli e Cesare Paris.

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