Il giornalista di WikiLeaks ha vintola sua battaglia, ma nessuno potrà ridargli indietro gli anni perduti. Nemmeno gli Stati Uniti
Gli Stati Uniti volevano estradarlo e rinchiuderlo in prigione per i prossimi 175 anni. Sempre gli Stati Uniti lo hanno graziato e liberato dopo 1901 giorni di agonia. Julian Assange è finalmente libero, grazie a un accordo raggiunto con il Dipartimento di Giustizia americano, una notizia che paradossalmente ci aspettavamo tutti. Joe Biden, infatti, nei mesi scorsi aveva lasciato aperto più di uno spiraglio: «Nulla è escluso, le accuse contro di lui potrebbero anche cadere». Detto, fatto: il numero uno della Casa Bianca non si è fatto di certo intenerire dagli appelli della famiglia Assange, la sua è stata una manovra estremamente politica e funzionale alle prossime elezioni in programma a novembre.
Lo ha fatto per racimolare qualche voto in più: sono molti, non a caso, gli attivisti a stelle e strisce che in questi anni si sono battuti a favore di Julian con proteste e scioperi di ogni tipo. Oggi, per assurdo, la liberazione del giornalista di WikiLeaks, avvenuta sotto l’amministrazione Biden, è una pessima notizia per Donald Trump. Lo è anche per chi lo ha incolpato e rinchiuso in una cella soltanto per non essersi piegato ai poteri forti, per chi lo ha umiliato e costretto a interrompere la sua professione. Loro, quelle entità che decidono le sorti di una guerra o chi deve comandare e chi sprofondare, non saranno mai liberi. Assange, dal 24 giugno 2024, sì. Non la sua rabbia, né quella di chi gli è stato accanto in questi anni. Per questo, purtroppo, nessuno ha una soluzione. Nemmeno gli Stati Uniti.