Kimi è il nuovo film del prolifico e sperimentale Steven Soderbergh (Sesso, bugie e videotape, Traffic, Erin Brockovich, la Trilogia Ocean’s, Contagion) che, proseguendo nei suoi percorsi cinematografici, si diverte ad inventare un thriller citazionista innescato nella modernità. Complice, qui in maniera determinante, lo sceneggiatore David Koepp, che ha scritto per Robert Zemeckis, Steven Spielberg, Brian De Palma, Ron Howard, David Fincher. Il film racconta l’incomprimibile esistenza di Angela Childs (Zoë Kravitz, figlia del grande Lenny), una giovane Millennial appesantita dall’introversione pandemica che vive a Seattle (la giovane soffre dii agorafobia a seguito di un’aggressione, che la pandemia di Covid ha acutizzato: vive praticamente come una reclusa). La sua funzione è quella di ascoltare i feedback degli utenti che chiedono di correggere o aggiornare Kimi, un’assistente vocale simile ad Alexa (stiamo parlando di IA). Nell’ampio loft dove passa le sue giornate Angela osserva i lavoratori in smart-working che scendono in strada ogni mattina per prendere caffelatte e panini per la colazione dal camioncino che ha avuto la bella idea di inventarsi quel servizio. Dalla sua finestra li osserva con un misto di paura e invidia, incapace di riconnettersi con questo mondo camuffato (indossano tutti le mascherine) così simile al nostro e che si risveglia senza di lei.
Kimi – La trama
Durante una di queste sue intercettazioni,si convince di essere testimone di un omicidio. Decide quindi, contro ogni previsione, di denunciare il potenziale crimine all’FBI. Ma fa il passo falso di cercare aiuto dall’azienda che commercializza Kimi, Amygdala, e che al momento è il suo datore di lavoro. Koepp non teme di riscrivere il cinema classico: Kimi è indubbiamente un upgrade cinefiliaco. La giovane pratica il voyeurismo dalla sua finestra (la sua patologia le impedisce di uscire), come la gamba rotta di James Stewart lo costringe a sbirciare da dietro la finestra nell’hitchcockiano La finestra sul cortile. Il suo lavoro la costringe ad ascoltare senza intervenire, una situazione che cambia quando pensa di avere la prova di un omicidio (proprio come accade a Harry Caul/Gene Hackman, il detective privato del coppoliano La conversazione. Se la sceneggiatura gigioneggia con i classici, Soderbergh scommette su una struttura semplice, il film dura dunque meno di 90 minuti, composta da tre atti immediatamente individuabili, ovvero: l’indagine (l’omicidio è reale o una proiezione dei disturbi psichici della giovane donna?), l’inseguimento e la lunga sequenza di incursioni all’interno dell’abitazione di Angela. Che richiama esplicitamente Panic Room, l’altro film di Koepp-sceneggiatore, claustrofobicamente evocativo di questo suo ultimo lavoro.
Kimi – Tra psiche e interazioni funzionali
Questi tre atti sono legati tra loro con fluidità e, anche se il tono del film cambia in base a questa tripartizione, l’insieme rimane omogeneo. Soderbergh, poi, aggiunge un ritmo efficace, che acquisisce intensità con il progredire dell’indagine di Angela (e dalle reazioni che scatena intorno a sé). Lo spettatore può rimanere deluso dall’apparente semplicità della messinscena, veloce e lineare, per quanto serrata. Ma Soderbergh, senza dimenticare la trama, pare più interessato a descriverci Angela, il cui ruolo ricorda molto da vicino Lisbeth Salander, personaggio di Millenium – Uomini che odiano le donne interpretato da Rooney Mara (che Soderbergh ha diretto in Effetti collaterali). Taciturna, austera, francamente sgradevole e limitando le sue interazioni a una modalità funzionale (che si tratti di sesso, cure odontoiatriche o anche supporto emotivo), il personaggio di Angela riesce a incarnare il meglio e il peggio di ciò che la tecnologia sta facendo per portarci conforto, compreso l’isolamento. Zoë Kravitz distilla una disperazione che presto si trasforma in un’inflessibile sete di giustizia. L’attrice offre un’ottima interpretazione: è lei che ha suggerito la parrucca blu per il personaggio di Angela.
Ma Kimi riesce anche a mostrare realisticamente di cosa parliamo quando ci riferiamo al progresso tecnologico in ambito informatico. Così come, per quanto di sfuggita ma con efficacia, la riflessione si allarga alla pandemia, al confinamento o addirittura all’era post-MeToo. Tanta materia, che gravita intorno alla psiche di Angela, il cui ampio loft è ripreso in campi lunghi, a volte fissi, lasciandoci pensare che si tratti di uno spazio di conforto e sicurezza per la giovane donna. Al contrario, durante le incursioni di Angela fuori dal suo appartamento, a volte si trova in un angolo dell’inquadratura, ripresa di sbieco, spesso di spalle, o anche dal basso (tutti questi effetti a volte si sovrappongono o si succedono a costituire una percezione di instabilità e disagio nello spettatore). Allo stesso modo, quando si odono le registrazioni degli utenti di Kimi, il suono ambientale scompare improvvisamente, ricordando il dispositivo che abbiamo imparato a conoscere in Blow Out di Brian De Palma (altro ovvio riferimento).
Kimi – I punti deboli di un film quasi perfetto
Detto tutto il bene possibile di Kimi non si possono, tuttavia, sottacere le imperfezioni. Il film è incapace di offrire uno sviluppo o un personaggio rilevante a chiunque graviti attorno alla sua eroina. Che si tratti del suo amante, di sua madre, del suo misterioso vicino o persino della malvagia azienda tecnologica per cui lavora, nessun personaggio (tra la manciata di altri protagonisti presenti sullo schermo) beneficia nemmeno dell’inizio di un approfondimento. Le azioni poste in atto da chi fa da contorno alla storia vengono disinnescate rapidamente e la trama procede secondo una progressione meccanica. C’è come una necessità di fare ordine, di procedere razionalmente: Kimi affronta tanti temi (la tecnologia che si trasforma in alienazione, il Covid, l’agorafobia, perfino il parto…) ma non è il primo film ad averli esaminati: il regista avrebbe dovuto cercare di dare vita ad una identità propria al suo film per individuare un elemento di originalità.
E allora, forse, bisogna analizzare la proposta Koepp/Soderbergh da un altro punto visuale, come un esercizio di stile. Kimi è un film di serie B con una regia convincente. Quindi disinteressato a sviluppare una riflessione elaborata, né in grado di offrire un finale rilevante rispetto alla sua trama e all’altezza della posta in gioco (la conclusione è veramente debole). Il fatto che si tratti di un “esercizio di stile” – una corsa solitaria, quasi un evento sportivo – emerge anche dal fatto che Soderbergh se ne assume la totale paternità, assimilando anche i ruoli di montatore e direttore della fotografia (sotto pseudonimi riferiti ai suoi genitori). Prodotto direttamente da HBO Max, Kimi è nato per essere digerito dalle piattaforme. Senza apparire antistorici, probabilmente i suoi difetti nascono da questo. Ma è innegabile che sia riuscito, nonostante i suoi difetti, a cogliere l’essenza delle nostre vite pandemiche, la loro immobilità, come il loro carattere ansiogeno, con un personaggio femminile i cui difetti si rivelano anche i suoi punti di forza.