Apple non ha mai fornito indicazioni ufficiali sul numero di abbonati di TV+, il servizio streaming che ha compiuto da poco tre anni di vita. Un report della società d’analisi Statista li quantifica in 35 milioni circa. Per fare un raffronto, Netflix e Prime Video hanno nel 2022 dichiarato di aver superato i 200 milioni di abbonati paganti, Disney+ – che pure ha debuttato dopo rispetto TV+ – è già sopra i 100. Quindi la piattaforma di Cupertino non ha certo “sfondato” sul mercato, eppure si può parlare di un’operazione pienamente riuscita. Si può spiegare questa affermazione partendo dalla serie che, dopo aver trionfato agli Emmy lo scorso anno nella categoria commedie, è ripartita in questi giorni con l’attesissima terza stagione: Ted Lasso. Premettiamo un dettaglio fondamentale: su TV+ ci sono solo produzioni originali. Il che vuol dire che il catalogo è molto più contenuto e ridotto rispetto a quello degli altri colossi sopracitati, che non soltanto producono, ma acquistano anche all’esterno e offrono ai loro abbonati, includendoli nel pacchetto SVOD, titoli del passato. È un primo elemento interessante, perché significa che TV+ nasce per essere una nicchia, in altre parole per riprodurre perfettamente la politica che da sempre ha fatto la fortuna di Apple, cioè quella di un Love Brand che vuole rappresentare, per chi ne fa parte, una minoranza dorata, un circolo di privilegiati che si contrappone a una maggioranza indefinita. Del resto, basta ogni volta ripensare a 1984, lo spot “fondativo” di Apple diretto da Ridley Scott, per ricordarsi quale sia la logica della brand image di Apple e come la mela morsicata vuole che si sentano i propri utenti. Quindi, premesso che la ratio del catalogo è questa, pochi ma buoni insomma, Ted Lasso, serie firmata da Bill Lawrence – showrunner che ha inventato e sviluppato Scrubs, Cougar Town e Spin City, tre serie di grande successo – è un esempio di come temi, spunti e impostazione delle singole serie siano un meccanismo reputazionale perfettamente congegnato, quasi un manifesto dei valori che Apple vuole siano associati alla marca e su cui ha investito in comunicazione negli ultimi anni: inclusività, diversity, multiculturalità, ottimismo. Con questa serie, a Cupertino accelerano sulla brand reputation, guadagnando più punti in un biennio di quanti ne avessero accumulati in un decennio.
Apple Tv+ – Un coach hungry and foolish
Ted Lasso, giunta alla terza stagione, racconta di un allenatore di football americano, il cui nome dà il titolo alla serie, che viene reclutato per allenare un club di fascia bassa della Premier League inglese, l’immaginario Richmond. L’obiettivo della presidente del club, Rebecca Welton (Hannah Waddingham), è in realtà, almeno inizialmente, quello di affondare la propria squadra, per dispetto verso l’ex marito. Dato questo spunto di partenza, la serie si sviluppa proponendo un gruppo di personaggi straordinariamente complessi, tutti molto diversi tra loro, accomunati proprio dagli elementi valoriali che Apple desidera siano associati al proprio marchio e che emergono nella serie in modo progressivo e mai scontato, spesso messi alla prova dalle difficoltà della vita. Anzi, potremmo dire che Ted Lasso è proprio la storia dell’affermazione di questi valori positivi sulle tensioni negative dell’esistenza e della società. C’è inoltre un discorso sulla leadership e sull’organizzazione, veicolato benissimo proprio dalla figura di Ted, splendidamente interpretato da Jason Sudeikis: il coach è una guida gentile, un uomo sensibile e carismatico, che non nasconde le proprie fragilità, che ha una dimensione emotiva complessa, ma che – sdrammatizzando e alleggerendo – riesce a guardare al futuro con positività. La sua gestione dello spogliatoio è folle e creativa, hungry and foolish, verrebbe da dire, sempre fuori dagli schemi; il gruppo è incoraggiato costantemente a rompere le convenzioni, e presto anche gli altri componenti della società, dirigenti e impiegati, vengono contagiati da questo spirito creativo. Il mondo del Richmond, nel quale anche noi entriamo progressivamente, attraverso il punto di vista di Ted, scoprendolo un po’ alla volta, è ricco di sfumature e decisamente complicato, ma l’ironia del coach riesce presto a smussare tutti gli spigoli, facendo emergere un’umanità profonda, davanti alla quale è difficile rimanere indifferenti.
Tutti, ma proprio tutti i personaggi, da Rebecca ai giocatori, dal team manager Higgins (Jeremy Swift) alla mental coach Sharon (Sarah Niles) fino a Keeley Jones (Juno Temple), tutti svelano un po’ alla volta la propria natura complessa, tutti riescono ad affrontare ed arginare difficoltà importanti con il supporto degli altri e con la forza delle relazioni. Buonismo? Tutt’altro: il rischio della semplificazione, che incombe costantemente, è sempre evitato con cura, grazie a una scrittura perfetta e accurata. Il personaggio forse più riconoscibile di tutta la serie è però quello di Roy Kent, interpretato da Brett Goldstein, giustamente premiato con l’Emmy come miglior attore non protagonista. All’inizio della prima stagione, Roy è un campione sul viale del tramonto, uno che ha vinto la Champions League con il Chelsea e che ora è il capitano di una matricola che lotta per non retrocedere. Sembra un duro impenetrabile, personaggio evidentemente ispirato all’ex capitano del Manchester United Roy Keane, ma si trasforma nel tempo e nel corso delle due stagioni, mostrando un lato umano straordinario e incarnando, anche lui come Ted, un modo diverso di essere leader di un gruppo. In particolare, colpisce il tema dell’accettazione della fragilità e della sconfitta, inusuale e profondo, che attraversa entrambe le stagioni e tutti i personaggi. L’ipercitazionismo di alcune puntate, soprattutto della seconda stagione (quella sul Natale in particolare, o quella del “ritorno” di Kent) rafforza l’idea della nicchia: che cosa c’è di più esclusivo della citazione, che ammicca a un destinatario con cui ci si intende al volo, a un primo sguardo, mentre gli altri sono out?
Apple Tv+ – Reputation first
Che cosa dimostra, dunque, Ted Lasso? Una verità tanto forte quanto, ormai, banale. La comunicazione reputazionale passa dalla produzione di contenuti di altro profilo, che rispondono al bisogno crescente di ognuno di noi di costruire il proprio palinsesto personale e quindi alla nostra “fame” di oggetti narrativi, e al tempo stesso permettono, senza il fastidioso effetto di interruzione dell’adv, di modellare in modo preciso e perfetto l’impianto valoriale del brand che li produce. In questo senso, non solo Ted Lasso, ma l’intera operazione TV+, è perfetta e lucidissima: non è certo il numero di abbonati che può misurarne il successo, rappresentato invece molto più verosimilmente dai 4 Emmy Awards e dai numerosi fan che attendono giustamente con trepidazione la terza stagione.