Altro che ritorno, i Red Hot sono sempre gli stessi

Venerdì scorso i Red Hot Chili Peppers hanno rilasciato “Return of the Dream Canteen”, secondo album del 2022. Scelta curiosa nonché inedita: solo con Stadium Arcadium i californiani avevano osato tanto ma in un’unica uscita, per un totale di ventotto brani. Tra l’ultimo lavoro e il primo di quest’anno, “Unlimited Love”, si contano un totale di trentaquattro pezzi, sei in più rispetto alla grande opera del 2006 vincitrice del Grammy al miglior album rock. Il merito, direbbero i più maliziosi, sta nel ritorno di uno che la band l’ha mollata due volte: John Frusciante. La prima nelle mani di Dave Navarro, quantomai bravo ma distante dallo stile Red Hot in “One Hot Minute”, la seconda in quelle di Josh Kliffhonger, uno che non ha mai conquistato davvero la platea né forse se stesso. Il rientro di uno dei chitarristi più talentosi e fantasiosi d’America non può ritenersi unico fattore di una rivincita produttiva imponente e anzi pone un quesito vecchio come il cucco: conta più la qualità o la quantità? Se accostato poi ai recenti lavori di Anthony Kiedis, Flea, Chad Smith e Frusciante la questione si fa ancor più accorata.

Altro che ritorno, i Red Hot sono sempre gli stessi

Unlimited Love e il grande ritorno

Il 15 dicembre del 2019 arriva il grande annuncio sul profilo Instagram della band: Kliffhonger sostituito da Frusciante. Il nostro nuovo doppio album Unlimited Love, è in uscita il 1° aprile – le parole di Flea – Abbiamo scavato il più a fondo possibile, questo album rappresenta il meglio di noi. Sono così orgoglioso dei miei compagni di band che hanno tirato fuori i coglioni, sono sbalordito da tutti loro!. Apriti cielo: dieci anni dopo l’inaspettato addio il tormentato e malinconico John torna a casa. La festa è già pronta, i fan urlano a gran voce il ritorno sul palco e si mettono in fila per prenotare una copia del nuovo, imminente album. Piccolo imprevisto: la pandemia da Covid-19. La carriera loro e di tutto il mondo dell’intrattenimento musicale è costretta a prendersi una lunga pausa di riflessione. I mesi passano in fretta nonostante i dolori e, superati gli ostacoli del 2021, arriva la notizia tanto attesa: il dodicesimo album in studio è pronto. “Unlimited Love” è il ritornello vincente di “Black Summer”, il basso di “Acquatic Mouth Dance”, il solo di chitarra in “The Great Apes” e la coralità di “Whatchu Thinkin’”. Non un’opera da farti balzare dal divano ma un sereno bentornato alla formazione originale, con qualche rivisitazione più soft e meno colpi di scena. A metà luglio, nel bel mezzo del tour, un’altra sorpresa. Esce un altro ellepì: “Return of the Dream Canteen”.

Return of the Dream Canteen: ritorno alle origini?

Il primo singolo estratto è un colpo al cuore: “Tippa My Tongue” sembra un brano di fine anni ’80. Il sound è più funky che mai, bambinesco alla pari di una “Yertle the Turtle” ma senza le trombe. Talmente primordiale che nel testo spunta anche una citazione a “Funky Monks” di “Blood Sugar Sex Magik”, uno dei capolavori meglio riusciti dell’album. Diciamolo: il motto dei “Red Hot che tornano alle origini” è inflazionato e spunta fuori più o meno ogni cinque anni. La verità è che quel sound ironico e beffardo nella scrittura, sregolato e ritmato nel sound lo hanno abbandonato raramente e perlopiù nel periodo di loro maggior successo (seconda metà degli anni ’90 e primi duemila). Perfino nei non amatissimi “I’m With You” del 2011 (“Look Around” e “The Adventures of Rain Dance Maggie”) e “The Getaway” del 2016 (“Go Robot”) si scovano lontane tracce dei primi, inconfondibili spunti. Impossibile pretendere un ritorno ai tempi di “Catholic School Girls Rule”, la direzione riflessiva accennata in “Californication” ed esplosa in “By The Way” è ormai parte nel dna del gruppo e questo avviene pure nella collezione di canzoni pubblicata pochi giorni fa. Non c’è sorpresa: via la sperimentazione, resta la storia.

Altro che ritorno, i Red Hot sono sempre gli stessi

Un album privo di colpi di scena ma più che mai ricco

L’omaggio commovente a Eddie Van Halen in “Eddie”, morto due anni fa dopo una lunga malattia; la travolgente “Fake as Fu@k e l’irresistibile “Roulette” sono i tre pezzi che colpiscono a un primo, superficiale ascolto. Poi riavvolgi il nastro e ti commuovi su “Carry Me Home”, un inaspettato mix di rock e blues; rifletti sul brano di chiusura “In the Snow”, vicino allo psichedelico testato da Frusciante nei suoi lavori solistici e godi della bellezza di “The Drummer”, di cui è già online il videoclip ufficiale. La struttura di questo nuovo, lungo viaggio è la classica e presenta pochi colpi di scena mantenendo sempre alto, altissimo il livello di identità artistica. La macchina RHCP continua a funzionare tramite le sue regole e le sue tradizioni, i suoi princìpi e volendo anche gli errori. “Vedo Chad Smith pochissime volte – ha detto Flea in una recente intervista -, avrò visto casa sua una volta sola nella mia vita. Io e lui comunichiamo sul palco, per capirlo mi bastano pochi sguardi e iniziamo a suonare”. Non serve credergli sulla parola ma è necessario spulciare i live, vero valore della band statunitense. Le improvvisazioni sono di enorme fattura e impreziosiscono un già raffinato lavoro in studio che pure ha dei buchi neri. Alcuni brani risultano spaventosamente anonimi: prendendo in esame proprio “Retunr of the Dream Canteen” cosa aggiungono “Copperbelly” e “La La La La La La La La”? Nulla, ma fanno parte di un grande disegno infinito appeso ai pettorali di Anthony Kiedis: finché sono in piedi loro, siamo in piedi tutti noi.

La tradizione soppianta la sperimentazione

In un’intervista a Guitar World Josh Kliffhonger, oggi partner di Eddie Vedder e turnista coi Pearl Jam, rilascia quello che potrebbe sembrare uno sfogo e che invece – se letto senza patteggiamenti di sorta per uno o l’altro membro del gruppo – è una valida chiave di lettura per la recente carriera del suo ex gruppo. “Ovviamente è triste quando perdi qualcosa. Con i ragazzi ho trascorso 10 anni perfetti ma, per quanto amassi suonare con loro, mi sono sentito soffocare sul piano creativo. Hanno un sound consolidato e col tempo ho imparato quanto fosse difficile deviare da quello stile. Quando sono entrato nel gruppo cercavo di usare accordi e suoni che fossero diversi da quelli di John o provavo intenzionalmente ad allontanarmi dalle scelte dell’album precedente. Pensavo di fare il mio e il loro bene. Li credevo pronti a sperimentare, ma poi restavano sulla loro strada”. Nella musica di solito funziona così: evolvi il tuo stile e ti inimichi i fan della prima ora (Coldplay); stravolgi i valori iniziali e deludi un po’ tutti (Muse); resti lo stesso, vivi qualche frattura interna ma prosegui nella tua indiscussa, leggendaria carriera. Forse è questo il caso dei Red Hot Chili Peppers, ancora perfettamente in grado nel 2022 di intrattenere ed emozionare un’altra generazione di ragazze e ragazzi, pronti senza fronzoli a tuffarsi nell’unico mondo funky rimasto vivo dai gloriosi anni ’90.

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La guerra e la solitudine di Papa Francesco, tra i pochi a chiedere con forza la pace: ce ne parla Alessandro Di Battista con un commento in apertura. All’interno anche il 2024 in Medio Oriente, la crisi climatica, il dramma dei femminicidi in Italia, la cultura e lo sport. Da non perdere, infine, le rubriche Line-up, Ultima fila e Nel mondo dei libri, realizzate da Alessandro De Dilectis, Marta Zelioli e Cesare Paris.

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