Dalla vittoria di Donald Trump all’insediamento ufficiale alla Casa Bianca: nel mezzo due guerre e una Pace sempre più lontana
Settantasei giorni separano il 5 novembre 2024, data della vittoria di Donald Trump alle presidenziali USA, dal 20 gennaio, il giorno del suo insediamento ufficiale alla Casa Bianca. Si tratta di giorni pericolosissimi, ce ne stiamo accorgendo. Settantasei giorni che potrebbero sconvolgere il mondo ancor più di quanto non sia già stato sconvolto negli ultimi tre anni.
Il 18 novembre scorso, due settimane dopo la sconfitta della sua vicepresidente Kamala Harris e del suo partito alle elezioni, Joe Biden (o chi decide per lui) ha autorizzato Kiev ad utilizzare missili a lungo raggio per colpire la Russia. Tre giorni dopo il Pentagono, guidato dal sottosegretario alla Difesa Lloyd Austin (anche lui uscente), ha annunciato una maxi-fornitura di mine antiuomo all’Ucraina. Gli Stati Uniti, sebbene non abbiano sottoscritto la Convenzione internazionale per la proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione, vendita di mine antiuomo e relativa distruzione nota come Trattato di Ottawa, si sono pubblicamente impegnati nella riduzione della produzione di questi oggetti di morte che uccidono e mutilano (soprattutto i civili) anche dopo la conclusione delle guerre. Ma evidentemente lo “scontro di civiltà” che ci dicono essere in atto merita stomachevoli regressioni belliche.
L’America e le decisioni che possono cambiare il mondo
Quel che Biden (o chi decide per lui) non ha voluto fare in campagna elettorale per non danneggiare la corsa della Harris, Biden (o chi decide per lui) l’ha fatto ora che è un Presidente uscente, in una fase di passaggio, di transizione, in un momento in cui lui e i democratici risultano politicamente delegittimati dagli elettori. Anche Bruxelles, in attesa dell’insediamento di Trump, non è rimasta con le mani in mano. Il 28 novembre infatti, il Parlamento europeo seguendo le orme di Biden (o di chi cammina al posto suo) ha approvato una risoluzione che esorta i paesi membri a fornire a Kiev missili a lungo raggio per colpire la Federazione Russa. Inoltre, nel testo c’è scritto che l’Europarlamento “si rammarica della recente telefonata del cancelliere tedesco a Vladimir Putin”. Il 15 novembre, forse per tentare di anticipare una eventuale mossa di Trump, il cancelliere della Germania Olaf Scholz ha telefonato a Putin. Non accadeva da oltre due anni. Una telefonata, soltanto una telefonata. D’altro canto, se vuoi la Pace un canale di comunicazione lo dovrai pur mantenere. Ma evidentemente la maggioranza degli europarlamentari la Pace non la vuole e per questo ha stigmatizzato il gesto di Scholz rendendo ancor più debole il politico politicamente più claudicante d’Europa.
Non solo. Il parlamento europeo, o meglio la maggioranza dei suoi membri, ha deciso di gettare benzina sul fuoco che sta iniziando a bruciare in Georgia, paese del Caucaso meridionale che confina con la Russia e che, fino al 1991, è stato una delle Repubbliche socialiste sovietiche.
Corsi e ricorsi storici
Nel 2003, pochi mesi dopo l’inizio degli attacchi criminali degli Stati Uniti in Iraq (attacchi giustificati in base alla colossale balla delle armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein, alleato, tra l’altro, della Russia in Medio Oriente) proprio in Georgia partì la Rivoluzione delle rose, la prima delle innumerevoli rivoluzioni colorate. Le elezioni le aveva vinte Shevardnadze, ex-ministro degli Esteri dell’Urss (l’ultimo dell’era sovietica) ma all’occidente non andò giù. L’opposizione gridò ai brogli, la cosiddetta comunità internazionale (in realtà il blocco occidentale) chiese nuove elezioni e la Corte Suprema annullò il voto. Alle successive votazioni trionfò Saakashvili, uomo di Washington. Putin, Presidente di una Russia ancora troppo debole, non aprì sostanzialmente bocca. L’anno dopo fu la volta dell’Ucraina e della Rivoluzione arancione. Viktor Janukovyč, candidato equidistante tra Russia e blocco occidentale, vinse il ballottaggio contro il pro-Nato Viktor Juščenko ma questi non riconobbe il voto e, supportato da USA e Ue, invitò i suoi sostenitori a scendere in piazza. Piazza Maidan venne occupata, l’occidente si schierò dalla parte dei manifestanti e la Corte Suprema annullò le elezioni. Quando vennero ripetute vinse Juščenko. È provato che la Rivoluzione arancione non fu del tutto spontanea ma venne finanziata dagli Stati Uniti d’America.
Anche in quel caso Putin non intervenne. Janukovyč, originario di Jenakijeve, città del Donbass, rivinse le presidenziali in Ucraina nel 2010 e in quel caso divenne Presidente. Tuttavia, la sua equidistanza tra Mosca e la Nato non venne apprezzata in occidente. Nel 2013 Janukovyč che era favorevole all’entrata di Kiev in Ue ma non nella Nato, non considerò convenienti le clausole dell’accordo commerciale proposto da Bruxelles e decise di non firmare. Da lì in avanti iniziarono massicce manifestazioni (il cosiddetto EuroMaidan) contro il governo finanziate da USA e sostenute da criminali neonazisti trattati da sinceri democratici dal blocco occidentale. Le proteste si conclusero con la cacciata del Presidente democraticamente eletto e con l’inizio della guerra civile ucraina che via via si è trasformata, come ha appena ammesso di Boris Jonhson, in una “guerra per procura” che il blocco occidentale sta combattendo contro la Russia nel cuore dell’Europa.
Cosa accade oggi?
Tornando alla Georgia e ai giorni nostri, il 26 ottobre scorso si sono svolte le elezioni parlamentari. Le ha stravinte Sogno Georgiano, partito neutralista dove milita l’attuale premier Irak’li K’obakhidze. Salomé Zourabichvili, cittadina francese naturalizzata georgiana, fervente sostenitrice del blocco occidentale e della Nato, ex-ambasciatrice di Francia in Georgia e attuale Presidente del Paese, ha gridato ai brogli e ha invitato i sostenitori a scendere in piazza. Solito schema. K’obakhidze, forte del successo elettorale, ha congelato i colloqui con l’Ue sull’adesione della Georgia fino al 2028. Decisione politicamente più che legittima che il premier ha motivato con queste parole: «La Georgia proseguirà il cammino verso l’Unione europea, tuttavia non permetteremo a nessuno di tenerci in uno stato di costante ricatto e manipolazione, che è totalmente irrispettoso verso il nostro Paese e la nostra società. È necessario mostrare a certi politici e burocrati completamente privi di valori europei, che devono rivolgersi alla Georgia con dignità, non con ricatti e insulti. I nemici del nostro Paese hanno trasformato il Parlamento europeo in un’arma spuntata di ricatto contro la Georgia il che è una grande vergogna per l’Unione europea».
Traduzione. Noi vogliamo integrarci sempre più in Europa ma non accettiamo ricatti, imposizioni contrarie all’interesse georgiano e insulti solo perché intendiamo mantenere rapporti economici e di buon vicinato con Mosca. Da giorni le proteste di piazza fomentate dagli sconfitti si sono intensificate. Intanto a Bruxelles si discute già di sanzioni da applicare ai funzionari di Sogno Georgiano, il partito che ha vinto le elezioni. La solita strategia dei sedicenti democratici europei che accettano i risultati elettorali solo se vincono gli amici loro.
Tutto questo, ripeto, sta accadendo nella fase di passaggio di poteri alla Casa Bianca. Sia chiaro, nessuno sa se Trump cercherà davvero di porre fine alla guerra in Ucraina. Magari i suoi annunci (“fermerò la guerra in pochi giorni”, “quella in Ucraina è una guerra persa e Zelensky non doveva lasciarla iniziare”, “Zelensky è il più grande venditore della storia. Ogni volta che viene qui se ne va con 60 miliardi di dollari”) erano solo sparate elettorali e dunque seguirà per filo e per segno i diktat del Complesso militare industriale. Ad ogni modo, in una fase in cui quantomeno si hanno ancora dubbi sul suo futuro operato, c’è chi, in via precauzionale, intende metterlo spalle al muro. Ed ecco dunque spiegato l’intensificarsi degli attacchi e delle provocazioni alla Russia. Missili, destabilizzazione delle Georgia ed ora anche sostegno, quantomeno mediatico, ai cosiddetti ribelli siriani molti dei quali jihadisti che hanno militato nelle principali organizzazioni terroristiche degli ultimi decenni, da Al Qaida all’Organizzazione della base del jihād in Mesopotamia (la cosiddetta Al Qaida in Iraq), dall’Isis a Tahrir al-Sham (l’Organizzazione per la liberazione del Levante).
Oggi, sulle pagine dei principali quotidiani italiani, si nota un primo tentativo di sdoganamento dei miliziani siriani che in queste ore hanno occupato Aleppo e avanzano in direzione di Damasco. Abu Mohammad al-Jolani, il leader di Tahrir al-Sham, che pare sia rimasto ucciso in un raid russo, era un fanatico terrorista quando combatteva gli americani in Iraq tra le fila di Al Qaeda. Oggi viene descritto come il capo dei ribelli o ex-jihadisti. La parola terroristi viene utilizzata sempre meno. D’altro canto, si tratta di avversari di Assad, alleato di Mosca e Teheran, dunque, possono essere utili al blocco occidentale che per anni ha alimentato la guerra civile siriana.
Ai jihadisti siriani sta accadendo quel che è accaduto a Evgenij Prigožin. Capo della Wagner nonché pericolosissimo mercenario russo fino a quando i suoi uomini combattevano al soldo del Cremlino e trasformato dai media occidentali durante la breve rivolta anti-Putin della Wagner in un sincero democratico pentito. Non più sanguinario cuoco di Putin, ma chef stellato. E il doppio standard è servito!