Una vita in valigia, le storie dei rifugiati ucraini

Valigie preparate di corsa mentre fuori suonano sirene, esplodono bombe, crollano edifici e muoiono persone. Una vita intera racchiusa in pochissimo spazio e in pochissimo tempo. La stazione raggiunta con mezzi di fortuna sperando di non essere uccisi. Un viaggio interminabile, stipati in treni o in auto sempre con la paura di essere fermati ai posti di blocco, verso un Paese dove non ci sono soldati che sparano e uccidono, dove non ci sono bombe che devastano case, scuole, ospedali. È il dramma che da un anno vivono milioni di ucraini che continuano ad arrivare in Europa per sfuggire alla guerra. Perché sì, l’emergenza profughi, seppur ridotta rispetto ai primi giorni dallo scoppio del conflitto, ancora c’è: in Ucraina ancora si spara e ancora si muore. Una guerra che sembrava potesse concludersi in qualche settimana si trascina tragicamente da un anno con il suo carico di morti, feriti, dolore e distruzione. Un esodo cominciato a causa dell’“operazione speciale” del Cremlino e che ancora oggi non si arresta. Uomini, ma soprattutto donne e bambini che abbandonano il paese perché hanno perso tutto: casa, lavoro e spesso anche familiari. Scappano perché sanno che non hanno futuro in quella che ormai è una terra martoriata dalle bombe. Arrivano in Europa nella speranza di potersi riscostruire una vita, in cerca di un futuro migliore. Un futuro però incerto che molti faticano a delineare. Gli edifici distrutti, le macerie che raccontano di quelle vite interrotte all’alba del 24 febbraio di un anno fa, sono visibili a tutti. Ma gli animi delle persone devastate dentro no. Quelli non li vedi. Le ferite dell’animo sono le più profonde e le più difficili da curare. Ce lo dicono i loro volti, i loro occhi carichi di sofferenza, e spesso anche le loro lacrime e i loro silenzi. “Il 24 febbraio ha segnato la fine di tutto” racconta Olena, professoressa di Storia al liceo di Mariupol, che ora vive in Italia insieme al marito e alla figlia, ospite a casa di parenti. “Difficile dimenticarsi quel giorno. La mattina ero a casa, mi stavo preparando per incontrare i miei studenti. Sulla porta mi raggiunge la telefonata di una collega: Ma oggi andiamo lo stesso a lavorare? Io ignara: Sì, perché? Accendo la televisione e in un attimo capisco il senso di quella domanda: la guerra è scoppiata, ed è a casa nostra”. E quello era solo l’inizio. “Bombe notte e giorno, rumore di aerei sopra la testa per cui ti chiedi ogni volta dove sganceranno il missile. Niente acqua, luce, gas e telefono. Negozi e centri commerciali saccheggiati dalla gente che cercava di accaparrarsi qualsiasi cosa, anche gli scaffali, per bruciarli e riscaldarsi perché stavamo a otto gradi sotto zero. E poi la fame. Il cibo ha cominciato presto a scarseggiare, mio padre cucinava sul fuoco in cortile le scorte che razionavamo, l’acqua andavamo a raccoglierla al fiume. Case, strade, scuole, ospedali: tutto era diventato un bersaglio. Ho visto un’intera via completamente rasa al suolo un giorno con l’altro. Ho visto una madre fuori di sé con il figlio neonato in braccio che piangeva disperato per la fame”. E Poi la fuga. “Dopo 40 giorni in questo dramma siamo riusciti ad evacuare e a metterci in salvo”.

Una vita in valigia – I numeri dopo 365 giorni di guerra

Ad un anno dall’inizio dell’invasione russa sono oltre otto milioni i rifugiati scappati dall’Ucraina e registrati in Europa. Due milioni e mezzo hanno scelto di fermarsi nei Paesi più vicini come Polonia, Repubblica Ceca, Moldavia e Romania. Secondo i dati diffusi dell’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, ad oggi 1,5 milioni sono in Polonia, 485 mila persone vivono invece in Repubblica Ceca, 108 mila hanno scelto di rifugiarsi in Moldavia e altrettanti in Romania. Tantissimi sono fuggiti in Germania che ne ha accolti oltre 1 milione. Oltre 173 mila, invece, gli ucraini arrivati in Italia stando ai dati raccolti dalla Protezione Civile. Di questi quasi 50 mila sono minori.  Numeri certo inferiori rispetto agli altri paesi. Ma non bisogna dimenticare che dietro a ogni numero c’è una vita. Una vita da proteggere e soprattutto ricostruire. Bambini ai quali garantire un’istruzione, adulti a cui trovare un lavoro.

Una vita in valigia – Il sostegno dell’Europa

Numeri che hanno spinto l’Europa a immediati interventi normativi, come successe già nel 2001 dopo i conflitti armati sui Balcani occidentali. Allo scoppio della guerra, l’Unione Europea ha attuato la direttiva sulla protezione temporanea, che riconosce ai profughi tutela immediata. In questo modo, infatti, possono ottenere più velocemente il permesso di soggiorno, che gli consente di vivere in uno Stato membro avendo praticamente gli stessi diritti dei cittadini che già ci abitano. La protezione ha validità di almeno un anno e può essere rinnovata fino ad un massimo di tre a seconda dell’evoluzione della situazione in Ucraina. Degli 8 milioni di profughi arrivati in Europa sono quasi 5 milioni quelli che hanno richiesto assistenza temporanea in un paese membro dell’Unione. Un sostegno che si è tradotto anche in termini economici: le istituzioni europee hanno stanziato fondi per 17 miliardi.

Una vita in valigia – L’intervento dell’Italia: dalla protezione temporanea al contributo economico

Per chi è arrivato dall’Ucraina dall’inizio della guerra, quindi, anche il governo italiano garantisce protezione temporanea fino al 4 marzo 2023. Questo status assicura l’assistenza sanitaria con le stesse tutele dei cittadini italiani ma anche la possibilità di lavorare, frequentare un corso di formazione professionale, fare un tirocinio. La domanda si presenta tramite le questure, che rilasciano un codice fiscale con cui si può accedere a una piattaforma dedicata. Sempre via web è possibile richiedere un contributo di sostentamento per sé e per i propri figli: 300 euro al mese per persona adulta fino a un massimo di tre mesi, con un’integrazione di 150 euro al mese per ogni bambino. Per gestire al meglio l’accoglienza degli sfollati è stato definito un sistema che prevede diverse forme di supporto tra loro collegate. Il primo passo è stato verificare, grazie alle Prefetture competenti, quali e quante fossero le strutture attrezzate per l’accoglienza dei profughi. Un decreto legge, a fine marzo 2022, ha inoltre definito le modalità della cosiddetta “accoglienza diffusa” che consente sia alle strutture appartenenti ad associazioni e fondazioni sia alle famiglie di accogliere, su base volontaria, i profughi ucraini. Il governo italiano dunque si è attivato per aiutare quante più persone possibile. Ma non è stato l’unico. Sono tante le realtà locali – enti, onlus, associazioni, ma anche privati cittadini – coinvolte nell’accoglienza e che continuano a fornire supporto. Tra queste c’è Fondazione Progetto Arca, realtà nata nel 1994 e attiva in molte città italiane, che dallo scoppio della guerra si è messa a disposizione delle istituzioni allestendo a Milano varie strutture pronte a ospitare le famiglie e attivandosi per agevolare l’inserimento dei cittadini ucraini nella vita della città.

Una vita in valigia, le storie dei rifugiati ucraini

Una vita in valigia – I centri per i primi aiuti

A prescindere dal riconoscimento o meno del permesso di soggiorno, tutti i profughi provenienti dall’Ucraina, sin dai primi momenti, sono stati assistiti con le cure mediche necessarie. Molti al loro arrivo in Europa erano, infatti, sfiancati e in condizioni critiche dopo estenuanti giorni di viaggio. Per una prima accoglienza residenziale emergenziale e temporanea Progetto Arca ha allestito diversi hub a Milano. Luoghi dove le persone vengono ospitate inattesa dei ricongiungimenti familiari o dell’accoglienza in casa e seguite da un’equipe di operatori e volontari che sono a disposizione degli ospiti 24 ore su 24. “Si tratta – come spiega Costantina Regazzo, direttrice dei servizi di Progetto Arca – di strutture dove abbiamo fornito e continuiamo a fornire un primo aiuto concreto ai profughi che hanno bisogno di un luogo sicuro dove trovare un pasto completo e caldo, un momento di privacy da dedicare all’igiene personale grazie alle docce e ai kit igienico sanitari distribuiti insieme agli abiti nuovi. Abbiamo allestito – prosegue – uno spazio protetto dove intrattenere e far giocare i bambini e un desk per fornire informazioni utili grazie alla collaborazione dei mediatori culturali di lingua ucraina”. Oltre agli aiuti materiali però, i volontari offrono anche sostegno psicologico per supportare adulti e bambini. “Una delle difficoltà principali nell’assistenza psicologica dei profughi – evidenzia Costantina Regazzo – è la lingua. È molto difficile trovare professionisti che parlino l’ucraino, il lavoro dei volontari in questo senso è stato determinante”. Ma la lingua non è un ostacolo solo per il percorso psicologico, lo è anche per i bambini a scuola e per gli adulti nella ricerca di un lavoro. Ed è per questo che la Fondazione ha attivato corsi gratuiti di italiano. “Offriamo sia lezioni di base e corsi più avanzati, grazie anche ai progetti che abbiamo avviato con l’Università Cattolica e la Comunità di Sant’Egidio”. Costantina ha gestito l’accoglienza dei profughi ucraini fin dall’inizio del loro arrivo a Milano e tuttora segue i centri in cui sono ospitate donne e minori perché, come lei stessa spiega, “sicuramente i numeri sono ridotti, ma i profughi continuano ad arrivare. E così noi continuano a lavorare in costante collaborazione con Protezione civile, Comune e Prefettura”.

Una vita in valigia, le storie dei rifugiati ucraini
Costantina Regazzo, direttrice dei servizi Progetto Arca

Un vita in valigia – Un anno in Italia

Ma com’è la vita di un rifugiato che vive nel nostro Paese da un anno? Procede tra varie difficoltà e sentimenti contrastanti, tra la convinzione che si potrà tornare a casa e lo sconforto di non riuscire ad integrarsi. Molti profughi ucraini sono riusciti a trovare lavoro, il che gli ha permesso non solo di integrarsi al meglio, ma di immaginare un futuro italiano anche dopo la fine della guerra. Per altri però è stato impossibile: non è facile, senza conoscere la lingua, ottenere un’occupazione. “La barriera linguistica è per tutti il primo ostacolo. Ci sono però anche problemi burocratici legati al riconoscimento dei titoli di studio. E questo – prosegue la direttrice- ha demoralizzato molte persone che difficilmente accettano di fare dei corsi formativi quando hanno già una laurea”.  E così in tanti iniziano a soffrire la lontananza dalla loro terra e dai familiari che sono rimasti lì. “Hanno deciso di tornare o – addirittura – sono già rientrati in Ucraina anche se la situazione non è affatto migliorata”. Secondo le stime delle associazioni italo-ucraine sono circa 50mila. Tra loro c’è Maria, 60enne, una laurea in ingegneria e due figli all’università da mantenere. “Era disperata all’idea di dover fare un lavoro dequalificante perché non le veniva riconosciuta la laurea. E così ha deciso di offrire le sue competenze al popolo ucraino tornando in patria” racconta la direttrice. Ma c’è anche chi non si perde d’animo. “Altrettanti – prosegue Regazzo – si stanno pian piano integrando e hanno scelto di stabilirsi qui. Ad incidere anche il fatto di avere amici connazionali che già vivevano in Italia da anni e che li stanno aiutando a ricreare una parvenza di normalità e risolvere problemi pratici. Proprio per chi resta, per consentirgli una migliore integrazione l’associazione offre progetti formativi “per l’introduzione al lavoro, ma anche attività ludiche come proiezioni di film al cinema o visite guidate in città”.  Più semplice l’inserimento dei giovani, grazie anche e soprattutto al fatto che sono stati iscritti nelle scuole italiane. Per rendere il loro inserimento il più agevole possibile, infatti, le istituzioni europee hanno previsto dei supporti economici per gli istituti e una formazione specifica per gli insegnanti per aiutarli a relazionarsi con bambini traumatizzati dagli orrori della guerra. Non tutti però frequentano le nostre scuole. I più grandi, grazie a internet, continuano a seguire i corsi ucraini, soprattutto quelli universitari. “I ragazzi – racconta Regazzo – hanno più spirito d’impresa rispetto agli adulti. Si muovono con facilità in città, usano i mezzi di trasporto e socializzano con più facilità. Per questo si stanno integrando molto meglio deli adulti”.

Una vita in valigia – La nuova esistenza di chi resta

Sofia, 34 anni, aveva un negozio di vestiti in Ucraina. Un’attività aperta con non pochi sacrifici e che mai si sarebbe immaginata di dover abbandonare così. Da un giorno all’altro. E invece è successo. Anche lei, all’indomani dello scoppio del conflitto, è arrivata in Italia. “Sin da subito, dato che conosce la nostra lingua, si è offerta di fare da mediatrice e ha iniziato a lavorare nei nostri centri. Si è data molto da fare e questo le ha consentito di integrarsi ancora meglio” racconta la direttrice. Ora è riuscita a trovare un lavoro e anche una nuova casa. Vive in Trentino ed è felice. “Ci ha lasciate con questa immagine: il paese Italia che dà una seconda possibilità” conclude Regazzo. Una seconda possibilità l’ha avuta anche Olena che ora lavora come operatrice in un Centro di accoglienza gestito da Progetto Arca. “Qui aiuto tanti miei connazionali, soprattutto con la lingua, li accompagno a regolarizzare i documenti, servo il pranzo in mensa, gioco con i più piccoli. Ho sempre creduto che ad aiutare il prossimo aiuti anche te stesso, adesso ne ho la prova”. Lei e il marito però non hanno rinunciato ai loro progetti. “Comunque vadano le cose – dice – un giorno torneremo a Mariupol: il futuro della mia famiglia è lì, la guerra non può cancellare anche i sogni”.

Una vita in valigia, le storie dei rifugiati ucraini

Una vita in valigia – La necessità di nuovi interventi

Nonostante le storie a lieto fine, i problemi da gestire sono ancora molti. Per l’accoglienza dei profughi l’Italia ha speso o ha impegnato 754 milioni di euro. Fondi che sono stati usati appunto per l’assistenza sanitaria, l’ospitalità negli alberghi, il contributo di sostentamento per chi ha trovato una sistemazione autonoma, le spese dei Comuni per i servizi sociali, l’ospitalità nei centri di accoglienza straordinaria e quella diffusa tramite gli enti del Terzo settore. I fondi a disposizione sono stati sufficienti per far fronte al primo anno di accoglienza delle persone arrivate nel nostro Paese. Il protrarsi della guerra, però, sta rendendo necessaria la prosecuzione degli aiuti. In Italia lo stato di emergenza dura fino al 3 marzo, come stabilito dalla legge di Bilancio 2023. Spetterà al Consiglio dei ministri deliberare l’eventuale allungamento. Sarà però necessario stanziare altre risorse. Sempre il 3 marzo poi scadono anche i permessi di soggiorno legati alla protezione temporanea. Molto probabilmente sarà decisa una proroga automatica, che non richiederà nuovi adempimenti burocratici. Ennesima conferma che l’emergenza ancora c’è. E chissà quanto durerà…

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