Se vi siete scandalizzati per l’utilizzo dell’olio di girasole diluito nei serbatoi delle automobili a diesel, sappiate che ci fu un tempo in cui le primissime autovetture giravano ad alcol etilico. Nel mondo agrario, si calcolava che, seminando mezzo ettaro di terreno per la produzione di etanolo, si poteva ottenere l’energia per alimentare i macchinari necessari per coltivare quaranta ettari, l’equivalente di un’intera stagione. Le prime autovetture prodotte da Henry Ford erano alimentate ad alcol finché in America non venne inaugurata la stagione del proibizionismo (1920-1933).
Il nostro esperimento
L’intenzione iniziale del “nobile esperimento” era quella di ridurre criminalità, corruzione, problemi sociali, alleggerire il carico fiscale generato da carceri e ospizi, oltre a migliorare le condizioni igienico-sanitarie. Dopo tredici anni, niente di tutto questo si era davvero concretizzato: gli arresti per violazioni aumentarono del 1000% tra il 1925 e il 1930; parallelamente, tra il 1915 e il 1932, le spese federali per le strutture carcerarie aumentarono di oltre il 1000%; le morti per cirrosi epatica ed alcolismo erano già crollate durante la Prima Guerra Mondiale e anzi l’età media dei decessi si abbassò di sei mesi tra il 1916 e il 1923; la criminalità organizzata sguazzò nell’illegalità con boss del calibro di Al Capone che arrivarono ad incassare fino a 100 milioni di dollari all’anno; oltre a gonfiare il volume d’affari della mala, il Proibizionismo ebbe l’effetto di andare ad ingrassare le fila (+188%) e il budget (+500%) della Guardia Costiera e dei servizi doganali (rispettivamente 45% e 123%).
A conti fatti insomma non aveva raggiunto gli scopi prefissati. Ma probabilmente c’era una finalità che era stata occultata o di cui non si parlava diffusamente. Pur essendosi formalmente dissolta nel 1911, la Standard Oil Company di Rockefeller aveva dato vita ad altre tre entità, pronte ad emergere prepotentemente sul mercato: Sohio (oggi parte di BP), Esso (oggi Exxon) e SOCal (oggi Chevron). Con la fine del proibizionismo e la conseguente scomparsa delle coltivazioni domestiche di carburante (ormai solo un ricordo del passato), era pronto ad esplodere il mercato del petrolio e dei motori a scoppio (con Ford che, tra gli altri, finì inevitabilmente per adattarsi al mercato in evoluzione). Una nuova era. Con tutte le sue crisi.
Chi ha ucciso l’auto elettrica?
Quando, a seguito dello scoppio della guerra del Kippur, l’OPEC impose un embargo sul petrolio nel 1973 e i prezzi quadruplicarono all’improvviso salendo a 12 dollari al barile, tornarono di moda le auto elettriche, già sperimentate e prodotte su piccola scala dagli anni ’30 del 1800 grazie agli scozzesi Robert Anderson e Robert Davidson. Nel 1890, un chimico dell’Iowa (di origine scozzese), William Morrison, brevettò la carrozza elettrica che aveva costruito nel 1887. Con trazione anteriore, quattro cavalli e una velocità massima di 32 chilometri orari, aveva 24 pile ricaricabili ogni ottanta chilometri percorsi. L’invenzione di Morrison fece clamore all’Expo di Chicago del 1893 e, anche se il chimico era più interessato ai generatori di corrente che alla mobilità in sé, aveva comunque acceso l’immaginazione di altri inventori.
Fast forward al 1965 e Ralph Nader (avvocato, saggista, attivista e politico, c’è anche lui nel documentario del 2006 “Chi ha ucciso l’auto elettrica?”) in Senato si lamentò del fatto che le auto elettriche erano un business sostenibile e che era a conoscenza del fatto che la General Electric avrebbe potuto fabbricare un’auto che poteva raggiungere i 128 chilometri orari coprendo una distanza di 320 chilometri. Arrivò persino ad insinuare che la GE fosse in combutta con l’industria automobilistica e con quella petrolifera per occultare questa tecnologia “clean”.
Agenda 2030
Dopo cent’anni di inquinamento, la crisi petrolifera e le soluzioni elettriche sono tornate prepotentemente di moda in questi giorni bellici: per fare rifornimento, infatti abbiamo toccato punte di 2,00 euro al litro e solo il taglio delle accise ha consentito un risparmio (provvisorio) di 15 centesimi. Si tratta di prezzi record, superati (tenendo conto del potere d’acquisto della moneta) solo altre tre volte nella storia dell’Italia (1936, 1980 e 2012). Non è un caso che, ricalcando il solito schema “problema-reazione-soluzione”, proprio in questi giorni alcune aziende automobilistiche siano passate a promuovere con insistenza “l’elettrico per tutti”.
A dire il vero, già nel 2020 nel Regno Unito, a seguito anche del divieto di produzione di automobili a combustibile fossile che entrerà in vigore a partire dal 2030, si calcola che siano state registrate 59.945 auto elettriche. Un programma a cui ha aderito anche l’Italia con misure sempre più stringenti e specifici divieti di circolazione per le auto diesel, entrati già in vigore ad aprile 2022 per quanto riguarda le Euro 4 e progressivamente per tutte le altre, seguendo un calendario predefinito che entro ottobre 2025 le porterà ad essere escluse dalla circolazione nelle principali città italiane.
Il 2030 non è una data casuale visto che si parla apertamente da tempo di Agenda 2030. In cosa consiste? Sul sito delle Nazioni Unite troviamo che: “l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Essa ingloba 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile – Sustainable Development Goals, SDGs – in un grande programma d’azione per un totale di 169 ‘target’ o traguardi. L’avvio ufficiale degli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile ha coinciso con l’inizio del 2016, guidando il mondo sulla strada da percorrere nell’arco dei prossimi 15 anni: i Paesi, infatti, si sono impegnati a raggiungerli entro il 2030”. L’obiettivo numero 13 è il contrasto al cambiamento climatico. Secondo alcune teorie del complotto, la traduzione del target in questione è presto fatta: “aumentare le tasse sulle risorse energetiche, e legalizzare le attuali pratiche di modificazione del clima ed ingegneria climatica”. Considerando la direzione intrapresa, non sembrano “teorie” così lontane dalla realtà (almeno per il 50%). Va ovviamente letta in questo senso anche la progressiva diminuzione del combustibile fossile a favore della mobilità elettrica.
I soliti noti
Cosa ci guadagnano i padroni del vaporetto con lo spostamento del business? Possono davvero lasciare che tutto cambi a loro sfavore? In realtà si sono già piazzati in posizioni strategiche con largo anticipo perché gattopardescamente “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Se infatti andiamo a vedere le più grandi aziende petrolifere, Saudi Arabian Oil, Petro China, Exxon, Total Energies e BP, tra gli azionisti, nella maggior parte dei casi, troviamo i “soliti noti”: BlackRock, Vanguard, Morgan Stanley. Sono gli stessi che però hanno già messo radici nella mobilità elettrica. Facendo infatti la stessa rapida ricerca anche nel caso dei più importanti produttori di auto a corrente, troviamo che Tesla, Rivian, Lucid e NIO sono comunque sorrette, tra gli altri, da Vanguard, Blackrock, Goldman Sachs, Amazon. Qual è allora il vero obiettivo di tutto questo? Causa nobile pur rimanendo nell’ambito dei mercati finanziari o strumento di controllo di una società globale sotto il dominio di un governo oligarchico mondiale (nota a margine: il World Government Summit è una realtà)?
Verso razionamenti
Rob Kapito, presidente e fondatore della sopracitata BlackRock, ha allertato i più giovani: «Per la prima volta nella loro vita, una generazione di privilegiati americani, che non si è mai dovuta sacrificare, entrerà in un negozio e non sarà in grado di acquistare quello che vuole – ha detto Kapito nel corso di una conferenza ad Austin, in Texas, pochi giorni fa. «Mi allaccerei le cinture di sicurezza perché è qualcosa di totalmente inedito», ha proseguito il presidente di BlackRock, che ha menzionato la carenza di manodopera, energie e rifornimenti agricoli come causa della crescente inflazione, che secondo gli esperti di Bloomberg nel 2022 porterà l’americano medio a mettere in conto di spendere 433 dollari in più al mese soprattutto per cibo ed energia.
Proprio a seguito dello scoppio del conflitto in Ucraina, sia Biden che Draghi hanno iniziato a parlare di razionamenti. E non ci vuole certo un genio se pensiamo che il 70% dei fertilizzanti italiani arrivano dalla Russia; che, secondo JP Morgan, la Russia è la più grande esportatrice di grano al mondo; che l’Ucraina è tra le prime quattro; e che entro la prima metà dell’anno agrario la Cina avrà acquisito il 69% delle riserve mondiali di mais per bestiame, ma anche il 60% del riso e il 51% del grano. Considerando la spaccatura geopolitica che si sta formando in queste settimane, insomma, ci sono “buone” possibilità che la prossima crisi sia alimentare.
Scenari futuri
Immaginiamo quindi di andare al supermercato e fare una normale spesa. Con la premessa del razionamento, nel caso in cui dovessimo eccedere con l’acquisto di farina, olio di semi, carta igienica o pane verremmo respinti alla cassa o penalizzati di qualche punto per aver contravvenuto ad una disposizione governativa. Proprio in questi giorni in Emilia-Romagna sono state introdotte due novità “paternalistiche” di credito sociale: lo Smart Citizen Wallet a Bologna per regolare il rapporto tra cittadini ed amministrazione comunale di turno con un sistema di premi e penalità; e la patente a punti per il decoro delle case popolari a Fidenza con la possibile decadenza del diritto all’alloggio.
Considerando anche le parole pronunciate da Pippa Malmgren al World Government Summit, dove «siamo sul punto di lasciarci alle spalle il sistema economico tradizionale per introdurne uno nuovo basato sul blockchain, un sistema digitale con un tracciamento praticamente perfetto di ogni transazione che ci darà un quadro ancora più chiaro dell’economia globale, ma che al tempo stesso innesca grossi rischi nell’equilibrio dei rapporti di forza tra stati e cittadini, tanto che secondo me avremo bisogno di una costituzione digitale dei diritti umani»; il sistema digitale a punti diventa quindi applicabile ad ogni ambito, dall’acquisto di beni di consumo ai comuni svaghi quotidiani (cinema, teatro, sport, stadio…).
Immaginiamo quindi di possedere un’auto elettrica nel concetto futuristico del termine: smart, collegata ad un’utenza, capace di calcolare percorsi o anche di spegnersi senza reagire ad impulsi esterni per via di un blackout o di uno switch. Lo scenario è distopico ma se pensiamo anche alle auto dotate di parcheggio automatico e all’Intelligenza Artificiale che ci circonda (sconfitti ben OTTO campioni del mondo di bridge pochi giorni fa), anche qui non siamo poi così lontani dalla realtà.
Sorveglianza e libertà
In tutti i campi, insomma, come dice Enrica Perucchietti, si sta cercando di normalizzare una vera e propria cultura della sorveglianza: mappando tutti i comportamenti dei cittadini (virtuosi o meno), si stanno aprendo le porte ad un sistema di sorveglianza digitale dove tutte le nostre abitudini, oltre alla profilazione che già avviene da anni sul web, vengono raccolte, permettendo di schedare e profilare sempre meglio ogni individuo. Nel momento in cui tutti questi dati venissero raccolti in un unico sistema legato a blockchain, sarà sempre più facile sorvegliare le persone, ma anche punirle (come già accaduto in Canada dove Trudeau ha minacciato e poi effettivamente bloccato i conti bancari di oltre 200 manifestanti).
Per chi l’ha visto, la mente va inevitabilmente a “Nosedive” (Caduta libera), primo episodio della terza serie di Black Mirror. Ma pure a “The absence of field” (L’assenza di campo), terzo episodio della terza serie di Westworld quando Dolores mostra a Caleb il futuro che l’algoritmo onnisciente ha previsto per lui. Due scenari tecnicamente impossibili senza la riduzione totale alla dimensione digitale di ogni individuo sul pianeta Terra. Tutto mentre dalla Cina giunge l’eco (o lo spettro) di un altro lockdown totale. La gente non esce di casa non perché tema la ritorsione dei manganelli ma perché, secondo il sistema di credito sociale, potrebbe perdere preziosi punti che non le consentirebbero di poter compiere una serie di attività ludiche e sociali con il ritorno alla “normalità” (es. prendere un aereo o un treno).
Da Shanghai si parla di delivery intasate, app non funzionanti, totale carenza di cibo per via di una domanda eccessiva (oltre 25 milioni di abitanti) rispetto all’offerta. L’unico modo per sopravvivere è ricorrere ad un briciolo di umanità perduta: condividere le consegne con i vicini di casa. In un ultimo esercizio di immaginazione, potremmo riportare la mente al primissimo lockdown del 2020: come sarebbe se venisse potenziato da tutti gli strumenti di controllo sociale che stanno venendo introdotti progressivamente sotto il nostro naso in questi mesi? Riusciremmo ancora a fare la spesa? Potremmo salire su una macchina, agendo “indisturbati” nonostante la chiusura dei comuni o delle regioni, anche se diventasse una questione di pura sopravvivenza? Di certo a salvarci non basterebbe una qualsiasi autocertificazione…