A Palazzo Barberini il ritorno di Urbano VIII

A 400 anni dalla sua elezione al soglio pontificio, qualcuno lo considererebbe il più abile “influencer” del suo tempo. Un leader onnivoro di cultura o un politico 3.0. Sicuramente uno stratega della propaganda. Perché Maffeo Vincenzo Barberini, alias papa Urbano VIII, vescovo di Roma dal 1623 al 1644, fu molto più del bersaglio della mordace pasquinata attraverso la quale la statua parlante più famosa di Roma criticava gli scempi edilizi perpetrati dalla famiglia approdata dalla Toscana nella città eterna (uno tra tutti la fusione delle travature in bronzo del Pantheon per la costruzione dei cannoni di Castel Sant’Angelo). Il nome di Urbano VIII è legato a imprese colossali come il baldacchino di San Pietro disegnato da Gian Lorenzo Bernini, o l’affresco di Pietro da Cortona nel grande salone del palazzo di famiglia. Ma soprattutto sua fu la mano che distese sull’Urbe un nuovo stile, quel Barocco della meraviglia che avrebbe presto conquistato l’Italia e l’Europa. Quest’anno ricorrono i quattro secoli da quell’elezione e una mostra poderosa, in corso fino al 30 luglio a Palazzo Barberini, spiega perché senza il “papa poeta” il Barocco, per come lo conosciamo, non sarebbe lo stesso. Curato da Maurizia Cicconi, Flaminia Gennari Santori, Sebastian Schütze, il percorso L’immagine sovrana, Urbano VIII e i Barberini, oltre a restituire i 21 anni di pontificato illuminato dell’ultimo sovrano pontefice – che fu anche collezionista, poeta, “perfettissimo astrologo”, amante della letteratura e delle arti figurative, prodigo mecenate – celebra l’eccezionale ritorno a Roma della collezione smembrata nei secoli e distribuita oggi tra i più grandi musei europei e americani. «La disgregazione della collezione Barberinispiega Maurizia Cicconi – avviene in varie epoche, a partire dal Settecento, nonostante fosse legata da vincolo inalienabile. La principale dispersione avviene a partire dal 1934 quando, per regio decreto, lo Stato italiano concede alla famiglia Barberini, nonostante i vincoli, di potere alienare parte delle proprie opere. La mostra riporta a casa lavori che hanno lasciato il territorio italiano, come nel caso di Poussin, nel 1934, e che per la prima volta tornano oggi nel palazzo in cui erano conservati».

A Palazzo Barberini il ritorno di Urbano VIII
L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini, Allestimento | Foto: © Alberto Novelli | Courtesy Gallerie Nazionali di Arte Antica-Palazzo Barberini 

Urbano VIII – Un politico europeo

Così 88 capolavori – dei quali 70 prestati da una quarantina tra istituzioni museali, collezioni private italiane e internazionali – restituiscono i volti di quell’eccezionale stagione avviata dall’elezione di Urbano VIII, salutata da Galileo Galilei come “mirabile congiuntura”. D’altra parte, già da quando un sedicente astrologo aveva pronosticato per il giovane Maffeo, studente a Pisa, nientepopodimeno che l’elezione papale, il futuro pontefice si preparava a traghettare la navicula Petri nel più ambizioso mare della politica europea.

Urbano VIII – Nel suo “alveare”

«I papi hanno sempre fatto politica culturale, sin dal Medioevo – ricorda Sebastian Schütze -. La differenza tra Urbano VIII e gli altri sta proprio nella persona di Maffeo Barberini, personaggio affezionato alla cultura e alle arti ancora prima della sua elezione. L’arte diventa per lui uno strumento favoloso per lavorare sull’immagine del suo pontificato». Farsi ritrarre da Bernini significava contrarre un debito di favore con i “padroni” dello scultore e con il papa stesso. In rari casi, gli artisti della sua cerchia eseguivano, come favore speciale del papa, opere direttamente per Carlo I o per il cardinale Richelieu, come dimostra il busto in marmo realizzato da Gian Lorenzo Bernini, in prestito dal Musée du Louvre. D’altra parte Urbano VIII – il papa che non a caso aveva scelto per sé il nome dell’Urbs e dell’Urbanitas – insieme ai nipoti Francesco e Antonio e il Principe Taddeo fu bravissimo nel perseguire un progetto politico-culturale ambizioso, in ogni ambito della produzione artistica. Il mecenatismo e la promozione delle arti era un’ottima carta da giocare per potenziare il governo spirituale e temporale della Chiesa, e non solo per accrescere il prestigio familiare.

A Palazzo Barberini il ritorno di Urbano VIII
L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini, Allestimento | Foto: © Alberto Novelli | Courtesy Gallerie Nazionali di Arte Antica-Palazzo Barberini

Urbano VIII – Le api dei Barberini

Un buon imprenditore seleziona anche il suo “logo”. E Maffeo Barberini, ancora prima di approdare al soglio pontificio, opta per un brand efficace. Discendente da una famiglia fiorentina di mercanti di lana e tessuti, appena ordinato cardinale sostituisce i tafani con le più nobili api, dando la prima dimostrazione del suo sofisticato talento pubblicitario. E simili alle api nell’alveare della benevolenza papale, scienziati, eruditi, pittori del suo tempo alimentarono la sua anima con il nettare della loro arte e della loro scienza. Ed eccolo in mostra lo sciame sbucare nella sublime Allegoria dell’Italia (in mostra a partire dal 3 maggio) raffigurata da Valentin de Boulogne per i committenti Barberini. A proposito di api, le cronache del tempo riportano un evento portentoso. Nei giorni del difficile conclave un nugolo di insetti volò dalla Toscana (terra di Maffeo) in Vaticano per posarsi guarda caso accanto alla finestra della cella del cardinale Barberini, eletto ancor prima dalla natura che dalla storia. Da quel momento lo stemma delle api invase Roma senza mai più abbandonarla, disseminando ovunque la presenza di sua santità.

Urbano VIII – Le opere da non perdere

Vale la pena di prendersi qualche minuto per rabbonire con lo sguardo Pan ebbro. Nella quarta delle dodici sezioni della mostra, il satiro sembra svegliarsi da un momento all’altro dopo i postumi di una libagione. La statua attribuita a Francesco da Sangallo il giovane (arrivata a Roma dal Saint Louis Art Museum) affianca la Morte di Germanico di Nicolas Poussin (dal Minneapolis Institute of Art) commissionata dal cardinale Francesco nel 1626. Il cammino cronologico attraverso le sale, scandite da un allestimento ben pensato, dove il nero guida lo sguardo aiutando a smarcare gli elementi del percorso dagli altri capolavori di Palazzo Barberini, è un viaggio di scoperta. Il Sacrificio di Isacco di Caravaggio (dagli Uffizi), come anche il San Sebastiano nella cloaca Maxima (dal Getty Museum di Los Angeles) provano come Maffeo Barberini, già da cardinale, fosse un raffinato cultore delle arti. Se lo sforzo di riaffermare l’universalismo della Chiesa cattolica attraverso la celebrazione di simboliche figure storiche come Matilde di Canossa, la politica dei processi di canonizzazione, l’attività dell’Istituto di Propaganda Fide trova nel Martirio di Sant’Erasmo di Nicolas Poussin dai Musei Vaticani la sua più alta rappresentazione, la celebrazione delle imprese di famiglia è affidata a libri e stampe. Non mancano gli arazzi dall’arazzeria Barberini, altra straordinaria operazione imprenditoriale promossa nel 1625 dal cardinale Francesco.

A Palazzo Barberini il ritorno di Urbano VIII
L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini, Allestimento | Foto: © Alberto Novelli | Courtesy Gallerie Nazionali di Arte Antica-Palazzo Barberini 

Urbano VIII – Nel grande teatro della propaganda

Nel Salone di Pietro da Cortona la mostra offre l’opportunità di vedere per la prima volta gli arazzi (conservati in parte ai Musei Vaticani e in larga parte negli Stati Uniti) assieme ai loro cartoni preparatori, appartenenti per lo più alla collezione delle Gallerie Nazionali. Immergersi in questo viaggio significa anche seguire Urbano VIII nel grande “Teatro degli Stupori” che fu lo scenografico Palazzo Barberini, luogo in cui la famiglia non risiedeva, ma che assunse una straordinaria funzione pubblica, essendo riservato alle feste e ai banchetti, e, in origine, adibito anche agli spettacoli teatrali. Tuffandoci tra i grandiosi eventi “urbani” descritti ne La Giostra del Saracino, affidata alla regia di Andrea Sacchi, o nello scenografico Carosello per l’ingresso di Cristina di Svezia di Pietro Gagliardi, diventiamo per qualche ora anche noi protagonisti di questo sfarzoso teatro della propaganda. Una volta usciti da questo regno popolato da api e allori, Roma non sarà più la stessa. Dimentichiamo la damnatio memoriae tentata da un’orda di romani collerici alla morte di Urbano VIII, il “papa-gabella” come lo chiamavano i cittadini, stremati da tasse di ogni tipo imposte per dissetare le ambizioni di Maffeo e famiglia. Allora un po’ lo perdoniamo questo papa, affondando lo sguardo in quel volto barocco che trova nella città eterna il suo sorriso più autentico.

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