Diabolik, anarchia e libertà

*pubblicato il 3/12 sul N. 3 della rivista il Millimetro

Dopo l’uscita del secondo Diabolik, Ginko all’attacco, abbiamo fatto due chiacchiere con Marco Manetti, uno dei Manetti Bros., i fratelli-registi indipendenti che si sono cimentati con la non facile impresa di portare al cinema il mondo narrativo del fumetto concepito dalle sorelle Giussani. In questa lunga conversazione, abbiamo provato a mettere in luce le dinamiche che hanno guidato i registi e sceneggiatori romani nelle scelte che hanno caratterizzato i primi due capitoli di Diabolik.

Diabolik, anarchia e libertà

Ciao Marco. Possiamo dire che più che un seguito, Ginko all’attacco è un “altro” film ambientato nello stesso universo narrativo?

Sì, certamente è un altro film in tutti i sensi. Nessuno chiama un nuovo James Bond un sequel, no? Già negli anni del fumetto, dal 1962 in poi, Diabolik è protagonista di tantissime storie chiuse in se stesse, addirittura nei primi tempi sulla copertina c’è scritto “un romanzo per adulti”. Sono delle storie chiuse e quindi questo è sicuramente un altro film e certamente non un sequel, infatti non credo sia giusto anche il termine trilogia. È vero che noi ne abbiamo fatti tre e il terzo uscirà presto, però sono tre film indipendenti, perché per essere una trilogia io sento che ci vuole un arco narrativo unico che qui non c’è. Abbiamo fatto questo gioco di cambiare il punto di vista: in qualche modo Diabolik nel primo film è un personaggio misterioso visto dagli occhi di Eva Kant e nel secondo dagli occhi di Ginko. Il terzo porterà un nuovo punto di vista.

Il secondo film è incentrato su Ginko, che è un uomo integerrimo, intelligente, corretto, ma in qualche modo è anche un perdente, perché non riesce mai a risolvere la sua ossessione, la cattura di Diabolik. Eppure, è un perdente che ci piace.

Ginko è un personaggio bizzarro che ha due grandi particolarità, due elementi quasi unici nella storia della letteratura. È il nostro antagonista, no? Perché dai, per quanto Diabolik sia cattivo, stiamo tutti decisamente dalla sua parte. Però Ginko non è un antagonista per cui proviamo paura o antipatia. Pensa un secondo a Zenigata, nella saga di Lupin. Zenigata è un deficiente, scusami il termine, e quindi tu stai dalla parte di Lupin per forza, non puoi avere empatia per Zenigata, che al massimo ti fa ridere. Ginko è diverso, ti dispiace vederlo perdere, perché un po’ stai anche dalla sua parte. Questa è la prima peculiarità. La seconda cosa è che le Giussani lo hanno scritto benissimo, con un triplo salto mortale, perché è vero come dici che non riesce a catturare Diabolik, ma è difficile definirlo un perdente secondo me, e questo è un elemento della trasversalità di questa storia. Ginko è un poliziotto vincente, che però, ogni volta, viene beffato da Diabolik, il quale ripete all’infinito: “Ginko è il più bravo, è l’unico che può prendermi”.

Mi viene in mente una cosa rispetto al parallelismo che hai fatto con Lupin: un altro elemento molto particolare della storia delle sorelle Giussani è che, a differenza di Lupin, Diabolik, il personaggio per cui parteggiamo, è un criminale freddo, spietato, che fa cose terribili, uccide senza scrupoli. Eppure, noi stiamo dalla sua. Come avete gestito questo problema “morale” e dove risiede secondo te il fascino di questo personaggio?

Il fumetto è un piccolo capolavoro, più ci lavoro e più me ne rendo conto. Un capolavoro di scrittura ed equilibrio. È vero, il lettore sta dalla parte di Diabolik, che fa delle cose tremende, totalmente ingiustificabili, è un senza alcuna pietà, non si fa alcun problema a fare del male qualora gli serva. Noi, nel momento in cui abbiamo iniziato questo progetto ce lo siamo posti il problema, perché nei nostri film abbiamo sempre trovato una forma di equilibrio morale per i nostri personaggi. In realtà, quello che abbiamo capito di Diabolik è che è un personaggio fortemente metaforico, che rappresenta la libertà. Ha un tratto che tutti noi vorremmo avere, se ci pensi, è libero, perché è colui che – scusa il francesismo – fa il cazzo che gli pare. Non ha regole né costrizioni, non ha borghesismi, non ha facciate, tutto questo in un mondo dominato dalle regole.

Diabolik, anarchia e libertà

In questo sta anche la differenza tra lui e Ginko, come si dicono alla fine del primo film.

Esatto, quando Ginko e Diabolik sono faccia a faccia e l’ispettore parla di regole, Diabolik gli dice “sono le tue regole, non le mie”. Ecco, Ginko è perfettamente ligio a quelle regole, incapace di trasgredire, come si vede anche in questo secondo film nella relazione con la contessa Altea, mentre Diabolik è libero.

Anche se considerare Diabolik una storia politica sarebbe una forzatura, non pensi che ci sia qualcosa di anarchico in questo personaggio? Non solo la trasgressione delle regole, ma anche il piacere di vedere punita la borghesia, colpita dove fa più male, sulla ricchezza e l’ostentazione…

Secondo me è un elemento estremamente presente. Io credo che le sorelle Giussani lo abbiano inserito consapevolmente e lucidamente. Diabolik si fa beffe della borghesia, per il puro gusto di farlo. Se ci pensi, non è che lui ed Eva, con i soldi dei colpi, facciano una vita agiata e lussuosa. No. Rubano quasi solo per il gusto della beffa.

Da dove nasce l’idea di adottare una recitazione così antinaturalistica e che tipo di lavoro avete fatto con un attore come Mastandrea, solitamente caratterizzato da una recitazione molto naturalistica.

È una risposta difficile da dare. Essenzialmente abbiamo tentato di ricostruire un’epoca e un’atmosfera, con il primo abbiamo provato a fare un film che sembrasse della metà degli anni ‘60, con il secondo della fine degli anni ‘60. Noi non abbiamo detto a nessuno di non essere naturale, probabilmente avendo scritto e pensato il film come un film di quell’epoca, è uscito così. Poi, mi pare ci sia un problema tipico del cinema italiano, che a volte ha una certa mancanza di varietà, se posso usare questo termine, cioè ogni volta che si batte una strada diversa questa cosa stupisce un po’ troppo. Si parla molto di questa recitazione vecchio stile nei Diabolik, ma se succede la stessa cosa nei Poirot di Branagh nessuno dice niente. Non sto puntualizzando contro chi ne parla male, ma semplicemente contro l’eccesso di importanza data a questo aspetto, nel bene e nel male.

Eppure, mi sembra un passaggio importante. Ho l’impressione che ci sia stato, da parte vostra, il tentativo di portare al cinema le dinamiche di un medium diverso, come il fumetto, con la sua staticità e la sua plasticità.

Ecco, qui invece non siamo tanto d’accordo, forse abbiamo già parlato di questo. Il fumetto è scritto e disegnato, al suo interno non c’è una recitazione. È un punto importante anche per noi, mi preme chiarirlo. Il nostro scopo era portare al cinema “quel” fumetto, con quelle atmosfere, non il fumetto in generale, perché ogni fumetto ha regole proprie, un suo ritmo, sue dinamiche. Per farlo, abbiamo guardato molto ai teleromanzi degli anni Sessanta, a certo cinema di quell’epoca, a Hitchcock, al noir hollywoodiano di una volta. Poi, l’importante è quello che ottieni.

Ti avranno fatto migliaia di volte questa domanda, ma non posso non fartela. Ci spieghi qualcosa sul cambio di attore che ha portato Giacomo Gianniotti a interpretare Diabolik al posto di Luca Marinelli?

Sì, ormai ho il pilota automatico per questa domanda, ma capisco sia necessario farla. Solitamente, quando si gira un film che può avere dei seguiti, si aspetta del tempo, si attende il riscontro del botteghino e poi si pianifica il seguito. Qui la Rai ha invece voluto mettere subito in produzione il secondo e il terzo, che abbiamo girato insieme lo scorso inverno. Purtroppo Luca aveva già degli impegni e allora, con molta serenità, ci siamo detti che andava bene così, di avere fatto il primo insieme e che il secondo l’avrebbe fatto un altro attore. Del resto, Luca è perfetto nel primo, perché Diabolik è un personaggio molto tormentato in quel film, mentre nel secondo volevamo dargli un’impronta più risolta e risoluta. Così abbiamo fatto un casting, e anzi, ti dico questa cosa che non ho mai detto a nessuno: abbiamo fatto provini a tantissimi attori senza dire loro che era un provino per Diabolik, abbiamo scritto delle scene apposta e abbiamo detto che si trattava di un altro film. Per cui se qualcuno di loro leggerà il tuo pezzo scoprirà di avere fatto il provino per Diabolik! Alla fine, abbiamo scelto Giacomo Gianniotti, che è un attore italo-americano che ha la fisicità e lo sguardo giusto per il tipo di personaggio che volevamo raccontare nel secondo film.

Diabolik, anarchia e libertà

La pandemia ha in qualche modo influito nella produzione di questi tre film?

Certo, il cambio di attore anche è figlio del fatto che l’uscita del primo film è stata rinviata di un anno.

Vorrei chiederti dei vostri progetti per il futuro, ma te lo chiedo così: siete sempre stati – e lo dico con un’accezione fortemente positiva – dei registi indipendenti. Diabolik è una grande produzione. Vi sentite ancora indie?

Certo che sì. Adesso stiamo scrivendo un film, ma non so che tipo di film sarà, se ad alto budget o molto indipendente. Partiamo sempre dalla storia, dal progetto e poi si vedrà che dimensioni assumerà. È un consiglio che do a tutti i giovani registi, partite dal progetto, non dal budget e dalle dimensioni. Nel nostro caso, direi, indie forever.

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