Loro, con tutta probabilità, questo pezzo non lo leggeranno mai. O meglio: loro e tutti quelli che stanno dando vita al progetto più contro-rivoluzionario degli ultimi trent’anni. Giusto così, sia chiaro. Perché se le rivoluzioni hanno un senso, allora è fondamentale sposarle, condividerle e apprezzarne anche il significato. In questo caso però la condivisione non sarebbe social, bensì umana. Ma soprattutto reale, tangibile, concreta, salutare. Insomma, vera. Si chiama Luddite Club, ed è l’unica possibilità affinché il mondo torni ad essere un posto migliore: “Passiamo semplicemente il tempo con metodi sani, poco incisivi in maniera negativa sulla nostra mente”. Jameson Butler, capelli castani con ciocche tinte di biondo, è seduta con i suoi amici diciassettenni sui gradini della Central Library di Brooklyn, a Grand Army Plaza, mentre racconta e decreta il suo personale addio dalla tecnologia. Qualcuno ha con sé un libro, nessuno ha lo smartphone, alcuni hanno deciso di venderlo: “D’estate portiamo anche le amache”, spiega la sua amica Logan. Le legano agli alberi di Prospect Park, il grande parco davanti alla biblioteca. Logan, Jameson, Odile Zexter-Kaiser e l’unico maschio, Max Frackman, hanno rinunciato ai telefonini di ultima generazione scegliendo di usare quelli «a conchiglia», popolari vent’anni fa e oggi molto simili a dei reperti archeologici. Sono i ragazzi del Luddite Club, il circolo dei luddisti, un gruppo di adolescenti nato alla Murrow High School. Anche col freddo, la pioggia, la neve, si incontrano ogni domenica. Di persona. Come si faceva una volta: “Stiamo aspettando un paio di altri amici”. Quando i ritardatari arrivano, si addentrano nel parco, per sedersi in cerchio a disegnare, leggere, suonare la chitarra. Secondo il New York Times, il nome Luddite Club l’ha inventato la mamma di Logan: deriva da Ned Ludd, l’operaio che nel 1799 in Gran Bretagna distrusse un telaio, dando vita a un movimento che reagì con violenza all’introduzione delle macchine nell’industria. Adesso il termine indica chi rifiuta la tecnologia. Per questi ragazzi è una questione di salute mentale. Il loro antisocial network (come lo ha definito una rivista studentesca) ha una portata rivoluzionaria per una generazione che non ha mai vissuto senza social media. L’obiettivo è quello di coinvolgere più seguaci in assoluto. Proprio come i maledetti follower su Instagram o Twitter. Ma questa volta con incontri veri, condivisioni reali, scambi culturali e confronti sinceri.
Luddite Club – Nella normalità, c’è un’idea rivoluzionaria
Ce ne sono poche di intuizioni simili. Anzi, forse non ce ne sono proprio. Luddite Club è il primo ed unico esempio di come stravolgere le abitudini quotidiane. Via gli smartphone, i like, le stories, Facebook, Instagram, Twitter e pure TikTok. Si torna alla normalità, si riabbracciano i valori di una volta, si rientra a casa sporchi, puzzolenti e con le ginocchia macchiate di sangue. Oppure un pizzico più acculturati, tra i grandi classici della letteratura mondiale o qualche ora passata a suonare uno strumento musicale. Sembra utopia, invece è la realtà. Ne parlano con orgoglio questi ragazzi americani, protagonisti di un’idea liberatoria: recupero del contatto fisico, della creatività, dell’uso positivo del cervello. E se oggi ci sono autorevoli sondaggi, come quello del Pew Research Center, a spiegare che la maggioranza degli americani ritiene i social dannosi per la salute e per la democrazia, c’è da scommettere che il ludditismo sia soltanto agli albori. I media americani lo hanno già ribattezzato come “Movimento di liberazione degli smartphone“. Ed è lo specchio di un malessere che ciclicamente, seppur con sfumature diverse, torna ad affacciarsi nella vita dell’uomo contemporaneo. Da qui nasce il grande dubbio amletico della fase storica che stiamo attraversando: essere o non essere connessi? Disinnescare la pressione sociale, alimentare i rapporti live, rendersi conto che isolarsi dal web può essere anche un beneficio. E forse, a distanza di anni, l’irreperibilità tornerà un privilegio inestimabile. Una pressione che i luddisti di oggi conoscono fin troppo bene, unita ad ansie e fragilità di una generazione sempre online. Per questo quel cassetto lo tengono sottochiave.
Luddite Club – Stop ai like, si torna a studiare
L’inchiesta portata avanti dal NYCity News Service riporta le interviste svolte ai membri del Luddite Club. “Ad un certo punto mi sono accorta che durante il tempo che stavo al cellulare il mio cervello non processava nulla, era solo intrattenimento; quando ho smesso di usare il telefono ho sentito la chimica cambiare e ho anche iniziato a dedicarmi di più allo studio e alla scuola”. Tra di loro c’è anche chi ha iniziato a scrivere un libro e chi si è dedicato alla sartoria, al disegno, alla musica, allo sport. Se, infatti, spesso si sente parlare di nativi digitali, sarebbe invece più opportuno chiedersi se gli adolescenti (ma anche gli adulti) oltre che essere molto bravi a “maneggiare” lo strumento, siano anche consapevoli delle conseguenze e degli effetti che l’uso eccessivo del cellulare provoca. Alla fine, questo gruppo di giovani non ha fatto nulla di speciale, si sono presi del tempo per loro stessi e hanno ricominciato ad interagire con i loro coetanei in modo diretto, faccia a faccia e senza interfacce virtuali che si frapponessero tra di essi. In futuro forse l’umanità sarà divisa in due macroaree: chi, per necessità o scelta, vivrà una vita iper-connessa e chi, per scelta o contingenza forzata (socio – economica, geo-politica) vivrà una vita più legata al mondo materiale, quello che sostanzialmente ci appartiene. Alcuni di noi non ci proveranno nemmeno; altri sono già impegnati nella lettura di questo articolo e di conseguenza hanno già aperto un social o navigato su un qualsiasi motore di ricerca. Quei ragazzi invece staranno leggendo un libro, cantando una canzone, calciando un pallone o forse dibattendo su un argomento culturale. Beati loro. Noi, purtroppo, continuiamo a scrollare.