In ricordo di colui che, a dispetto del silenzio in cui quel fatidico 3 gennaio 2022, il mercato editoriale e l’università lo hanno relegato, è una voce vivissima, leggera e salvifica
Lo ricordo come fosse ora. Ero in Val d’Aosta il 3 gennaio 2022, dentro la sala bar dell’hotel dove alloggiavo. Fuori dalla finestra: una giornata tersa, luminosa, fredda; a terra, la neve fresca che era caduta di notte.
La televisione accesa. In quel momento, fra i titoli di testa del telegiornale ne sentii uno che mi lasciò un profondo senso di dispiacere: “Lutto nel mondo della cultura. È scomparso a Brighton lo scrittore e traduttore Gianni Celati”.
La scomparsa di un intellettuale
Succede sempre così: quando sono in vita, personalità che hanno contribuito a rendere grande il nostro patrimonio poetico e artistico senza mai pubblicizzarsi e cedere alle lusinghe del mercato, li si dà per scontati. Sono lì, e tanto basta. Quando, però, scompaiono, si sente un profondo senso di vuoto. Può apparire retorico, ma per chi della letteratura, come nel mio modesto piccolo mondo, ne ha fatto pratica quotidiana da svariati anni, la scomparsa di uno scrittore o di un intellettuale è motivo di vissuta tristezza.
Ci si sente più soli, perché quella persona, quella voce, quelle parole che si facevano vive ed erano visibili e udibili all’istante, non solo leggibili su una pagina: quella persona e quella voce non ci sono più. Rimangono le opere per fortuna, come le registrazioni di loro video e interviste: certo. Ma non è più la stessa cosa.
La storia di Celati
Gianni Celati è sempre stato un nome che, all’università, veniva associato a Melville o Stendhal, per non parlare dell’Ulisse di Joyce: scrittori che portano la sua firma da traduttore (e che traduttore!). Però come intellettuale e scrittore, di Gianni Celati fra i banchi dell’accademia difficilmente si parlava. Perché? Le voci che circolavano su lui, da parte di chi lo conobbe direttamente, lo dipingevano come severo e rigoroso, con idee sulla letteratura in controtendenza rispetto a quelle in voga. Ma tutti erano concordi nel dire che Celati era anche una persona estremamente dolce, disponibile, abile e piacevolissimo conversatore. Ovviamente il non condividere la cosiddetta narratologia, la scienza che ferma l’arte del racconto astraendola dalla sua stessa essenza: lo scorrere del tempo, non poteva permettere a Celati di sedere fra i grandi pensatori, studiosi e critici osannati negli ultimi decenni.
Leggendo i suoi libri, iniziando da Comiche, passando per Le avventure di Guizzardi e finendo a Fata Morgana, al di là del registro linguistico di tipo sperimentale operato sull’italiano nelle opere degli inizi, si può dire che la sua letteratura fosse in linea con una certa tendenza stilistica degli anni Settanta del Novecento, per altro condivisa e appoggiata da personalità come Calvino – suo scopritore nonché amico – e Manganelli. Ciononostante, le opere di Celati non sono mai assurte alla categoria di best seller. Per lui fu un motivo di vanto, stizzito com’era da un’idea industriale e seriale della letteratura; la colpa della quale, affermava, era dei grandi editori e del mercato capitalistico. Da quanto detto può sembrare che Celati fosse un rivoluzionario post sessantottino, di quelli legati ancora a certi valori di protesta appartenenti all’ideologia di sinistra. Cosa non vera, confutata da lui stesso: “Non dimenticherò mai come nel 1968 qualcuno mi spiegò serissimamente che io – in quanto uomo dedito a scrivere narrazioni – ero un reazionario nostalgico del passato, e contrario alla rivoluzione comunista”.
L’ultimo grande novelliere
Ecco, quindi, la chiave dell’inattualità di questo grande scrittore, oggi come allora. Il fatto cioè, che Gianni Celati decise, spontaneamente e con elegante naturalezza, di essere un novelliere, cioè scrittore di novelle. C’è differenza con l’essere un romanziere? Assolutamente sì, perché quest’ultimo ti proietta “nei fatti, senza un’introduzione, con una mossa tipica. E tutto ciò fa parte di un metodo standard di cattura del lettore… Il metodo realistico, con piani di narrazione scenica”. Il novelliere, invece, non parte “da una focalizzazione precisa ma da una vaghezza. Il che lascia più margine per gli effetti del linguaggio. Questo permette di non chiudersi nella prigione della trama, e di aprirsi nuove strade, sentire voci lontane”.
Lo stile di scrittura di Celati, utilizzando le sue stesse parole, è questo: “Ti racconto qualcosa di cui si è sentito parlare da quelle parti. La novella si propone come una fonte di voci, da cui è giunto quel racconto”. Regola che riscontriamo anche nei suoi saggi, bellissimi (Conversazioni del vento volatore, Finzioni occidentali, Narrative in fuga, Studi d’affezione per amici e altri). Ovvio che questa forma letteraria e di stile, oggi, trova un difficile ampio riscontro. Perché si è perduta quella facoltà pratica del narrare, del condividere esperienze vissute o sentite da altri col gusto di perdersi nelle narrazioni, senza concentrarsi in modo ossessivo su dettagli e particolari, smarrendo il filo per riprenderlo chissà dove e a che punto della storia, alla maniera dell’Ariosto. Oggi si spiega, si vuol chiarire tutto: attività ormai prevalente e che Celati aveva in orrore. Come aveva in orrore il gusto della novità: “I nostri vecchi, i nostri nonni sapevano raccontare le cose in modo più memorabile, perché avevano il culto del memorabile. L’opposto di adesso, in cui vige il culto dell’attualità e dell’effimero – dove il valore dei fatti memorabili è sostituito dal valore della novità”. Questa inattualità di Celati, rigorosa e lucida ma tutt’altro che snob ed elitaria, andrebbe recuperata e preservata. Non solo perché così si recupererebbe la capacità naturale in ognuno di noi di raccontare e di raccontarsi, ma perché solo così si uscirebbe dall’incantesimo da fata Morgana del voler delucidare tutto.
Quando, invece, basterebbe recuperare quel senso di vaghezza limpida “che si prende su, come si prende un mestiere, o una lingua; e ha a che fare con l’orecchio, col senso della misura, con la capacità figurale… ha a che fare col tempo, ma proprio perché il tempo non è insegnabile, così anche il narrare non è insegnabile e spiegabile – benché io possa sempre accennare alle sue regole, ma mai in generale, sempre riferendomi a casi particolari dell’esperienza”. Ciò detto, Gianni Celati, l’ultimo novelliere della letteratura occidentale, a dispetto del silenzio in cui quel fatidico 3 gennaio 2022, il mercato editoriale e l’università lo hanno relegato, è una voce vivissima, leggera e salvifica. Un prezioso vento volatore “che investe le parole sparpagliandole in argomenti vari”.