Non è stata la mano di Dio

Non è stata la mano di Dio, ma un capolavoro degli uomini. Napoli campione d’Italia, non si sentiva dai tempi di Diego Armando Maradona: una storia scolpita, poco impolverata soltanto per la devozione del popolo napoletano. Quanto è mancata una frase del genere, quanto l’hanno desiderata. Rieccola qui, definitivamente resuscitata: 33 anni dopo, sarà un caso? C’era il Pibe de Oro l’ultima volta, niente a che vedere con questo Scudetto di platino. Senza proclami o figure iconiche, semplicemente il frutto del lavoro e della progettualità. Anche delle sofferenze provate nelle stagioni più buie, quasi una legge del contrappasso: «Avete conosciuto e toccato il Dio del calcio, da qui in avanti vivrete l’inferno…». I successi hanno segnato l’apice, poi ci sono stati ridimensionamento e fallimento. Ora si godano il paradiso. Troppo forte, la squadra di Luciano Spalletti. Mentalità, organizzazione, convinzione, ambizioni fameliche. A livello di rosa, facendo uno screening della Serie A, in pochi ci avrebbero puntato a inizio campionato. É stato un dominio assoluto. Sarebbe sbagliato definirla “fuga”: il Napoli ha fatto un campionato a parte, s’è presentato alla griglia di partenza cambiando i pezzi, acquistandone di migliori, col serbatoio pieno e uno staff competente. Le altre, sottovalutandolo, si sono presentate con le gomme bucate. Sgonfiate una giornata dopo l’altra, cercando di capire (sperare, più che altro) quando Osimhen e compagni si sarebbero fermati. Perché prima o poi sarebbe successo, come al solito, no? Magari dopo la lunga sosta per l’anomalo Mondiale in Qatar, posizionato a novembre e dicembre per la prima volta nella storia. Niente da fare. Il Napoli è ripartito meglio di prima, uscendo in accelerazione dai box, seminando il panico e le inseguitrici.

Non è stata la mano di Dio

Non è stata la mano di Dio – Coraggio

Ha fatto diventare la matematica un’opinione: l’ufficialità è arrivata solo in questo turno infrasettimanale, ma il destino era segnato da mesi. E mesi e mesi e mesi. Chi l’avrebbe mai potuto rimontare? L’ultima ad arrendersi è stata la Lazio, che nella sua stagione tutto ha fatto tranne che pensare allo Scudetto, fosse solo per un secondo. Il che è tutto dire. Non sono pochi, 33 anni. Aurelio De Laurentiis è stesso messo in “croce”, appunto: l’estate scorsa contratti non rinnovati, big ceduti, mosse che sembravano scellerate e si sono rivelate una strategia perfetta, un atto di coraggio e lungimiranza. Era sostenuto dalle sue convinzioni, compresa quella di essersi circondato dalle persone giuste per continuare a crescere, senza farsi condizionare dal chiacchiericcio che avvolge il calciomercato. Ci sarebbero tante statue da erigere, a Napoli si potrebbe campare di riconoscenza dopo un’annata così. Alcuni lo faranno. Un trionfo collettivo, un copione pensato in largo anticipo da Cristiano Giuntoli. Anche perché, se non ci arrivi prima, su certi giocatori non ti puoi più nemmeno avvicinare. Ora è tutto facile e scontato, la conseguenza naturale della strada intrapresa. Nove mesi fa, al contrario, in molti hanno pensato al ridimensionamento, al treno Scudetto perso un’altra volta. Il Napoli, invece, si stava trasformando in una locomotiva.

Non è stata la mano di Dio

Non è stata la mano di Dio – Gruppo

Fuori il gigante Koulibaly in difesa, dentro un coreano. Via Fabian Ruiz, corteggiato dagli sceicchi del Paris Saint Germain, preso un calciatore da rilanciare in prestito dal Tottenham e fiducia a chi già c’era a centrocampo, anche se non s’era ancora espresso. Davanti, l’intuizione con la “INT” maiuscola (la “i” non basta): non rinnovati Insigne e Mertens, pescato un georgiano impronunciabile. Il suo nome è diventato facile quanto “pizza” e “mandolino”. Naturalmente sono già nati i baby Kvicha, prole del tricolore. Un atto di adorazione che in piccolo (piccolissimo) ricorda i tempi di Dieguito. Ma questo è un successo completamente diverso, in cui è difficile spingere un merito al di sopra di tutti gli altri. Meret s’è rilanciato, Di Lorenzo ha dimostrato di essere un capitano con tecnica e attributi, Kim un difensore dall’intelligenza artificiale, Rrhamani una colonna, Mario Rui un dispensatore di assist e sovrapposizioni. Lobotka un cervello ipersviluppato, Anguissa un corazziere, Zielinski uno stoccatore. Lozano e Politano alla stessa altezza, Osimhen un bombardiere mascherato, Kvaratskhelia l’estro che spacca. E poi la panchina, che fa male definirla tale, visto il contributo nelle giornate di turnover (poche) e negli ingressi in corsa: da Raspadori a Olivera, passando per Simeone, Elmas, Ndombélé, Juan Jesus e gli altri protagonisti.

Non è stata la mano di Dio

Non è stata la mano di Dio – Condottiero

Se brilla il gruppo intero, significa solo una cosa: Spalletti ha compiuto un’opera d’arte. Proprio lui, il tecnico definito “perdente” perché in Serie A non aveva mai vinto uno Scudetto. Come se avesse mai avuto a disposizione il roster più forte del campionato, fallendo l’obiettivo che gli avevano assegnato d’estate. Una delle tante visioni superficiali che regnano in Italia. Se ti chiedono di arrivare in Champions e finisci terzo, il tuo “Scudetto” l’hai centrato. Lo stesso se devi salvarti e chiudi a metà classifica. Non vince solo chi arriva primo, ma anche chi supera le aspettative. Esasperando l’esempio: se guidi una Fiat Panda e partecipi al Gran Premio di Monza, non possono definirti “fallito” perché non finisci davanti alle Red Bull e alle Ferrari. Spalletti ha fatto la gavetta, scalato i livelli del club allenati, un passettino alla volta. Non è mai partito, però, coi favori dei pronostici, al comando di una corazzata superiore alle avversarie. E quando è successo, in Russia, di campionati ne ha vinti due, mica uno. Quest’anno s’è tolto un macigno dalle scarpe, altro che sassolino: «Uno Scudetto con il Napoli vale tutta l’attesa della mia carriera», ha detto in una delle ultime conferenze. Da Certaldo al cuore di Napoli, condottiero e mente di una squadra che ha messo in mostra un’identità precisa su ogni campo e per questo ha accartocciato le altre. Costruite con più soldi, ma sicuramente meno idee.

Non è stata la mano di Dio

Non è stata la mano di Dio – Gli anni bui

Ai napoletani, mentre guardano tutti dall’alto verso il basso, rivengono in mente i dolori provati sulla propria pelle. La cronologia dei patemi, adesso, è un motivo d’orgoglio. Il 2 agosto 2004 la Società Sportiva Calcio viene decretata fallita, il debito sfiora i 79 milioni di euro. Un mese dopo, il 6 settembre 2004, nasce la Napoli Soccer con Aurelio De Laurentiis presidente. Si riparte dalla Serie C1 grazie al “Lodo Petrucci”. La prima stagione si conclude in modo amaro con la sconfitta ai playoff contro i rivali dell’Avellino. La promozione in Serie B arriva il 15 aprile 2006. Il 23 maggio dello stesso anno De Laurentiis riacquista il titolo sportivo “Società Sportiva Calcio Napoli”, dodici mesi dopo (10 giugno 2007) ecco di nuovo le luci della Serie A. Piano piano la rosa migliora, cambiano allenatori e direttori sportivi, non si fa mezzo passo indietro. De Laurentiis, giustamente, ha gonfiato il petto: «Quando abbiamo comprato il Napoli, nel 2004, il club era sull’orlo della bancarotta. Non c’era niente. Nessun buon giocatore, nessuna struttura, niente di niente. Abbiamo costruito una nuova realtà da quel punto zero». Ha rivendicato il suo operato, ci mancherebbe altro: «Dopo il grande Maradona, campione nel 1987 e nel 1990, il Napoli ha corso sempre più all’indietro fino al fallimento. Siamo riusciti a tirare fuori il club dalla depressione». Tra le rivelazioni non ha escluso una serie tv sul terzo tricolore appena conquistato. Chissà a chi affiderà la sua interpretazione.

Non è stata la mano di Dio

Non è stata la mano di Dio – Risalita

La storia del Napoli si porta dietro un insegnamento: se si opera bene e si crede in ciò che si fa, prima o poi, si raccolgono le più alte soddisfazioni. Il club partenopeo se n’è tolte parecchie negli ultimi 10 anni, qualche trofeo l’aveva già portato a casa, però meritava un riconoscimento simile, che sfociasse sul terzo Scudetto. Per cominciare a rivendicare il presente e non vivere soltanto dei ricordi del passato, per quanto indelebili. Il tricolore è un percorso che parte da lontano, non è conseguenza di un paio di sessioni di mercato azzeccate. C’è voluta un’escalation di colpi tecnici e affari finanziari: acquisti indovinati e cessioni dolorose, poche volte dal punto di vista economico. Osimhen e Kvaratskhelia sono parenti di Cavani e Higuain, Raspadori e Lozano di Callejon e Hamsik, Lobotka e Zielinski di Jorginho e Allan, Di Lorenzo e Kim di Albiol e Koulibaly, Meret di Reina e Ospina. Tutti figli di Montervino, Grava, Giubilato, Capparella, Calaiò e Denis. No, non è stata la mano di Dio. Questo è un capolavoro degli uomini.

(foto copertina LaPresse)

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