*il 3/11 sul N. 2 della rivista il Millimetro
Il 20 giugno del 1997 Joe Biden intervenne al Consiglio atlantico degli Stati Uniti. Era più giovane e molto più pimpante. All’epoca era Senatore eletto in Delaware. Dall’altra parte del mondo un ex-agente del KGB si destreggiava tra i corridoi del Cremlino guadagnandosi la stima di un sempre più claudicante (fisicamente e politicamente) Boris El’cin, il primo Presidente della Federazione Russa. In quell’occasione Biden disse che l’annessione alla Nato degli Stati Baltici (Estonia, Lettonia e Lituania, paesi un tempo parte dell’URSS e dove tutt’oggi vivono centinaia di migliaia di russofoni) sarebbe stata una mossa che avrebbe potuto provocare una “risposta vigorosa e ostile, sebbene non militare” da parte russa. Biden non era certo uno sprovveduto. Era ancora senatore semplice, ma lo era dal 1973, quando alla Casa Bianca c’era Nixon. Non si può certo dire che non conoscesse politica e geopolitica. La reazione russa, in realtà, fu meno vigorosa di quel che si immaginava. La ragione era semplice. La Russia stava attraversando un momento drammatico. Economia a picco, oligarchi più potenti dei politici, crimine organizzato ovunque, dalla regione del Volga alla Siberia, passando per le grandi città. Nel 1998 la Banca centrale tentò di evitare la bancarotta svalutando il rublo ma non fu possibile sfuggire al default del debito. Con l’ex-rivale storico in fase di dissanguamento gli USA alzarono il tiro per tentare di schiacciare la Russia definitivamente. Obiettivo geopolitico comprensibile, sia chiaro. D’altra parte geopolitica ed etica non hanno nulla a che fare. Belgrado venne bombardata (la Serbia, storicamente, è il maggior alleato europeo della Russia). Il Fondo Monetario Internazionale pretese la privatizzazione di pezzi dell’industria pesante ed energetica russa. Nel 1999, poi, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, paesi un tempo parte del Patto di Varsavia, entrarono ufficialmente nella Nato. Cinque anni dopo, nel 2004 si realizzò, dopo anni di preparazione, il più grande allargamento della storia dell’Alleanza atlantica. Bulgaria, Slovacchia, Slovenia, Romania e, soprattutto, i paesi baltici, divennero parte integrante della Nato. Probabilmente Biden – che nel frattempo era diventato uno degli uomini più potenti in politica estera degli USA (presidente della Commissione esteri del Senato dal 2001 al 2003 e poi dal 2007 al 2009) ha lavorato per raggiungere tale obiettivo. La Russia veniva circondata mentre Biden, sebbene fosse democratico, avallava tutte le mosse geopolitiche di George W. Bush, presidente repubblicano ma con ottime relazioni con la lobby neocon.
Proprio nel 1997, mentre Biden sosteneva che l’allargamento ad est dell’Alleanza atlantica avrebbe potuto creare problemi, a Washington veniva fondato il PNAC (Project for the New American Century), un think tank che nel 2000 pubblicò il rapporto “Ricostruire le difese dell’America” un documento con il quale veniva delineata la strategia politica, economica e militare per garantire agli USA l’egemonia mondiale per tutto il XXI secolo. Tra i fondatori c’erano Dick Cheney, Donald Rumsfeld e Robert Kagan. George W. Bush, divenuto presidente nel gennaio del 2001, assegnò a molti membri del PNAC ruoli apicali. Cheney venne nominato vice-presidente, Rumsfeld divenne segretario della Difesa, Paul Wolfowitz prima vicesegretario alla Difesa e poi presidente della Banca Mondiale (è prassi che il presidente della Banca Mondiale venga scelto dalla Casa Bianca) e John Bolton sottosegretario di Stato per il controllo delle armi e per la sicurezza internazionale. Tutti neocon. Tutti convinti sostenitori delle guerre di invasione mascherate da missioni di pace in Afghanistan ed Iraq. Di Robert Kagan parleremo più avanti. Biden, teoricamente, si sarebbe dovuto opporre all’amministrazione Bush. Teoricamente, perché sulle questioni di politica estera l’appoggio a Bush da parte di molti congressisti democratici non mancò mai. Quella neocon, d’altro canto, è una lobby trasversale. Basti pensare ad Hillary Clinton, democratica nonché paladina di Wall Street, del complesso militare industriale statunitense e, soprattutto, dei neocon più estremisti. Paradossalmente il presidente più temuto dai neo-conservatori d’America è stato Trump. Un outsider per nulla organico all’establishment USA. Un uomo che non ho mai particolarmente amato ma che, tuttavia, ho sempre ritenuto infinitamente meno pericoloso della Clinton. Quantomeno per quel che concerne la politica estera. Pare impossibile ma l’uomo dei tweet minacciosi a Kim Jong-un, il presidente che non perdeva occasione di ricordare ai leader europei gli impegni da loro sottoscritti (spesso all’oscuro delle pubbliche opinioni) relativi all’aumento delle spese militari, si è dimostrato decisamente meno guerrafondaio di Obama, l’unico Nobel per la Pace che, un anno e mezzo dopo aver ricevuto il premio, diede l’ordine di bombardare la Libia per ragioni, come sempre, geopolitiche che nulla avevano a che fare con i diritti umani. Obama non era neocon ma dai neocon venne influenzato. Più o meno come Biden che nell’era Obama era vicepresidente degli Stati Uniti, dunque, sostenne la guerra in Libia, un intervento militare responsabile dell’indebolimento dell’Italia in primis ma, di fatto, dell’Europa intera.
Nel febbraio scorso il cancelliere tedesco Olaf Scholz, appena eletto dal Bundestag, fece visita alla Casa Bianca. In quell’occasione Biden diede un messaggio all’Europa, alla Russia e al complesso militare industriale ed energetico americano: «Se la Russia invade l’Ucraina, non ci sarà più un Nord Stream 2. Metteremo fine a questo». Il Nord Stream 2, il secondo grande gasdotto pensato per trasportare il gas russo in Germania attraverso il Baltico (e voluto sì da Putin ma soprattutto dalla Merkel) era stato completato. Biden, in pratica, di fronte ad un colpevolmente silente Scholz dettò la linea all’Europa dando ampie rassicurazioni al potere che conta negli Stati Uniti: quello militare, finanziario ed energetico. Se al posto di Scholz ci fosse stata la Merkel difficilmente Biden si sarebbe preso spazi che in teoria non gli competono. Ma Scholz non è la Merkel come si evince ogni giorno. Ciò che stupisce di tale dichiarazione (un’ingerenza dato che il Nord Stream 1 e 2 è un progetto tedesco e russo, non americano) è che ricalca perfettamente le parole pronunciate, un mese prima, da Victoria Nuland, sottosegretario di Stato per gli affari politici con delega all’Ucraina. «Se la Russia invade l’Ucraina, in un modo o nell’altro Nord Stream 2 non andrà avanti» queste le parole della Nuland. La Nuland, oltre ad essere la funzionaria USA che nel 2014 (c’è un’intercettazione) disquisiva con l’allora ambasciatore USA a Kiev Geoffrey Pyatt su chi dovesse far parte del governo ucraino dopo il regime change provocato dall’Euromaidan e che, mandava a quel paese l’Europa («Fuck the Eu») è la moglie di Robert Kagan, neocon e co-fondatore del Project for the New American Century. Nel dicembre del 2013, nel bel mezzo dell’Euromaidan, la Nuland, intervenendo al Press Center di Washington ad una conferenza sponsorizzata da Chevron ExxonMobil (ExxonMobil, ex-Standard Oil, la compagnia petrolifera fondata da John Davison Rockefeller) disse di aver parlato due ore con l’ex-presidente ucraino Viktor Janukovyč spingendolo a firmare gli accordi con l’Europa in quanto quella, per gli USA, era la sola via di uscita per Kiev soprattutto alla luce dei – parole della Nuland – cinque anni di lavoro USA e cinque miliardi di dollari investiti. Traduzione: o molli la Russia ed entri in Europa (un’Europa che deve farsi fottere quando osa chiedere agli USA briciole di agibilità politica) o farai una brutta fine. Janukovyč, presidente democraticamente eletto, venne deposto dalle manifestazioni popolari di Euromaidan che di popolare avevano all’inizio qualcosa ma che poi si sarebbero trasformate in un colpo di Stato moderno guidato dagli USA.
Spesso si dice che il presidente USA sia l’uomo più potente al mondo. Non l’ho mai pensato e lo penso ancor meno rispetto a Biden. Anche per gli inquilini della Casa Bianca resistere allo strapotere del complesso militare industriale ed oggi soprattutto finanziario USA, è un’impresa titanica. La Nuland parlava con alle sue spalle i loghi di ExxonMobil e Chevron. Ebbene i primi tre investitori istituzionali di ExxonMobil sono Vanguard Group, BlackRock e State Street Corporation. Immensi fondi di investimento americani. Vanguard Group è il principale azionista anche di Chevron mentre State Street Corporation è al terzo posto e BlackRock al quarto. Anche Lockheed Martin Corporation, la più grande fabbrica di armi al mondo, nonché primo contraente militare del governo statunitense ha i tre fondi (1°, 2° e 3° posto) come principali azionisti. Lockheed Martin produce gli M142 HIMARS, i lanciarazzi multipli arrivati in grande quantità in Ucraina negli ultimi mesi. Vanguard Group, BlackRock e State Street Corporation sono anche i primi azionisti di Pfizer, la più grande casa farmaceutica al mondo, la multinazionale con sede a New York che ha prodotto il vaccino anti-covid più diffuso in Europa. Pare impossibile ma in Europa sono stati somministrati praticamente solo vaccini prodotti da multinazionali americane. Vanguard Group e BlackRock sono i due principali investitori istituzionali di Meta Platforms, l’impresa che controlla Facebook, Instagram e WhatsApp. Il mondo è molto più complicato da comprendere di quel che ci immaginiamo così come la genesi del conflitto in Ucraina del resto. Un conflitto che potrebbe cessare oggi stesso se la politica non fosse così succube della finanza. Alcuni giorni fa Macron, in visita a Roma, ha indicato in Papa Francesco uno dei mediatori per tentare di cercare una soluzione diplomatica alla guerra in Ucraina. Da Mosca è arrivata un’apertura, da Washington, per ora, solo silenzio. Probabilmente Biden (o chi per lui) prima di prendere determinate decisioni ha l’obbligo di confrontarsi con svariati portatori di interesse. Soprattutto al di fuori del governo e del Congresso americano. Perché il complesso militare industriale e finanziario USA è uno Stato nello Stato. «Il potere logora chi non ce l’ha» diceva Andreotti. Biden, effettivamente, appare sempre più logoro.