Dalla battaglia legale del Lucentis al caso sofosbuvir: come le logiche aziendali condizionano l’accesso ai trattamenti salvavita
In un mondo ideale, la sanità non dovrebbe rispondere alla logica del profitto ma essere orientata esclusivamente al benessere delle persone. Per come la vedo io, i farmaci dovrebbero essere prodotti da aziende pubbliche, al solo scopo di curare i malati e alleviarne le sofferenze; l’investimento in ricerca e sperimentazione sarebbe ripagato da un migliore stato di salute della comunità.
La realtà è ben diversa, le aziende farmaceutiche sono prima di tutto aziende e la loro mission è fare profitto, far crescere i dividendi; questo spesso avviene a discapito del benessere dei pazienti e dei servizi sanitari nazionali che ne pagano le spese.
Ecco così che il Lucentis, un farmaco a uso oftalmico distribuito in Europa da Novartis, si trova ancora una volta al centro di una segnalazione dell’Antitrust.
Dico ancora una volta perché il Lucentis fu oggetto della mia prima interrogazione in Commissione Sanità alla Camera, oltre 10 anni fa. Ma prima di proseguire nel racconto facciamo un piccolo excursus sui farmaci e la loro immissione in commercio.
Una molecola su mille
La ricerca farmaceutica è lunga e complessa, solo una piccolissima percentuale delle molecole sintetizzate dai laboratori farmaceutici arriva a superare la sperimentazione preclinica e le tre fasi della sperimentazione clinica. In media, 1 molecola su 5000-10.000 sostanze sperimentate arriva all’approvazione dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) e all’immissione in commercio.
Per garantire il giusto (per chi?) profitto, sempre presso l’AIFA, viene stabilito il prezzo di vendita del farmaco che resterà protetto da brevetto per 20 anni.
Per i farmaci, a differenza delle altre invenzioni, visti i lunghi tempi necessari alla ricerca, la sperimentazione e l’approvazione, è possibile usufruire di una ‘proroga’ speciale che consente di allungare la durata del monopolio fino a un totale massimo di 25 anni.
Scaduti i termini il farmaco torna libero, qualunque industria farmaceutica può produrre quella molecola e commercializzarla con un iter autorizzativo molto più snello; la sua approvazione non richiede studi clinici estesi, ma solo test di bioequivalenza per dimostrare che funziona allo stesso modo del farmaco di riferimento. L’esempio è quello dell’Aspirina della Bayer, che oggi può essere prodotta e venduta come acido acetilsalicilico.
Un po’ diverso è il discorso per i farmaci biologici, ovvero basati su molecole biologiche complesse, come proteine o anticorpi, in questo caso si parla di ‘biosimilari’, simili al farmaco biologico originale (chiamato originator), ma non identici a causa della variabilità naturale dei processi biologici. Per essere approvati, devono dimostrare similitudine in termini di sicurezza, efficacia e qualità attraverso studi clinici comparativi con il farmaco di riferimento, anche se non sono richiesti studi estesi come per i farmaci innovativi.
Quando la concorrenza non c’è
Il Lucentis è un farmaco biologico distribuito in Italia da Novartis su licenza della statunitense Genentech, utilizzato per il trattamento di patologie oculari, come la degenerazione maculare senile. Recentemente, la copertura brevettuale per il Lucentis è scaduta; altre due importanti aziende, Samsung Bioepis e Biogen, avevano pronto un farmaco biosimilare, il Byooviz, per cui, già nell’agosto 2021, avevano ricevuto le autorizzazioni per la commercializzazione in tutti gli Stati dell’Unione Europea.
Nonostante questo, da quanto sostiene AIFA nella sua segnalazione all’Antitrust, Bioepis non ha mai fornito il materiale informativo aggiuntivo necessario per la registrazione del farmaco e per la sua iscrizione in classe di rimborsabilità. Insomma, il farmaco era autorizzato ma non poteva essere venduto.
A seguito della segnalazioni di AIFA nel giugno del 2022 l’Antitrust ha avviato un’istruttoria nei confronti di otto aziende farmaceutiche in cui si ipotizza “intesa restrittiva della concorrenza”.
Secondo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), le aziende avrebbero ritardato intenzionalmente l’ingresso di Byooviz sul mercato italiano con l’obiettivo di mantenere le vendite di Lucentis e ostacolare la concorrenza. Sempre secondo l’ipotesi della Autorità, in cambio, Samsung Bioepis e Biogen avrebbero ottenuto di entrare in anticipo nel mercato americano grazie a un accordo con Genentech.
Il ritardo volontario dell’ingresso del biosimilare nel nostro mercato avrebbe causato un danno per i pazienti e per il Servizio Sanitario Nazionale, considerando che i biosimilari sono generalmente venduti a un prezzo inferiore rispetto ai farmaci originator.
Le indagini sono ancora in corso, con ispezioni già effettuate nelle sedi delle aziende coinvolte. Se le accuse verranno confermate, le aziende potrebbero essere soggette a sanzioni significative per pratiche anticoncorrenziali.
La prima multa non si scorda mai
Non è la prima volta che il Lucentis attira l’attenzione dell’Antitrust, nel 2014 l’Autorità Garante della Concorrenza ha inflitto una multa di 180 milioni di euro alle aziende Roche e Novartis per aver messo in atto un’intesa restrittiva della concorrenza.
La vicenda riguarda due farmaci entrambi sviluppati dall’azienda Genentech, uno è appunto il Lucentis (distribuito da Novartis), utilizzato come abbiamo visto per il trattamento della degenerazione maculare legata all’età (DMLE), una malattia oculare che può portare alla cecità e che solo in Italia colpisce circa un milione di persone. L’altro è l’Avastin (distribuito da Roche) un farmaco antitumorale per il quale si è diffuso, nella comunità medica internazionale, un uso off-label (ovvero al di fuori delle indicazioni previste dal bugiardino e per le quali si ha avuta l’autorizzazione).
Nonostante per l’Avastin non sia stata richiesta l’indicazione clinica relativa al trattamento della DMLE, il farmaco avrebbe una comprovata efficacia anche per uso oftalmico con un costo decisamente inferiore rispetto al concorrente: il costo di ogni dose destinata a uso oftalmico di Avastin corrisponde a meno di 15 euro, rispetto a un costo di poco più di 800 euro per singola iniezione intravitreale di Lucentis.
Un risparmio considerevole per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e una perdita secca per le aziende, che, secondo l’Antitrust, corrono ai ripari diffondendo informazioni allarmanti sulla sicurezza di Avastin nell’uso off-label per la DMLE, insinuando che potrebbe causare gravi effetti collaterali, mentre promuovevano Lucentis allo scopo di “condizionare il giudizio e la scelta terapeutica dei medici” e dei sistemi sanitari. Il danno per il SSN è stato stimato dall’AGCM in 40 milioni di euro per il solo 2012.
Nonostante i ricorsi presentati dalle due aziende, che hanno sempre contestato le accuse, il Consiglio di Stato ha confermato la legittimità della sanzione, ribadendo che le pratiche delle due multinazionali hanno violato le leggi sulla concorrenza, influenzando artificialmente il mercato farmaceutico. Questo caso è stato oggetto della mia prima interrogazione parlamentare come membro della Commissione Affari Sociali alla Camera.
Lecito ma non etico
Non sono solo i comportamenti illeciti ad arrecare gravi danni al diritto di curarsi dei pazienti e alle casse del SSN, lo è anche l’etica di molte aziende del settore. Uno dei casi più eclatanti è quello del sofosbuvir, prodotto dall’azienda statunitense Gilead Sciences, un farmaco rivoluzionario in quanto è in grado di curare l’epatite C in un ciclo di 12 settimane, con un’efficacia prossima al 100%.
L’epatite C è una malattia estremamente grave e diffusa, secondo Medici Senza Frontiere circa 150 milioni di persone nel mondo ne sono affette e 700mila ne muoiono ogni anno. Da qui la portata rivoluzionaria del nuovo farmaco antivirale, grazie a questa molecola milioni di persone potrebbero guarire definitivamente da una patologia mortale. Ma l’obiettivo dell’azienda che ha sviluppato il farmaco pare non sia salvare vite bensì aumentare i dividendi.
Il trattamento è stato messo in commercio a un costo esorbitante: 1000 dollari a pillola negli USA, circa 84.000 dollari per il trattamento completo. In Italia il prezzo è stato rinegoziato ma rimane molto alto. Un costo tale per il nostro Servizio Sanitario da mettere in dubbio, per la prima volta nella nostra storia, l’universalità delle cure.
Nel nostro Paese si stimano più di 500mila malati di epatite C di cui circa 80mila in condizioni serie o gravi, ovvero a rischio trapianto. Dopo una lunga contrattazione tra AIFA e Gilead vennero stanziati, nella legge di stabilità 2015, ben 1 miliardo di euro per l’acquisto del sofosbuvir, fondi sufficienti solo per il trattamento di 50mila malati che fanno parte di una delle sei categorie più gravi individuate dall’AIFA. Insomma, per la prima volta il diritto di curarsi non è garantito a tutti ma solo ai pazienti più gravi.
Una discriminazione gravissima che ha condannato migliaia di persone ad anni di sofferenza, in attesa di rientrare tra i pazienti trattabili le loro condizioni sono peggiorate con un aggravio di costi per il SSN.
Dal 2015 ad oggi in Italia sono stati trattati circa 260.000 pazienti che hanno eradicato il virus, riducendo significativamente l’impatto sociale della malattia. Restano ancora tanti i pazienti da guarire e i costi per le cure sono stati sottratti ad altri comparti della spesa sanitaria.
50 milioni di malati esclusi dalle cure
Se nei Paesi ad alto reddito la cura non è garantita a tutti, in quelli a medio e basso reddito la situazione è molto più grave. Per questo, molti Paesi, come Egitto, Cina e Ucraina hanno respinto le richieste di brevetto per il sofosbuvir e il farmaco viene prodotto come generico. Anche in India inizialmente l’ufficio brevetti aveva respinto la richiesta della Gilead, motivando che il sofosbuvir non è scientificamente innovativo. La notizia era stata accolta con grandi speranze da tanti Paesi e da associazioni come Medici Senza Frontiere.
Come spiega MSF, “l’India viene chiamata la farmacia dei Paesi in via di sviluppo perché produce molte versioni generiche a prezzi accessibili di farmaci brevettati altrove. Oltre l’80% dei farmaci antiretrovirali utilizzati nei Paesi in via di sviluppo provengono dall’India, che è in grado di produrli perché la sua legge sui brevetti fissa standard elevati per i quali i farmaci meritano o meno un brevetto, consentendo ai produttori di generici di competere sul mercato e abbassare i prezzi”.
Purtroppo nel 2016 anche l’ufficio indiano ha ceduto alle pressioni delle aziende farmaceutiche e degli Stati Uniti, concedendo la copertura brevettuale. Così, mentre Gilead incassava 15,5 miliardi di dollari nel solo biennio 2014-15, con un farmaco che nelle versioni generiche costava solo 335 dollari a trattamento, a quasi 50 milioni di malati dei Paesi poveri veniva impedito l’accesso a cure che gli avrebbero salvato la vita.
La salute è un diritto universale, non un privilegio per chi può permetterselo. Le scelte spietate delle aziende farmaceutiche, guidate dal profitto, spesso confliggono con l’interesse pubblico e la sostenibilità dei Sistemi Sanitari Nazionali. L’accesso ai farmaci salvavita, come il sofosbuvir e i biosimilari del Lucentis, non dovrebbe essere una questione di contrattazioni e strategie aziendali, ma un diritto inalienabile.