“Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo” scriveva Aldo Moro alla moglie Eleonora in quel maggio del 1978. Ma i suoi occhi non hanno più rivisto la luce: quattro giorni dopo aver scritto quella lettera, il suo corpo senza vita fu ritrovato in una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, a Roma. Un corpo rannicchiato nel bagagliaio di un’auto rossa parcheggiata a pochi metri dalla sede del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Quella foto in bianco e nero diffusa poi dalla stampa restituiva al mondo quello che restava dell’ex presidente della Dc, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo di 45 anni fa.
Aldo Moro – L’agguato e la strage di via Fani
Mancano pochi minuti alle 9, Moro esce di casa. È diretto a Montecitorio per il discorso di insediamento del quarto governo Andreotti. Un passo decisivo per l’Italia: per la prima volta la Dc avrebbe “aperto” al Partito Comunista. Si sarebbe realizzato il Compromesso Storico. È l’apice del progetto che ha la firma del leader della Dc: dare il via a una nuova fase di progresso portata avanti in maniera concertata dalle forze democratiche del Paese. Moro sale sull’auto con due uomini di scorta. A seguirlo una Alfetta con altri tre agenti a bordo. Pochi minuti dopo, all’incrocio tra via Fani e via Stresa, un commando blocca le due auto. Un agguato che in pochi secondi diventa una strage. Oltre 90 colpi esplosi che uccidono i cinque uomini della scorta. Sono Domenico Ricci, Giulio Rivera, Raffaele Iozzino, Francesco Zizzi e Oreste Leopardi. Moro viene trascinato fuori dell’auto e caricato su un’altra, che si dileguerà. Alle 10.15, telefonate ad organi di stampa di Roma, Milano, Torino e Genova rivendicano: “Questa mattina abbiamo rapito il Presidente della Democrazia cristiana ed eliminato la sua scorta”. È l’operazione Fritz, per usare il nome in codice usato dalle Brigate Rosse. È l’inizio di un mistero che, per tutti noi, dura ancora oggi. Un caso mai risolto. O quasi. I testimoni di quegli anni stanno scomparendo e con loro le risposte. C’è chi dice che Moro si poteva salvare. Chi che ad ucciderlo sia stato lo Stato. Per altri la fermezza era inevitabile. Alcuni accusano il Vaticano di non essere intervenuto. La verità – purtroppo – non si saprà mai. E la morte di Moro resta uno dei tanti – troppi – misteri italiani.
Aldo Moro – I cinquantacinque giorni di misteri, il falso comunicato e il covo di Moretti
Dopo cinque indagini giudiziarie, quattro processi e due commissioni d’inchiesta ancora non è stata fatta chiarezza nemmeno sui giorni di prigionia. Cinquantacinque giorni in cui l’onorevole Moro è stato ostaggio delle Br, prima di essere ucciso. Cosa successe? Cosa fece e cosa avrebbe potuto fare lo Stato? E soprattutto: Moro si sarebbe potuto salvare? “La storia non si può fare con i se” sostiene Gero Grassi, componente della Commissione d’inchiesta sull’eccidio di via Fani, sul rapimento e la morte di Aldo Moro. Per lui “Moro non l’hanno voluto salvare. Lo disse anche Cossiga che, nel momento in cui lo Stato decise di non trattare con le Br, era consapevole che Moro sarebbe stato ucciso”. Parole forti, che sono in linea con quanto raccontò Steve Pieczenik, membro di uno dei tre comitati che furono istituiti dopo il rapimento nel suo libro “Abbiamo ucciso Aldo Moro. “La decisione di far uccidere Moro non venne presa alla leggera. Cossiga – racconta – mantenne ferma la rotta e così arrivammo a una soluzione. Con la sua morte impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e di evitare la destabilizzazione dell’Italia e dell’Europa”. Pieczenik fu coinvolto in qualità di psicologo dell’ufficio antiterrorismo del Dipartimento di Stato statunitense, esperto in casi di rapimento. L’importanza del suo coinvolgimento si comprende considerando che pochi mesi prima il presidente americano Jimmy Carter aveva decretato che i servizi di informazione statunitensi non potessero collaborare con governi stranieri in casi di terrorismo, salvo che non fossero in gioco interessi di sicurezza e pericolo per gli Usa. Nel libro Pieczenik rivelò il suo reale compito: “Guadagnare tempo. Ma mi resi conto che avrei dovuto sacrificare l’ostaggio per la stabilità dell’Italia. Abbiamo dovuto strumentalizzare le Br per farlo uccidere”. Le sue parole, però, furono ampiamente ridimensionate quando il PM Luca Palamara lo interrogò. Pieczenik ha raccontato di aver partecipato a una riunione del comitato durante la quale venne deciso di creare un falso comunicato, da diffondere insieme a quelli che le Br stavano pubblicando durante la prigionia. È il comunicato numero 7: annunciava la morte dell’ostaggio e la sua sepoltura non lontano dal lago della Duchessa.
Lo scopo era – appunto – preparare l’opinione pubblica al probabile decesso di Moro. Anche se agli inquirenti il volantino apparve poco credibile, perché scritto con linguaggio e strumenti inconsueti per i Brigatisti, furono avviate egualmente le ricerche nel lago. Ricerche interrotte solo quando le Brigate Rosse fecero trovare le copie del vero comunicato. Le Br interpretarono quel comunicato falso, come un’impossibilità di effettuare scambi di prigionieri con lo Stato. Lo rivelò Enrico Fenzi ai giudici: “Secondo le BR, il comunicato era il segnale chiaro e inequivocabile che nessuna trattativa era possibile”. Il 18 aprile – il trentennale della vittoria democristiana del 1948 contro il Pci – non venne diffuso solo il comunicato, ma fu anche scoperto un covo dei brigatisti in via Gradoli. Come? A causa di una perdita d’acqua per cui erano stati chiamati i vigili del fuoco. Perdita che però non fu casuale. Si scoprirà poi venne volutamente causata. Il capo squadra dei vigili del fuoco, Giuseppe Leonardi, il primo a entrare nel covo di via Gradoli, si diresse subito verso il bagno. Lì trovò il “telefono” della doccia aperto, appoggiato su un manico di scopa sistemato di traverso nella vasca in modo da far penetrare l’acqua dentro una fessura del muro che era l’evidente origine dell’infiltrazione. Molti però hanno sostenuto o avallato una tesi opposta, accreditando cioè l’idea di una perdita d’acqua casuale. Di conseguenza, per tutti costoro la caduta del covo di via Gradoli non sarebbe stata un’operazione volontaria, coordinata al minuto con la contemporanea scoperta del falso comunicato del lago della Duchessa, ma un inaspettato colpo di fortuna per le forze di polizia che avrebbero così scoperto, a causa di una fuga d’acqua accidentale, la principale base romana delle Br dove viveva Mario Moretti, l’organizzatore della strage di via Fani e uno dei carcerieri di Aldo Moro. Moretti sfuggì alla cattura – che avrebbe potuto cambiare le sorti del sequestro – perché aveva lasciato il covo per l’ultima volta poche ore prima.
Aldo Moro – Invocarono gli spiriti per cercarlo
Un mistero, preceduto da un altro. È il 4 aprile del 1978. A Bologna un professore universitario di nome Romano Prodi, racconta a un funzionario della Dc che durante una seduta spiritica ha scoperto dov’è tenuto prigioniero Moro. Gli spiriti hanno rivelato a lui e a altri presenti che il presidente della Dc è prigioniero a Gradoli, un paesino vicino a Viterbo. La segnalazione fu presa seriamente e arrivò alla polizia, ma gli agenti mandati sul posto non trovarono nulla. La vedova di Moro dichiarò di aver più volte indicato agli inquirenti l’esistenza di una via Gradoli a Roma, senza che questi estendessero le ricerche anche lì. Questa circostanza è stata energicamente smentita da Francesco Cossiga. Solo due settimane dopo la polizia scoprì l’appartamento di via Gradoli. Dopo l’uccisione di Moro, magistrati e commissioni di inchiesta chiesero più volte ai dodici partecipanti alla seduta di Zappolino come fosse stata possibile una simile coincidenza. Tutti quanti confermarono la versione di Prodi: la parola “Gradoli” associata al rapimento di Aldo Moro era emersa durante una seduta spiritica in una villa fuori Bologna, il 2 aprile del 1978. Sono passati 45 anni e nessuno dei dodici protagonisti ha cambiato versione: tutti parlano seriamente di una seduta spiritica, compreso Prodi, che nel frattempo è stato due volte presidente del Consiglio e capo della Commissione europea. Ma quindi dove tennero nascosto Moro? Secondo la ricostruzione ufficiale, il covo delle Br di Via Montalcini è stata la prigione di Moro per tutti i 55 giorni del sequestro. Ma anche sul covo di Via Montalcini ci sono molte incongruenze. Sembra ormai probabile che via Montalcini non sia stato l’unico covo a ospitare Moro. Il fratello di Aldo Moro, Alfredo Carlo, basandosi sulla sabbia trovata sul cadavere propose una teoria secondo la quale l’ultima prigione sarebbe stata vicino a una località marina. Secondo lui, poi, le conclusioni dell’autopsia sul corpo, che fu trovato in buone condizioni fisiche, lascerebbero supporre che Moro abbia avuto una certa libertà di movimento, condizione lontana da quella che si sarebbe avuta nei pochi metri quadrati del covo di via Montalcini. Tante domande, poche risposte. Forse non così poche secondo Gero Grassi.
Aldo Moro – Il Memoriale e gli intrighi internazionali
“Se gli italiani leggessero la relazione della commissione d’inchiesta – sostiene – capirebbero che la verità sta lì. Ed è quasi totale. Quello che manca è il racconto di alcuni protagonisti che aggiungerebbero dettagli, ma molti sono morti e altri non parlano perché inseriti nella trattativa Stato brigate rosse. La trattativa condotta da Cossiga, allora Presidente della Repubblica, con l’aiuto di Ugo Pecchioli, esponente del Pci, e dei servizi segreti che costruirono ad arte il Memoriale Morucci Faranda. Si tratta di un documento redatto dai due brigatisti in cui viene descritto l’agguato di via Fani con l’obiettivo di incasellare il caso Moro in una vicenda tutta italiana voluta dalle Br e salvaguardare la volontà di Stati Uniti e Urss a non favorire la nascita di una Europa”. Memoriale che la Commissione ha “completamente sbugiardato”. Il rapimento Moro dunque “non è opera solo delle brigate rosse, ma anche delle brigate”. Per l’onorevole Grassi si tratta di “una vicenda internazionale, collegata agli accordi di Yalta e quindi alla divisione del mondo tra americani e russi, conseguenza della seconda guerra mondiale”. Ed è per questo che l’onorevole parla spesso di verità negata. “La verità è stata negata attraverso la costruzione a tavolino del memoriale al quale hanno partecipato pezzi autorevolissimi dello Stato e della magistratura”. Un memoriale sul quale fa luce anche Ratto nel suo saggio, edito da Bibliotheka edizioni, “L’Honda anomala”.
Aldo Moro – Perché l’America si interessò al rapimento di un politico italiano?
Ma che c’entrano gli Stati Uniti con un politico italiano? Anche sullo scacchiere internazionale, Moro, che fu più volte ministro degli Esteri, pose l’Italia in una posizione di alleato non subalterno agli Stati Uniti, guardando oltre la linea di confine che in Europa divideva, dopo gli accordi di Yalta, l’Ovest filo atlantico dall’Est fedele all’Unione Sovietica. Fu infatti il politico democristiano a condurre le trattative e a sottoscrivere il documento finale della conferenza di Helsinki del 1975, che stabiliva cooperazione economica, scientifica, tecnica e ambientale, diritti umani. Non si deve dimenticare poi che Moro elaborò la teoria del Compromesso Storico. Non stupisce quindi che gli Stati Uniti, contrari alle aperture a sinistra, non videro di buon occhio le strategie di Moro. Fino all’arrivo di Moro alla segreteria di Piazza del Gesù, il sistema di governo Dc si basava sull’esclusione dei partiti di opposizione. Con la strategia dell’attenzione, il baricentro politico si sposta a sinistra. L’idea di una cooperazione fra le forze comunista e socialista con quelle di ispirazione cattolico-democratica, al fine di dar vita a uno schieramento politico capace di realizzare un programma di profondo risanamento e rinnovamento delle istituzioni e di riconciliazione sociale. E fu proprio l’omicidio Moro a far naufragare il progetto. L’ammiraglio Falco Accame, Presidente della Commissione difesa della Camera durante il periodo del rapimento del presidente Dc e autore del libro “Moro si poteva salvare. 96 quesiti irrisolti sul caso Moro” ha sempre sostenuto che gli Stati Uniti giocarono un ruolo fondamentale nella vicenda. Erano preoccupati dall’espansione del comunismo in Europa e in Italia.
Aldo Moro era considerato un pericolo perché rappresentava la possibilità di crescita del Partito Comunista Italiano (Pci) in quanto voleva portare i comunisti al governo. Tutta la questione del caso Moro dunque si innesca su questo fatto. Ma cosa fecero, in concreto, gli Stati Uniti? Dai racconti di Accame “pensarono di mettere in piedi un’organizzazione chiamata Stay-Behind. All’apparenza doveva essere impiegata per operazioni di lotta partigiana. In realtà, però, sotto questa apparenza di nobili intenti ciò che alla CIA premeva era di avere a disposizione forze armate che non fossero alle dipendenze dell’esercito italiano né dei servizi segreti italiani. Questo è l’elemento che ha giocato nel Caso Moro la questione Stay-Behind, cioè la messa in vita di queste forze che agivano sotto la direzione dell’Ufficio Ricerche dei servizi segreti. Questa era una forza assolutamente irregolare perché, in Italia, i servizi segreti hanno solo compiti di informazione e non possono intervenire nella lotta armata. Ma su quanto incise il ruolo della Stay-Behind in Italia si sa poco perché “tutta la documentazione venne fatta distruggere”. Non un’unica regia, ma una pluralità di attori. Come si legge anche nei documenti della Commissione.
Aldo Moro – Il mio sangue ricadrà su di loro
Per molti dunque Moro si sarebbe potuto salvare. Ma l’hanno lasciato morire. Come forse si rese conto anche lui. E le lettere che scrisse durante la prigionia lo dimostrano. In una missiva dell’otto aprile Moro scriveva: “Non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente a una carica che doveva essermi salvata accettando anche lo scambio di prigionieri. Nessuno si è pentito di avermi spinto a questo passo che io chiaramente non volevo? E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro”.