C’è chi lotta contro le agromafie

Nel 2021, sono circa 230 mila gli occupati impiegati irregolarmente nel settore dell’agricoltura. Chi pensa che il lavoro subordinato irregolare sia solo al sud, sbaglia alla grande. Le agromafie, ed ecomafie in generale, non sono una questione meramente territoriale. Al centro-nord, infatti, i tassi di irregolarità degli occupati sono compresi tra il 20 e il 30%. A fare il punto sulla situazione è il VI Rapporto agromafie e caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, presentato a novembre 2022 a Roma. Nel comparto agricolo “si riscontra la tendenza a generare lavoro povero” ove prevalgono individui, che pur avendo lavorato, mostrano redditi personali e familiari decisamente al di sotto dei valori medi, spiega una nota. Escludendo i lavoratori stranieri non residenti, poco meno di un terzo dell’occupazione agricola (pari a oltre 300 mila unità) ricade in questa area a bassissimo reddito, con un’incidenza che è il triplo di quella media. L’estrema vulnerabilità della parte più fragile dell’occupazione agricola è evidenziata anche dal numero di procedimenti e di inchieste avviate per motivi di sfruttamento lavorativo. Di agromafie e illeciti nel settore agricolo, di vittime e carnefici ce ne parla Diletta Bellotti, attivista e ideatrice di “Pomodori Rosso Sangue”.

C'è chi lotta contro le agromafie

Cosa intendiamo per agromafie?

Le attività illecite nella filiera agroalimentare vanno dalle tradizionali attività in agricoltura e in allevamento, come le truffe per ottenere finanziamenti pubblici, false certificazioni, finti marchi di qualità o l’abuso di pesticidi, alla piaga sociale del caporalato, al trasporto della merce, ai mercati ortofrutticoli all’ingrosso, fino alla vendita dei prodotti sui banchi dei supermercati e al business legato alla ristorazione. Sono migliaia i produttori che subiscono il controllo delle cosche, attraverso minacce, soprusi ed estorsioni, soprattutto nelle regioni meridionali. Quello rurale, poi, è un mondo in cui vige ancora molto forte l’omertà rispetto a questo tipo di illegalità, come conferma il silenzio sull’abigeato. Le famiglie criminali hanno da tempo le mani sui mercati ortofrutticoli più importanti del Paese. Numerose inchieste hanno smascherato la presenza di ‘ndrine, camorristi e mafia all’interno dei grandi mercati di Milano, di Fondi nel basso Lazio, di Vittoria e nelle regioni del Sud, dove i boss comandano indisturbati. La presenza criminale è forte anche nella commercializzazione di alcune produzioni tipiche pregiate, a cominciare dall’olio di oliva, passando dal parmigiano reggiano alla mozzarella di bufala, dal pomodoro al vino, spesso utilizzando l’imbroglio del “falso Made in Italy” o del cosiddetto “Italian sounding” per conquistare importanti fette del mercato internazionale.

Chi sono le persone coinvolte: vittime e carnefici?

Fare un discorso di vittime e carnefici è estremamente semplicistico e problematico, soprattutto quando si parla di persone coinvolte nelle reti di sfruttamento del caporalato. Le colpe vanno ricondotte a entità inafferrabili come la GDO (grande distribuzione organizzata) e, più in generale, a un mercato neoliberista globale basato sullo sfruttamento estremo, anche mortale, di manodopera considerata “usa e getta”. Il caporalato va inserito, per essere compreso, nella dinamica globale di schiavitù contemporanea, senza cui il nostro sistema economico collasserebbe. Quando si parla di caporali, vanno sicuramente riconosciuti i crimini e le violenze, ma va anche riconosciuto il contesto di violenza strutturale in cui le persone migranti sono messe dal nostro sistema, strutturalmente, razzista.

Come sei diventata un punto di riferimento per i giovani che vogliono informarsi sulle agromafie?

Non lo so! (ride, ndr), Io posso dire che ho lanciato, insieme alla mia amica Isabella Sofia Picchi, una campagna di informazione e sensibilizzazione chiamata “Pomodori Rosso Sangue” che aveva lo scopo di de-strutturare la narrazione intorno al fenomeno del caporalato e fare luce sulle lotte bracciantili. Adesso, tanto di quel lavoro è confluito nel collettivo di scrittura ribelle “fango” in cui raccontiamo molto delle intersezioni del caporalato con la lotta transfemminisma, ecologista, antispecista e anticapitalista.

C'è chi lotta contro le agromafie

Le agromafie sono territoriali?

Si parla troppo poco di quanto il caporalato sia un problema legato non intrinsecamente a un territorio, il Sud per esempio, ma che ritroviamo ovunque ci sia un lavoro irregolare. Il caporalato è un problema dell’agricoltura ma anche, per esempio, dell’edilizia. Dunque, è necessario riconoscere che non si tratti di “un problema del sud” perché la situazione è altrettanto allarmante al nord, in Veneto per esempio. Ecco, questo sarebbe un primo passo per analizzare meglio la natura del fenomeno, senza cadere nei pregiudizi e falsi miti.

Cosa ne pensi della divulgazione mediatica delle agromafie?

Penso che ci sia pochissima onestà intellettuale. I media hanno una scarsa capacità di concentrazione e ascolto quando sono in buonafede, quando sono in malafede invece…

Quali problemi sono connessi alla questione delle agromafie?

Il controllo totale del mercato, delle persone che sono considerate, nella nostra economia, “sfruttabili e sacrificabili“, e ovviamente lo sfruttamento della terra, perché agromafie equivale spesso anche ad ecomafie. Tra le attività delle ecomafie compaiono il traffico illegale e lo smaltimento illegale dei rifiuti, pericolosi e non, ma anche il traffico di buste shoppers illegali, l’abusivismo edilizio su larga scala, incendi boschivi e illegalità nel mercato dell’agro alimentare. Questo insieme di crimini ambientali frutta alle ecomafie un indotto milionario.

Cosa possiamo fare per contrastare le agromafie? 

Consiglio di informarsi prima di tutto sulle battaglie che sono state fatte in Italia. Prima tra tutte quella alla Masseria di Boncuri di cui Yvan Sagnet è stato uno dei principali leader e che ha dato poi vita al progetto NO CAP, un ottimo esempio di resistenza e proposta alternativa al sistema delle agromafie. NO CAP nasce nel 2011 come movimento per contrastare il “caporalato” in agricoltura e per favorire la diffusione del rispetto dei diritti umani, sociali, e dell’ambiente. Nel 2017 la Rete Internazionale NO CAP ha deciso di strutturarsi in associazione che, di recente, ha assunto la forma giuridica di Ente per il Terzo Settore (ETS). NO CAP è gestita da un gruppo di attivisti, volontari che mettono il bagaglio delle loro esperienze e conoscenze a disposizione dell’associazione. Ne fanno parte professionisti di diversa formazione e competenza: esperti di cooperazione internazionale, agronomi, giornalisti, avvocati, ingegneri, commercialisti, esperti in energie rinnovabili, economia circolare e digitale, comunicazione e marketing, che operano da diverse parti d’Italia e dall’estero, collaborando a distanza. Il loro contributo, in questi anni, ha permesso all’associazione di crescere avanzando proposte e individuando soluzioni. Parte del lavoro si svolge recandosi sui luoghi di lavoro per capire i problemi e dare risposte a lavoratori e imprese. NO CAP si autofinanzia attraverso donazioni. Per progetti specifici fa ricorso al crowdfunding per la raccolta fondi. A tale strumento si è fatto di recente appello per l’acquisto di tre mini van che hanno consentito il trasporto in sicurezza di lavoratrici e lavoratori braccianti. Tra le attività di cui si occupa NO CAP rientra anche quella finalizzata al rilascio del bollino NO CAP per attestare l’adozione, da parte delle imprese, di scelte etiche sul piano del lavoro e della sostenibilità ambientale lungo tutta la filiera agricola dei prodotti.

Parlami della tua campagna “Pomodori Rosso Sangue”

Pomodori Rosso Sangue è una performance di disturbo e nasce dall’osservazione della realtà pugliese dei lavoratori del pomodoro. Un giorno, leggendo della morte per fatica di una delle tante braccianti che raccolgono i pomodori in Puglia, non ho potuto fare a meno di guardare quei campi con altri occhi. Così ho cominciato a informarmi sulla questione del caporalato e ho deciso che il mio attivismo si sarebbe concentrato su quello.

C'è chi lotta contro le agromafie

Tutto inizia nell’estate del 2019 quando Diletta trascorre un mese a Borgo Mezzanone, un “insediamento informale” dove dormono i braccianti sottopagati. Gran parte di loro provengono dall’Africa Sub-Sahariana: hanno costituito una comunità forte, con relazioni di mutuo aiuto e riconoscimento reciproco. Non vogliono fare quel lavoro per sempre, ma vogliono comunque restare in Italia e per questa ragione il rischio di derive violente tra di loro è basso. Diletta ha vissuto con loro. Dopo un mese la sua presenza era stata notata con fastidio da chi organizzava il caporalato, ma quello che aveva visto con i suoi occhi era sufficiente per poter creare una performance ad alto tasso di disturbo, chiamata Pomodori Rosso Sangue. Ha così cominciato a girare le principali piazze d’Italia con l’intento di creare quel disagio che solo l’arte che parla di ingiustizia sa risvegliare nelle coscienze di chi passa. Al centro dell’azione artistica di Diletta c’è il suo stesso corpo, avvolto nella bandiera italiana e fermo al centro della piazza. L’attivista addenta dei pomodori da cui fuoriescono succo e sangue finto che colano per il mento e macchiano il volto e la bandiera. “La mia scelta non è stata quella di mettere in scena l’odio o la rabbia, che pure provo per ciò che ho visto. Ho preferito restituire un senso di disgusto abbinato a un cibo rassicurante (il pomodoro) che fa parte della nostra tradizione culinaria più identitaria”.

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