Quello israeliano non è un esercito “normale”

Ci può essere grazia nella disgrazia inflitta, e se non c’è, allora non c’è umanità, e perdiamo tutti

V. venne assegnato alla First Marine Division nella provincia Quang Nam in Vietnam nel marzo del 1967. Dormì per due giorni  sul cemento, senza possibilità di cambiarsi i vestiti. Poi, finalmente, lui e i suoi compagni vennero accolti dal comandante generale Nixon.

Le atrocità commesse dall'esercito israeliano fanno già parte della storia
Soldati dell’esercito israeliano (foto LaPresse) – ilMillimetro.it

Durante il discorso di benvenuto nella Divisione, Nixon disse che un terzo di loro sarebbe stato ucciso, un terzo sarebbe stato rimandato a casa perché avrebbe fatto dei piccoli errori, e un terzo di loro sarebbe riuscito a compiere il proprio dovere con successo. V. venne assegnato all’India Company dei Marines, come comandante del terzo plotone.

Ricordi di guerra

Quando gli viene chiesto di raccontare qualche episodio, parla di piccoli incidenti divertenti: quando dovettero tagliare un serpente che stava strizzando un compagno come un canovaccio, e quando questi si risvegliò con i capelli diventati tutti grigi in una notte dallo stress subito; quando hanno fatto un’imboscata soprannominata “L shape ambush”, in cui riescono ad uccidere i nemici per poi trovare accanto ai loro corpi un borsone pieno di soldi vietnamiti, che divisero, premiando soprattutto quelli che avevano attivamente preso parte all’imboscata.

Il conflitto che dura ormai da quasi un anno
Soldati israeliani nei tunnel sotterranei (foto LaPresse) – ilMillimetro.it

Quando uno dei soldati in fila per fare pipì viene preso in pieno da una delle mongolfiere che stavano atterrando sul campo per consegnare DDT anti zanzare: una di loro sbaglia e prende in pieno il soldato, che riportò una frattura alla gamba proprio il giorno prima del suo rientro a casa.

Il disturbo post traumatico da stress

È quasi impossibile avvicinare un veterano affetto da PTSD (in inglese post traumatic stress disorder), ed è molto difficile chiedere a un veterano “sano” di raccontare episodi traumatici. Quando un veterano sano accetta di raccontare la propria esperienza, tende a scavare solo nei ricordi che non coinvolgono dolore  o episodi drammatici.

Continua il massacro verso il popolo palestinese
Palestinesi uccisi a Khan Younis (foto LaPresse) – ilMillimetro.it

Sette veterani su 100 soffriranno di PTSD a un certo punto della loro vita, specie se donne. I dati americani ptsd.va.gov sulle ultime guerre evidenziano che il 29 per cento dei soldati arruolati in Iraq soffre di disturbi mentali post traumatici, il 21 per cento di quelli partiti per la guerra del Golfo, il 10 per cento per il Vietnam, il 3 percento per la seconda guerra mondiale. Le cause del PTSD sono tante e variano a seconda del tipo di guerra e del ruolo che ogni soldato svolge. Una causa meno conosciuta è la MST, ovvero il military sexual assault, che può colpire chiunque nell’esercito, sia durante una guerra che durante il periodo di addestramento e di pace. Questo spiegherebbe perché sono le soldatesse a soffrire maggiormente del disturbo post traumatico da stress. E non ci sono ancora dati sufficienti per conoscere le conseguenze e l’impatto psicologico sui soldati LGBTQ+.

V. dice di non soffrire di disturbo post traumatico da stress, ma beve abbastanza. Non aveva mai bevuto prima di arruolarsi, nonostante i suoi genitori fossero da sempre dei grandi amanti di Whisky. Si sono trasferiti negli Stati Uniti dalla Croazia quando lui aveva solo sette anni. Eppure il suo accento non è propriamente americano, come accade a tutti i bambini emigrati entro l’adolescenza.  Ma lui lo è, americano; sarebbe assurdo non esserlo dopo aver servito il Paese che lo ha visto trasformarsi da bambino a uomo e rischiare la vita per combattere una guerra che ha cambiato tutti quelli che ne hanno preso parte. In un modo, o nell’altro.

La disumanizzazione del nemico

Quello di cui però V. vuole parlare è la “guerra” in Medio Oriente. E non impiega molto prima che si fermi, sbuffi, e corregga la parola war (guerra) con genocide. È sua nipote Carol, 23 anni, ad avergli mostrato quello che sta accadendo in Palestina, sia a Gaza che nei territori occupati della Cisgiordania. Lei, che ha Instagram e TikTok e non si informa solo su CNN e Fox TV, gli ha fatto vedere quello che i soldati israeliani dell’IDF stanno facendo da quasi un anno. Molti di questi soldati sono cittadini americani, indiani, europei, australiani, arruolatisi senza avere in realtà nessun legame con lo Stato di Israele, e spesso non sono neanche di religione ebraica.

L'unione con gli Stati uniti e la guerra che va avanti
Benjamin Netanyahu, presidente israeliano (foto LaPresse) – ilMillimetro.it

Ciò che ha sconvolto V. da subito, è la modalità di operazione che contraddistingue le forze israeliane. Racconta che non ricorda di aver provato sofferenza nell’uccidere i vietnamiti quando faceva parte della India Company dei Marines, perché quello era il nemico e andava eliminato, e tutti i soldati volevano far parte di quel terzo del gruppo che non moriva e non faceva errori. Ma non ricorda di aver avuto mai il tempo o la necessità di sbeffeggiarlo, dissacrarlo, né la voglia di celebrare le vite che annientava,   come invece sta avvenendo a Gaza. Non riconosce, nei soldati israeliani, gli sguardi che vedeva nei suoi giovani compagni in Vietnam, la malinconia che accomunava tutti loro per trovarsi lontano da casa e dagli affetti, la paura di morire.

È vero, ora ci sono i cellulari, internet, e la comunicazione con le proprie origini non è soggetta all’attesa e alla precarietà di una lettera scritta a mano. Ma quelli che vede immortalati sui social networks, non sono sguardi di chi prova un sentimento di orgoglio e onore per servire il proprio Paese. Anche perché, come abbiamo già detto, molte volte non sono nemmeno soldati israeliani. Sono sguardi di chi gioca ai video games, di chi ha partecipato armato più volte a raduni domenicali nelle foreste dove un tempo c’erano gli Indiani d’America a conferire valore al nemico battuto, in segno di rispetto di qualunque vita, anche quella a cui bisognava porre fine.

Invece i soldati dell’IDF ci fanno assistere a selfie con la biancheria intima delle donne palestinesi costrette a lasciare le proprie case con dentro tutto. Alla firma sui missili destinati a bruciare tende di rifugiati e i loro corpi. Ai giri sulle biciclette che prima del 7 ottobre portavano i bambini in una terra già comunque priva di pace. Alle foto nelle Playground silenziose. Alle scritte sui muri di stampo nazista. Alle scenografie horror con bambole disposte sulle porte o sui muretti delle case distrutte a riprodurre i corpi bombardati e fatti a pezzi nella vita reale. Ai video su TikTok in cui i soldati recitano di rientrare a casa per poi svelare che dietro la porta c’è solo distruzione. Ai selfie con i palestinesi bendati e senza vestiti. Ai banchetti con spreco di cibo a pochi passi da una Gaza affamata. A soldati che si registrano con il cellulare mentre confessano uno stupro e mentre bruciano il Corano in una moschea occupata e quasi interamente rasa al suolo.

V. sostiene che nessun reduce di guerra dell’Afghanistan, dell’Iraq, del Vietnam, tanto meno della seconda guerra mondiale ha mai assunto questo tipo di atteggiamento. Ci sono persone per bene e persone cattive negli eserciti di tutto il mondo, continua, ma quando si è in guerra è difficile non provare paura, non sentirsi fragili, non sperimentare il panico da imprevisto e la mancanza di controllo. Lo dimostra il fatto che quando la guerra finisce, sia quella vinta che quella persa, non svanisce, ma ti resta attaccata alla pelle e ti presenta il conto. Anche se, come nel suo caso, è qualche scontrino del solito bar il cui bancone accoglie la stessa solitudine ogni sera, prima di rientrare a casa dal lavoro.

Non crede che quanto stiamo vedendo sia solo dovuto al fatto che non è una guerra con due schieramenti che hanno armi diverse ma gli stessi obbiettivi. Secondo V. c’è qualcos’altro. Forse percezione di superiorità razziale, disumanizzazione del nemico, islamofobia, impunità, sporcizia esistenziale. Ma di una cosa è certo: non ha mai visto niente di simile.

C’è modo e modo di fare la guerra

V. conclude che con il tempo ha capito che dietro ogni azione che compiamo c’è sempre una scelta. Non ce ne rendiamo conto, non lo facciamo consapevolmente, ma il come scegliamo di fare qualcosa, conferisce un valore definitivo all’azione che stiamo per compiere. Ad  esempio, quando vogliamo porre fine a una relazione, ci sono vari modi per farlo,  e quello che scegliamo probabilmente disegnerà la percezione di noi e il ricordo di noi nella persona che subirà il nostro operato.

Avanzano i soldati israeliani in Cisgiordania
Carrarmato israeliano (foto LaPresse) – ilMillimetro.it

Questo accade in ogni ambito della quotidianità, e vale per ogni nostra azione, da quelle micro a quelle plateali: tutte contengono un messaggio per noi forse impercettibile ma che nel recipiente di tali azioni ha un colore e un tono ben definito: da cosa scegliamo di indossare a come arriviamo a un appuntamento, dal tono di voce che usiamo a cosa decidiamo di cucinare per qualcuno che invitiamo a cena, dalle parole che scegliamo quando vogliamo comunicare un sentimento alla professione che abbiamo, dagli amici che frequentiamo ai politici che scegliamo, dall’arredamento che compriamo alla città in cui scegliamo di vivere.

Dalle guerre che decidiamo di combattere, e a come le combattiamo. C’è modo e modo di vivere, di difendersi, di attaccare, di uccidere e di morire. Ci può essere grazia nella disgrazia inflitta, e se non c’è, allora non c’è umanità, e perdiamo tutti. Dal primo, all’ultimo. Anche e soprattutto chi sembra stia vincendo.

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