Steven Spielberg è tra i più grandi narratori viventi. L’affermazione perentoria non riguarda soltanto la sua ineccepibile capacità affabulatoria, ma anche la consapevolezza con cui è in grado di riflettere sul cinema, sulle implicazioni del racconto e sullo statuto dello sguardo: ogni suo film possiede una ricchezza teorica inesauribile, talvolta sottovalutata dal pubblico e da una parte della critica per via dell’evidente inclinazione spettacolare e di quello sguardo sempre capace di uno stupore infantile che è stato per anni un marchio di fabbrica, talvolta scambiati per indulgenza o buonismo retorico. Non è così, e The Fabelmans, che è uno dei film migliori del 2022, è cosa ben diversa dall’opera accondiscendente e bonaria che in molti hanno descritto. L’ultimo film di Spielberg è grande proprio perché, sebbene condotto con la solita leggerezza di tocco e la consueta limpidezza narrativa, è irrisolto e problematico e contiene alcune delle più acute suggestioni teoriche sul cinema degli ultimi anni. La matrice, come è noto, è totalmente autobiografica: nei Fabelman, Spielberg ritrae la sua famiglia disfunzionale, archetipo delle numerose presenti nel suo cinema migliore, e nell’infanzia e adolescenza di Sam (interpretato da Mateo Zoryon Francis-Deford da bambino, da Gabriel LaBelle da adolescente) raffigura la propria, descrivendo gli spostamenti emotivi che ne hanno favorito la nascita della vocazione cinematografica. Se è indubbio che il film è attraversato da un filo di nostalgia e dall’indulgenza tipiche dei ricordi più intimi e caldi, e che tutta la storia è avvolta nel profondo e totale e amore del regista per il cinema, è altrettanto vero che The Fabelmans è un racconto doloroso di scissioni mai ricomposte e di epifanie amare.
The Fabelmans – La recensione
Strutturalmente, il film è diviso in tre parti. La prima racconta l’infanzia di Sam. La seconda descrive l’adolescenza e la travagliata dissolvenza dell’illusoria unità familiare dei Fabelman. La terza è dedicata al passaggio all’età adulta, al college e alla sedimentazione del talento artistico di Sam. Ognuna di queste parti è segnata da alcune scene indimenticabili. La sequenza con cui si apre il film ci mostra Sammy, ancora bambino, per la prima volta davanti a un cinema del New Jersey, alla vigilia di Hanukkah del 1952. I genitori Burt (Paul Dano) e Hitzi (Michelle Williams) lo hanno portato a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. De Mille e la famiglia sta per entrare in sala. Sammy è timoroso: «dentro è buio», dice, «e le persone sono giganti sullo schermo». «Mamma e papà saranno accanto a te per tutto il tempo», gli dice la madre, con una frase che suona in parte come una rassicurazione, in parte come un anatema: The Fabelmans si mostra per ciò che è fin dal suo primo dialogo. Prima che le luci si spengano, papà Burt, ingegnere informatico, racconta a Sam la meccanica dell’immagine in movimento, 24 fotogrammi al secondo e la persistenza dell’immagine sulla retina. La mamma, pianista, dice che i film sono come i sogni. Lo scienziato e l’artista saranno i due poli della dolorosa ricerca di un’identità. Inoltre, se è vero che il cinema è come un sogno, come gli ha detto la mamma, è vero anche che, come ribatte Sam, i sogni molto spesso fanno paura. E infatti, quando lo sguardo di Spielberg ci porta “dentro” la sala, sullo schermo è il momento della scena chiave del film di De Mille, tutt’altro che rassicurante, quella del memorabile e spettacolare incidente ferroviario che costituisce l’apice della tensione de Il più grande spettacolo del mondo.
Qui, in The Fabelmans c’è un’inquadratura fondamentale: la famiglia è mostrata di spalle mentre guarda lo schermo. Noi li “guardiamo guardare”, Sammy è perfettamente al centro e “taglia” il fotogramma in due parti, nelle quali si trovano, ben divisi, il padre e la madre. L’immagine scissa rappresenta in modo molto chiaro la spaccatura che segna questa famiglia disfunzionale, che sembra per un attimo ricomporsi solo grazie all’esperienza dello sguardo cinematografico. Il colossale incidente del film di De Mille colpisce così nel profondo l’immaginario di Sammy da diventare quasi un’ossessione per il bambino, di cui si libererà solo con un giocattolo e una macchina da presa: su consiglio della mamma, distrugge i trenini che ha ricevuto per Hannukah e filma l’incidente, scomponendolo in più inquadrature, così da poterlo rivdere infinite volte senza rompere i suoi costosi giochi. Ecco perché i sogni fanno paura, perché liberano i fantasmi dell’inconscio; allo stesso modo il cinema (e il racconto) è doloroso e liberatorio perché dà loro materia e corpo, permette lasciarli andare e talvolta addirittura di controllarli. Il suggerimento di Mitzi di filmare l’incidente per poter avere il controllo su di esso, dominare la paura e quindi essere in grado di rivisitarla e risolverla quando vuole, sembra uscito direttamente da Freud, che in Al di là del principio del piacere spiega come suo nipote avrebbe gettato i suoi giocattoli fuori dalla culla, traumatizzandosi con la loro assenza in modo da poter provare il sollievo della loro ricomparsa.
The Fabelmans – Struttura e personaggi
All’inizio della seconda parte, a cui si passa con uno stacco di montaggio secco, Sam gira con i suoi compagni Boy Scout un western muto, Gunsmog, proiettato con la colonna sonora di un LP di accompagnamento e poi un film sulla seconda guerra mondiale; Fabelman dimostra una comprensione precoce degli angoli, abbinata a un’ingegnosità artigianale che richiama alla mente il fan film de I predatori dell’arca perduta. Per la ripresa finale del suo film di guerra, Escape to Nowhere, la macchina da presa di Sam Fabelman utilizza un carrello improvvisato, mentre quella di Spielberg si alza su una gru, mostrando le comparse adolescenti che interpretano i cadaveri che si alzano in piedi e corrono verso una nuova posizione, sdraiandosi di nuovo. L’uso simultaneo di tecniche cinematografiche no budget e ad alto budget colma il divario tra realizzazione e immaginazione. I genitori di Sam e altri parenti più anziani investono in strumenti sempre più costosi per lui, da una Bolex a una Arriflex da 16 mm, nel contesto di un production design che evoca in modo perfetto quel “paradiso del consumatore” che era L’America negli anni da Truman a Johnson. Forse la scena più memorabile della parte centrale del film è dedicata allo zio di Sam (Judd Hirsch) che viene per una notte a stare con loro. Parlando con Sam del cinema, lo zio spiega che passione e famiglia sono due forze che ti fanno a pezzi, sempre. La performance in qualche modo comica ma sorprendente di Hirsch, che nonostante la brevità merita una nomination come miglior attore non protagonista, è una tesi avvincente con cui il resto del film si confronta e a cui fa ripetutamente riferimento. La sequenza probabilmente più importante di tutto il film è però quella che favorisce la transizione dalla seconda alll’ultima parte. Sam, su richiesta del padre, sta montando il film delle vacanze di famiglia, che si sono svolte in campeggio qualche settimana prima. Il padre ha insistito particolarmente affinché lo facesse, pensa che possa essere di aiuto alla madre depressa. Mentre riguarda il girato, mentre rivede attraverso il filtro del cinema scene che ha già vissuto, nello sguardo di Sam si apre uno squarcio violento: improvvisamente, sotto il simbolico di un’inquadratura come tante, si manifesta tutta l’angoscia del reale e ciò che era sempre stato davanti ai suoi (e ai nostri) occhi assume repentinamente senso, investendo con il tormento della disillusione tutta la sua vita. Quello che scopre, guardando indietro al filmato, è che sua madre è innamorata del migliore amico di suo padre, “Uncle Benny” (Seth Rogen).
The Fabelmans – Un finale da brividi
Il tradimento della madre con Bennie, che è anche un collega del padre, di cui è meno talentuoso e per il quale nutre un’ammirazione sincera abbinata a una profonda frustrazione, era lì da sempre; sebbene solo accennato con piccole e raffinate sfumature di sceneggiature, per noi era già evidente, ma è solo attraverso la moviola che a Sam si svela in tutta la sua carica traumatica. Questo è il cinema (e forse lo sguardo) e non lo si potrebbe dire in modo più efficace: un dispositivo che – quando funziona – ci ri-guarda e ci tocca in quel punto cieco in cui probabilmente preferiremmo non essere visti. Il cinema è sempre rottura, strappo, scissione, ed essere narratori significa raccontare sempre un trauma fondativo. Dopo aver seguito le peripezie di Sam al college, la frantumazione della famiglia e il processo molto comune di “istituzionalizzazione” del dolore, arriva, proprio alla fine del film, un’altra scena indimenticabile di The Fabelmans, che ci si offre alla fine di questa storia meravigliosamente non risolta, quando Sam riesce in modo rocambolesco ad approdare a Hollywood, negli studios della CBS, dove farà l’assistente alla regia per la serie Gli eroi di Hogan.
Qui Spielberg riporta in modo preciso un aneddoto realmente accaduto che ha spesso raccontato in diverse interviste: l’incontro con John Ford. L’intuizione geniale riguarda il casting, cioè far interpretare il più moderno dei registi classici al più classico dei postmoderni, David Lynch, che – sigaro e benda sull’occhio – è perfetto nel ruolo del burbero autore di Sentieri Selvaggi. La “teoria dell’orizzonte” che Spielberg gli fa dire è la stessa che Ford gli disse davvero nel loro incontro: «potrai diventare un grande regista quando capirai che un’immagine interessante non ha mai l’orizzonte al centro». Le immagini e le storie interessanti, quindi, non sono mai quelle simmetriche e rassicuranti, composte e geometriche, ma quelle anomale e conflittuali. Quelle in cui, come nel cinema di Ford, un cielo fiammeggiante riempie il frame e schiaccia la terra e i personaggi, relegandoli a una fatalistica impotenza. La vita e lo sguardo sono così, e dopo cinquant’anni di grande cinema, il bilancio di Spielberg fa emergere una rassegnazione matura e commovente, che per certi versi ricorda The Irishman di Martin Scorsese, un grande e doloroso sospiro che screzia meravigliosamente il tramonto una carriera.