Alberto Sordi, l’intervista mai pubblicata

Vent’anni fa, il 24 febbraio 2003, moriva Alberto Sordi. Questa intervista è stata rilasciata nel suo studio romano il 3 luglio 1995, in occasione della stesura del libro – curato da Massimo MoscatiAmmazza che fusto (Rizzoli, 1995). All’epoca l’autore rimaneggiò il testo per trasformarlo in una testimonianza di pugno dell’artista. Pertanto, questa intervista, nella sua forma originaria, è rimasta sino ad oggi inedita.

Alberto Sordi, l'intervista mai pubblicata

Eccoci Maestro, partiamo dall’inizio.

Svolgo questo lavoro da sempre, tanto che è diventato la mia ragione di vita. Non è casuale che abbia deciso d’intraprenderlo: non sono stato indirizzato da qualcuno che poteva aver individuato le mie qualità. Si tratta di una vocazione costituzionale, oserei dire, che è nata con me. Se vado indietro nel tempo, fino ai primi anni dell’infanzia c’era questa voglia irrefrenabile di esibirmi. Volevo esprimermi, non sapevo perché, ma feci capire ai miei genitori che volevo fare l’attore: e, infatti, non ho mai pensato ad altro. Non c’è mai stato un momento d’incertezza, anche se mia madre e mio padre hanno comunque cercato di dissuadermi. Non mi hanno scoraggiato o proibito nulla, dato che mi è stato permesso di approfondire, ove possibile, ogni aspetto dell’attività di attore: ma non volevo andare a scuola di recitazione, perché ero convinto di dover fare altrove le mie esperienze. Non mi interessavano le nozioni accademiche, ben altro dovevo imparare, e lo avrei potuto fare soltanto stando a contatto con l’ambiente e le persone.

Iniziò da ragazzo, come la pensavano i suoi genitori?

Secondo mia madre era un’avventura troppo rischiosa. I miei fratelli si stavano laureando ed io, dopo la morte dei miei, sarei rimasto in balia di me stesso, alle prese con un’attività molto difficile: poter contare per tutta la vita su questo lavoro sembrava impensabile, perché molti avevano fallito. Mio padre era un professore d’orchestra, che aveva rinunciato a tutto nella vita, dedicandosi esclusivamente a quelle quattro note che gli servivano per il suo lavoro, e cioè l’uso di uno strumento di accompagnamento come il basso tuba che gli aveva permesso di lavorare sempre. Fin da giovanissimo avrebbe potuto optare per il violino, il clarino, il flauto; ma scelse il basso tuba perché, mi disse, non lo prendeva nessuno. Stava a significare che mio padre non doveva competere con nessun altro, mentre secondo lui io mi accingevo a voler emergere tra migliaia di persone, per diventare un grande attore. Ma non è facile ottenere il successo, e mio padre mi invitava alla riflessione, perché rimanere un attore mediocre per tutta una vita sarebbe stato molto duro, molto triste. Non ho potuto smentire quello che mi aveva detto.

Non ci fu un istante d’incertezza nell’intraprendere l’attività artistica?

Quando si crede in ciò che si vuol fare, quando si è convinti di essere nel giusto, non ci si deve fermare alle prime difficoltà: prima o poi si riesce. Quando si ama un lavoro, quando l’impegno diventa veramente importante, costruttivo, ci si specializza e non si può fallire. Insomma, ero proprio convinto che quello fosse il mio destino, e volevo arrivare al grande successo, alla popolarità, quella per la quale la gente ti riconosce e ti ferma per strada.

Il pubblico teatrale gradì immediatamente le sue proposte?

Ero ottimista perché, per quanto effimeri, giungevano dei segnali: in teatro riscuotevo molto successo, si parlava molto di me, ma tutto finiva nell’àmbito del luogo ove la rappresentazione veniva tenuta, davanti a non più di mille o duemila spettatori. Era una routine talmente lunga che capii che dovevo accelerare i tempi. Avevo delle idee assolutamente originali. Questo mio desiderio di sconcertare la gente non era una prova di virtuosismo, semplicemente avevo la sfacciataggine di ricreare certi personaggi e certe situazioni. Avevo la capacità di rappresentare, ero convinto di quello che stavo facendo. Anche se certi «giochetti» si possono ritenere facili, come le imitazioni o le canzoncine, la gente rimaneva comunque stupita dalle mie prestazioni, non riusciva a capire come uno potesse arrivare a tanto. Imitare il bue, la gallina, l’aeroplano. Il pubblico commentava.

Dopo il teatro, la radio.

Io proponevo anche le imitazioni più ingenue con molta serietà e compostezza: dicevo di aver studiato moltissimo le voci. Poi dichiaravo che la rappresentazione non era ancora perfetta: ero felice di esporla al mio pubblico, ma doveva essere messa a punto. E quando finivo il pubblico mi applaudiva, ma si chiedeva: che sta facendo, questo? Aveva bisogno di commentare, e la cosa andava avanti per mesi. Eppure, ancora non capivano. E così mi dissi che l’unico mezzo che mi avrebbe permesso di divulgare rapidamente quello che proponevo era la radio. Se fossi riuscito a presentare un programma con il mio nome (come poi accadde con Vi parla Alberto Sordi) avrei immediatamente raggiunto la popolarità. Ma non fu facilissimo. Pugliese, il direttore della radio, mi disse che il divismo radiofonico non era ancora nato; perciò, non era consuetudine fare un programma con un solo personaggio. C’era la compagnia di rivista, quella di prosa. Insomma, apprezzò le mie storielle e mi congedò. Naturalmente non mi diedi per vinto, e cominciai a frequentarlo.

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Un paio di occhiali caduti in mare furono provvidenziali…

Durante una gita in barca, Pugliese perse gli occhiali in mare. Occhiali a quanto pare insostituibili, al punto che incaricò dei sub di recuperarli. Io mi tuffai in acqua con loro e…andai a sbattere con la testa proprio sugli occhiali del direttore! Era destino, e infatti lui capitolò e mi permise due prove, che si tramutarono in quattro anni di successi.

Vittorio De Sica apre al cinema.

Vittorio fu tra coloro che si divertirono molto nell’ascoltare le gesta del mio personaggio, un giovane di Azione Cattolica, con un tono petulante e perbenista che diventava fastidioso. Era uno scocciatore, ma dal momento che le sue maniere erano gentili, per quanto continuasse ad assillare i suoi interlocutori, alla fine erano questi ultimi a reagire con toni cattivi. E lui poi si meravigliava, e diceva: «Dai, dai continua imperterrito, con questa sorta di invituperi». Vittorio mi propose di produrre insieme un film. Interpretai questo personaggio, ma ci accorgemmo subito che anche con il supporto dell’immagine era troppo dialogato, troppo radiofonico. E il pubblico, non preparato a un certo tipo di comicità che precorreva i tempi, rispose freddamente. Decisi di attendere che il cinema si accorgesse di me, dopo questo debutto non proprio eclatante. E ripresi a fare teatro con Wanda Osiris.

E arriva Federico Fellini.

Federico mi chiese d’interpretare Lo sceicco bianco, ma anche quel film precorreva i tempi. Allora la comicità era ancora concepita come «opera buffa»: si scrivevano dei copioni con le gag, le cadute, le torte in faccia, e quando il comico si presentava in pubblico doveva essere immediatamente riconoscibile: con la bombetta, i baffetti, alto, grasso, gobbo, la testa grande ecc. Io impersonavo personaggi con delle caratteristiche particolari. Il ragazzo de Lo sceicco bianco era anche piacevole, fotogenico, ma nei rapporti umani era praticamente un animale. Infatti, anche quel film non mi permise di aumentare la mia popolarità.

Finalmente, con “I vitelloni”, la svolta.

Fortunatamente, grazie a I vitelloni sempre di Federico, ebbi la grande occasione per far accettare le mie idee, anche se il ruolo che avevo in mente era al limite delle mie possibilità. Non ero un virtuoso, ero un anonimo qualunque, perché assomigliavo alla gente comune. Mi rifiutavo di «recitare» in termini accademici, perché adottavo il linguaggio di tutti i giorni: nei film io «parlavo» come accade nella vita, entrando nel cuore degli spettatori. Il Neorealismo diede questa possibilità a tutti coloro che, dotati di talento, non erano andati a scuola. Il Neorealismo mi ha permesso di tracciare un programma: rappresentare la realtà del momento, delineare personaggi della mia età, e gettare su di loro tutto il ridicolo di chi nella vita si comporta negativamente. E questo generava ilarità negli spettatori, perché la comicità è sempre al negativo. I produttori continuavano a non capire, non ridevano ai miei copioni. Era molto difficile spiegare il mio concetto di cinema, a parole. Però, se si fossero riconosciuti nei miei dialoghi e si fossero immedesimati, forse sarei riuscito a convincerli. E con I vitelloni capirono che bastava una semplice battuta ben inserita nel contesto per destare le risate del pubblico. Da quel momento ottenni la loro fiducia.

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E così nasce il “progetto Sordi”.

Potevo finalmente mettere in pratica il mio progetto. Mi guardai intorno per capire cosa stesse accadendo; l’Italia era già ricostruita, si stava approssimando il «boom» economico. Intuii che ciò che dovevo rappresentare erano i rapporti privati, intimi: il giovane italiano si formava una famiglia (Lo scapolo, Il marito, Il seduttore). Poi pensai di coprire quel periodo che non avevo ancora affrontato, con La grande guerra, Tutti a casa, Una vita difficile, cioè prendendo spunto da quei personaggi che avevano partecipato all’armistizio, e che avevano fatto la guerra e la Resistenza. E, via via, tutto quello che stava per annunciarsi: perché ho sempre rappresentato le situazioni anticipandole, mai ricalcandole. Se oggi penso a «Tangentopoli», mi viene in mente il 1984 quando realizzai Tutti dentro. Ricordo che nel film dichiarai che, per chiudere tutto, occorreva incriminare il giudice, pur conoscendone l’integrità assoluta… Be’, mi vengono i brividi nell’assistere a quello che sta accadendo oggi. Proseguii sempre anticipando i tempi, con film come II medico della mutua, Detenuto in attesa di giudizio, Finché c’è guerra c’è speranza. Tanto che, seguendo semplicemente le vicende d’attualità, ho potuto programmare tutto il mio cinema.

Tutto ciò che ha creato è indissolubilmente legato all’Italia.

Ho rifiutato le offerte dall’America, perché mi si chiedeva solo di interpretare dei ruoli, nei quali non mi riconoscevo: mi si chiedeva, in sostanza, una prestazione d’attore. Mentre a me interessava raccontare qualcosa che ben conoscevo, la storia d’Italia appunto. Ho interpretato personaggi di tutte le estrazioni sociali, fino a trovarmi invecchiato attraverso gli anni che sono passati. E sono così giunto a questo vecchio di ottant’anni (in Nestore) che ho voluto rappresentare proprio perché, in un momento economico, sociale e politico così confuso, convulso, dominato dal consumismo, dove diventa impossibile riflettere sulla vita di tutti i giorni, l’anziano rappresenta in assoluto la categoria degli indifesi. Tutti i sentimenti che stanno alla base del vivere sociale sono scomparsi: la vergogna, il rispetto, l’altruismo, la solidarietà. E così, ho realizzato un film che forse il pubblico non si aspettava da me. Stiamo attraversando un periodo che ci impone di non aspettare che le istituzioni provvedano a sistemare determinate anomalie. Basterebbe la volontà del singolo di guardarsi attorno, per aiutare chi ci sta vicino. Solo la solidarietà ci permetterà di uscire da questa grande crisi. Posso dire di essere soddisfatto, oggi sto raccogliendo quello che ho seminato in quasi mezzo secolo di attività. Queste cose hanno un loro riconoscimento: il pubblico che dimostra gratitudine, i critici che finalmente hanno capito – e non sorvolato come facevano un tempo – perché ho fatto quello che ho fatto. Ora, continuando il cammino, mi sono chiesto se un vecchio può ancora essere protagonista di un film, e mi sono reso conto che il mondo è sostanzialmente ancora dei vecchi: il potere è ancora ben saldo nelle loro mani. Dunque il personaggio, il «mio» personaggio, mi offre ancora la possibilità di rappresentarlo. Per questo ho accettato di partecipare a questo ultimo film di Scola, II romanzo di un giovane povero, dove sono tornato a caratterizzare un personaggio impietoso, losco, negativo. E sto naturalmente lavorando a nuovi progetti…

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