The Yamazaki, prodotto nel Sol levante, è tra le bottiglie più care al mondo. Eppure, il Giappone non viene mai associato a questo straordinario distillato
Whinston Churchill, ironicamente, lo considerava uno dei segreti della longevità. Ernest Hemingway, altrettanto ironicamente, lo metteva sullo stesso piano di una donna. Ava Gardner lo amava a tal punto da aggiungerlo alla lista dei desideri se fosse stata in procinto di morire. Chi lo ama, ne assapora l’intensità. Chi lo odia, ne critica la robustezza. Il luogo della sua nascita, come la paternità, è incerto. La sua diffusione, invece, è certa e mondiale.
La Scozia e il Canada lo chiamano “whisky”. L’Irlanda e gli Stati Uniti lo chiamano “whiskey”. Ma se una delle bottiglie più care al mondo, dal valore di 882 mila dollari, dal nome The Yamazaki, è giapponese, che ruolo ha il Giappone in tutto ciò? Perché il nome di questo Paese non viene mai associato alle origini del distillato più conosciuto del globo?
C’era una volta il whisky
Le origini conosciute del whisky risalgono alla fine del diciannovesimo secolo, anni in cui la Scozia e l’Irlanda, che ne sono i padri fondatori, avevano iniziato non solo a produrlo ma anche ad esportarlo negli Stati Uniti. Questi sono gli stessi anni in cui il Giappone conobbe il turismo e le sue conseguenze. Gli americani, infatti, ospiti nella terra del Sol Levante, ricercavano in quei luoghi stranieri gli stessi prodotti che loro, in patria, avevano già testato. A quel punto il Giappone, protetto fino ad allora da una forte politica isolazionista, la quale chiudeva i porti giapponesi al commercio con gli Stati Uniti d’America, decise di rompere il sigillo. Il 31 marzo del 1854 fu così siglata la Convenzione di Kanagawa, seguita poi nel 1858 dal Trattato Harris o Trattato d’amicizia e di commercio tra Stati Uniti d’America e Giappone, che aprì i porti giapponesi di Shimoda e Hakodate alla vendita con gli USA.
Il Giappone iniziò così ad importare whisky ma, complice l’aumento della domanda ed una certa smania di controllo e perfezionismo, iniziarono anche a volerlo produrre. Nei primi anni del 900 un giovane Masataka Taketsuru, figlio di produttori di Sake, che diverrà poi il fondatore della famosa Nikka Whisky, lavorò per un’azienda che produceva alcolici. Proprio da loro fu mandato all’Università di Glasgow, in Scozia, per studiare chimica e visitare le maggiori distillerie di scotch whisky. Dopo aver lavorato in diverse distillerie scozzesi, apprendendone i segreti, tornò in Giappone ricco di esperienza e conoscenze da poter mettere in pratica. Conobbe Shinjiro Torii, proprietario di un ex negozio che vendeva vini di importazione, che fondò un’azienda con cui aveva già iniziato la costruzione di una distilleria. L’incontro fortuito portò alla nascita, nel 1923, della prima distilleria in Giappone, a Yamazaki.
Whisky giapponese vs Whisky scozzese
Le visioni di Taketsuru e Torii finirono quasi subito per divergere poiché il primo voleva un prodotto alla scozzese, il secondo voleva giapponesizzare il whisky. Da tale scontro nacquero i due storici marchi giapponesi, rispettivamente Nikka e Suntory. Ma cosa ha reso tali differenze così forti da non poter essere conciliate in un unico prodotto? La Scozia è conosciuta per la produzione di Single Malt, whisky composti al 100% da orzo maltato, distillati in alambicchi di rame ed invecchiati in botti di rovere. L’odore rimanda al selvaggio richiamo del mare ed il gusto torbato rende il tutto intenso ed affumicato. Il Giappone, invece, tende a produrre Blended whisky, cioè distillati ottenuti dalla miscelazione di diversi generi. Ogni singolo alambicco usato per la distillazione è diverso dall’altro, particolarità che consentono di ottenere da ognuna di essi un whisky dal carattere lievemente diverso. L’invecchiamento avviene in botti di Mizunara, una quercia locale di origine mongolica, che dona un profilo aromatico che ricorda l’incenso o il legno di sandalo.
La maggior parte dei whisky giapponesi non sono torbati, presentano piuttosto sentori floreali di erbe e frutta secca. Alcuni sono anche un po’ affumicati. Appare evidente che la tecnica dello scotch, che sembra molto meccanica e volta a soddisfare una domanda elevata, non sia compatibile con la cura maniacale per i dettagli dei giapponesi. La Scozia, infatti, ospita circa 128 distillerie, il Giappone, invece, ne conta una ventina, nonostante fino a qualche anno fa ne avesse solamente 8. Sebbene il whisky giapponese avesse le capacità di competere con quello scozzese, l’opinione mondiale su questo particolare distillato made in Japan iniziò a cambiare nei primi anni 2000. Per l’appunto, nel 2001, ci fu l’assegnazione da parte della rivista di whisky più importante a livello internazionale (Whisky Magazine) del premio “Best of the Best” allo Yoichi 15 YO Sherry Cask, che a primo impatto fece storcere il naso agli esperti, per via del contrasto tra il sapore torbato, affumicato ed il cuore fruttato e gommoso.
Le polemiche infinite
Negli ultimi anni il Giappone, in un certo senso povero di distillerie ma ricco di whisky, per far fronte all’aumento della richiesta di bottiglie, ha attinto a malti stranieri. D’altronde era ovvio che con sole 8 distillerie non potesse produrre tutto quel whisky. Stessa cosa fece la Scozia ma con una differenza sostanziale: gli scozzesi chiamano Scotch Whisky i prodotti “allungati” con distillati provenienti da paesi esteri. In Giappone, invece, è sempre stato possibile miscelare ed imbottigliare malti per metà esteri, vendendoli comunque come Japanese Whisky. Se fino a non molto tempo fa il whisky giapponese era considerato economico e sgradevole, ora i malti giapponesi sono tra i più pregiati e costosi al mondo.
Dunque, l’utilizzo di una dicitura errata e di un’etichettatura ingannevole non è più tollerabile. L’improvvisa popolarità di marchi come Yamazaki e Hibiki ha spinto alcuni produttori, per soddisfare la domanda, a mescolare alcolici importanti, incluso il whisky scozzese, spacciandone e commercializzandone il risultato come giapponese. “Dire che le normative sulla produzione del whisky in Giappone siano vaghe è un grande eufemismo; se fossero più flessibili saresti in grado di vendere l’acqua del rubinetto come whisky giapponese” affermò nel 2019 l’esperto di whisky Stefan Van Eychen. Al via, quindi, polemiche e richieste per far si che questa storia finisca: il Giappone vuole rivendicare ciò che rende il proprio whisky unicamente giapponese.
“Il whisky giapponese nasce dalla cooperazione tra la benedizione della natura e la saggezza dell’uomo“
A partire dal 2021, per poi proseguire nell’aprile del 2024, la “Japan Spirits and Liqueurs Makers Association” ha stilato una serie di criteri, raccolti in una disciplinare, sui quali ogni malto deve attenersi per poter riportare l’esatta dicitura “Japanase whisky”:
- La saccarificazione, la fermentazione e la distillazione devono avvenire in una distilleria giapponese
- L’acqua deve essere prelevata da una fonte sita in Giappone
- La materia prima deve essere un cereale maltato
- Il whisky deve essere invecchiato almeno 3 anni in Giappone
- Il whisky deve essere imbottigliato in Giappone
- Il whisky deve avere un grado alcolico pari o superiore al 40%
C’è da precisare che non vi è ancora una legge che possa pienamente tutelare i distillatori del Sol levante, ma che la disciplinare è un insieme di norme volontarie e fortemente vincolanti. Sarà davvero finita la farsa o sarà solo l’inizio della creazione di ulteriori scorciatoie? Nel frattempo, Kanpai!