Uno Stato civile dovrebbe garantire a chiunque la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, fino alla fine
Il 14 dicembre del 2017 è una data storica per i diritti dei più deboli in Italia. Eravamo in tanti quel giorno sugli spalti del Senato: c’erano personaggi conosciuti, come Marco Cappato ed Emma Bonino, e altri meno noti. Aspettavamo tutti con ansia il voto dell’Aula su una proposta di legge che normava il fine vita. La legislatura era agli sgoccioli, la legge di stabilità incombeva, si sarebbe tornati alle urne di lì a tre mesi e quella era l’ultima possibilità. Il lavoro alla Camera era durato oltre un anno: una lunghissima serie di audizioni; un dibattito serrato, prima in Commissione e poi in Aula; un lavoro certosino sul testo, per renderlo efficace senza far crollare la frastagliata maggioranza di allora (che andava da Area Popolare di Alfano e Lupi al Partito Democratico).
Abbiamo letteralmente lottato per singole parole, a partire dal titolo, che da “Dichiarazioni Anticipate di Trattamento” è diventato “Disposizioni”. Una semplice parola che rendeva vincolante ciò che era contenuto nel testamento biologico e garantiva il rispetto della volontà del paziente. Quel testo era arrivato al Senato e doveva essere approvato senza alcuna modifica, diversamente, avrebbe dovuto tornare alla Camera per la terza lettura e i tempi non c’erano. O la tanto attesa legge sul fine vita si approvava quel giorno o tutto sarebbe stato rimandato chissà per quanto tempo ancora. Ci giocavamo tutto, o la va o la spacca. E andò, con 180 voti a favore, 71 contrari e 6 astenuti, la proposta “In materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” sarebbe diventata la legge 219/2017 che oggi si studia nelle università.
Mia moglie Silvia e io, d’istinto e all’unisono, ci girammo a cercare con lo sguardo Mina Welby, la moglie di Piergiorgio, una delle icone dei diritti dei morenti. La sua commozione evidente diventò la nostra. Quel giorno il nostro Paese ha colmato un divario ventennale. Finalmente il diritto di scegliere per se stessi, di autodeterminarsi, era sancito dalla legge e regolamentato in maniera chiara. Grazie a quella norma oggi è possibile decidere di interrompere un qualsiasi trattamento, anche vitale; il malato ha diritto a una sedazione profonda, per evitare qualsiasi sofferenza; le volontà indicate nel testamento biologico (le DAT, appunto) sono vincolanti e devono essere rispettate.
Si è trattato di un balzo in avanti per i diritti dei morenti; se ci siamo arrivati è stato soprattutto grazie al sacrificio di molti malati che hanno combattuto per i propri diritti, rendendo pubblica la loro battaglia. Ce ne sono stati tanti che hanno deciso di non prendere scorciatoie o approfittare di zone grigie. Due su tutti sono diventati emblematici: Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro.
Piergiorgio, Mina, Eluana, Beppino e gli altri
Piergiorgio Welby, attivista e poeta, soffriva di distrofia muscolare progressiva, una malattia neurodegenerativa che negli anni lo ha portato a una condizione di totale immobilità. Nonostante avesse espresso la volontà di non essere rianimato, quando nel 1997 arrivò una grave crisi respiratoria la moglie Mina, spaventata, chiamò i soccorsi e Piergiorgio fu collegato a un respiratore automatico. Welby iniziò pubblicamente una battaglia legale e morale, chiedendo di sospendere il trattamento ed essere lasciato morire. Il suo caso ha creato un ampio dibattito sul tema dell’accanimento terapeutico e sul diritto ad autodeterminarsi, palesando la mancanza di una legislazione in materia. Dopo molte resistenze legali e politiche, Welby è stato aiutato a morire dal dottor Mario Riccio, che ha staccato il respiratore meccanico su richiesta del paziente, sedandolo per non farlo soffrire. Nei confronti del dottor Riccio è stato avviato un procedimento penale per omicidio del consenziente; il medico è stato però prosciolto dalle accuse perché “il fatto non costituisce reato”. La morte di Welby ha avuto un forte impatto sull’opinione pubblica e ha contribuito a promuovere il dibattito sulla necessità di una legge sul fine vita in Italia. Anche la giovane Eluana Englaro è diventata un simbolo del dibattito sul biotestamento. Nel 1992, a seguito di un incidente stradale, Eluana, che allora aveva 22 anni, è entrata in stato vegetativo permanente.
Per 17 anni, la sua famiglia, in prima linea il padre Beppino, ha lottato per ottenere il diritto di interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiali che la tenevano in vita, per rispettare la volontà che la figlia aveva espresso loro. Il caso di Eluana ha attraversato vari gradi di giudizio fino a raggiungere la Corte di cassazione, che nel 2007 ha riconosciuto il diritto di interrompere i trattamenti. Il clima politico e sociale era infuocato. Il Consiglio dei ministri del governo Berlusconi arrivò addirittura ad approvare un decreto-legge per vietare su tutto il territorio nazionale la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione dei pazienti. Decreto fortunatamente respinto dall’allora Presidente Napolitano. Finalmente, dopo ulteriori battaglie legali e resistenze da parte di istituzioni locali, i trattamenti di sostegno vitale vennero sospesi ed Eluana morì nel 2009 in una clinica di Udine. La vicenda ha stimolato una riflessione profonda sulla necessità di una legislazione chiara in materia di fine vita e ha spianato la strada per l’approvazione della legge 219 del 2017 sul biotestamento.
Una legge non per tutti
I diritti di malati come Welby, Englaro, Luca Coscioni e tanti altri, oggi sarebbero tutelati dalla legge sulle DAT del 2017; queste persone vedrebbero rispettata la propria volontà senza dover ricorrere a un giudice. Oltre 200mila persone hanno compilato e depositato le proprie disposizioni nella Banca Dati istituita dal Ministero e diverse centinaia hanno ottenuto di sospendere un trattamento di sostegno vitale, senza aggiungere alle proprie sofferenze un lungo calvario legale. Purtroppo, questa norma non tutela tutti; pensiamo ai malati di tumore, ma non solo. Inoltre sarebbe molto più dignitoso somministrare un farmaco che provochi l’addormentamento e la morte del paziente in pochi minuti, piuttosto che in ore o a volte giorni, come avviene quando si interrompono alimentazione e idratazione forzate. Nel nostro Paese, per molte persone, morire con dignità non è un diritto esigibile, per questo in tanti scelgono di farlo in Svizzera.
Svizzera, i viaggi della dignità
La Svizzera ha una lunga storia di tolleranza nei confronti del suicidio assistito. Il Codice penale svizzero del 1942 punisce “Chiunque per motivi egoistici istiga qualcuno al suicidio o gli presta aiuto…”, ne consegue che l’aiuto al suicidio del consenziente per motivi altruistici è consentito. Questo significa che una persona può aiutare un’altra a morire fornendogli farmaci letali, purché il paziente stesso sia in grado di assumere il farmaco autonomamente. La legge svizzera non richiede che il paziente sia un cittadino svizzero, il che rende il Paese una meta per molti malati da tutto il mondo. Anche Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Spagna e, recentemente, Portogallo hanno consentito e regolamentato l’eutanasia attiva. Il suicidio assistito invece è legale in Germania, Finlandia e Austria, oltre che Australia e Nuova Zelanda.
Quello che rende la Svizzera meta del cosiddetto “turismo della morte” è il fatto che ci sono organizzazioni disposte ad accettare persone straniere. Le due organizzazioni più note sono Exit e Dignitas. Exit è un’organizzazione che opera principalmente per i cittadini svizzeri. Fondata nel 1982, offre servizi di consulenza e supporto per il suicidio assistito, seguendo rigorosi protocolli etici e medici. Dignitas, fondata nel 1998, si rivolge anche ai non residenti. È forse l’organizzazione più conosciuta a livello internazionale per il suo impegno nell’assistenza al suicidio di pazienti stranieri. Oltre a fornire consulenza e aiuto ai malati, Dignitas si impegna in campagne per la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito in altri Paesi.
Il turismo della morte
Nel 2023 Exit ha assistito oltre 1.200 persone, registrando un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente. La maggior parte dei casi riguarda pazienti con malattie terminali, tra cui il cancro, che rappresenta circa il 31% dei casi. Dignitas, nel 2022, ha avuto 11.856 membri, con un incremento di 832 associati rispetto all’anno precedente. Il dato eclatante è che oltre il 90% degli affiliati di Dignitas sono residenti all’estero, questo evidenzia come la mancanza di una legge in molti Paesi sia una violenza per tanti malati. La maggior parte dei nuovi membri di Dignitas proviene da Stati Uniti, Germania e Regno Unito. Questo aumento della domanda è attribuibile alla crescente consapevolezza che una morte dignitosa è un diritto e alla mancanza di opzioni legali in molti Paesi. L’Italia è uno di questi.
Il diritto di scegliere: il caso di DJ Fabo
Le motivazioni che spingono le persone a intraprendere questi “viaggi della dignità” sono molteplici, ma al centro vi è sempre il desiderio di avere il controllo sulla propria vita fino alla fine. I pazienti affetti da malattie terminali, condizioni degenerative irreversibili o gravi disabilità vedono nel suicidio assistito un’opzione per evitare una vita di dolore e dipendenza. In Italia vi è un associazione su tutte che si batte per le scelte di fine vita e la legalizzazione dell’eutanasia e che offre un aiuto concreto a tutti i malati che vogliono intraprendere un viaggio in Svizzera, è l’Associazione Luca Coscioni. A loro si è rivolto anche Fabiano Antonioni, conosciuto come DJ Fabo. Fabo era un giovane musicista e DJ che, a seguito di un incidente stradale nel 2014, rimase cieco e tetraplegico. Dopo anni di sofferenza e una qualità della vita gravemente compromessa, DJ Fabo decise di recarsi in Svizzera per porre fine a quella che non considerava più una vita degna. Il caso di DJ Fabo attirò l’attenzione dell’opinione pubblica italiana grazie anche al sostegno di Marco Cappato, esponente dell’Associazione Luca Coscioni, che lo accompagnò in Svizzera e successivamente si autodenunciò per aver assistito al suicidio di Fabo. La vicenda non solo suscitò un acceso dibattito sull’eutanasia e il suicidio assistito in Italia, ma anche sull’importanza di leggi che tutelino il diritto dei pazienti a scegliere il proprio fine vita. “Sono finalmente arrivato in Svizzera e ci sono arrivato, purtroppo, con le mie forze e non con l’aiuto del mio Stato. Volevo ringraziare una persona che ha potuto sollevarmi da questo inferno di dolore, di dolore, di dolore. Questa persona si chiama Marco Cappato e lo ringrazierò fino alla morte. Grazie Marco. Grazie mille” questo è stato l’ultimo tweet di Fabo, un messaggio toccante ma anche una denuncia.
Neppure la Corte costituzionale può nulla contro l’ignavia
“Sul tema del fine vita,” ci spiega Cappato “il mantra che sempre ascoltiamo è che ‘ci vorrebbe una legge‘, ma è una invocazione fuorviante, non a caso usata anche da chi vorrebbe restringere il perimetro della libertà di scelta”. Cappato è chiaro: “In Italia c’è già il diritto a sospendere o rifiutare qualsiasi cura, anche attraverso un testamento biologico. Esiste anche il diritto all’aiuto medico alla morte volontaria attraverso autosomministrazione di un farmaco letale. Lo ha stabilito cinque anni fa la Corte costituzionale sul processo a mio carico per aver accompagnato in Svizzera Dj Fabo”. Il processo a Marco Cappato è durato tre anni e si è concluso con l’assoluzione dall’accusa di aiuto al suicidio, “perché il fatto non sussiste”. “La Corte Costituzionale”, continua Marco, “ha stabilito le condizioni per accedere a quel diritto (lucidità e consapevolezza, irreversibilità della malattia, insopportabilità della sofferenza, dipendenza da trattamenti sanitari). Le sentenze della Consulta hanno forza di legge, tanto che quattro persone hanno già ottenuto quel tipo di aiuto da parte del Servizio sanitario”. Prima della sentenza 242 del 2019 con la quale la Corte riconosce il diritto di un malato a ricevere l’assistenza medica al suicidio (la sentenza Cappato, appunto), la Consulta aveva con forza invitato il Parlamento a colmare il vuoto normativo. “È vero”, conferma Cappato, “aveva indicato al Parlamento la necessità di legiferare per determinare anche le modalità di attuazione di quel diritto, ma i principali testi parlamentari in discussione prevedono di restringere le condizioni previste dalla Corte.
Per questo, come Associazione Luca Coscioni abbiamo presentato delle proposte di legge nelle Regioni, responsabili della gestione sanitaria”. “Certo, una buona legge sarebbe utile per introdurre anche in Italia l’eutanasia legale, non condizionandola alla dipendenza da trattamenti sanitari (ad esempio, raramente le persone malate di cancro dipendono da una terapia) né alla capacità di autosomministrarsi la sostanza. Per questo abbiamo proseguito le nostre azioni di disobbedienza civile, a causa delle quali 10 di noi rischiano ancora una condanna da 5 a 12 anni di carcere, in 5 distinti procedimenti giudiziari”. Mancando una legge, infatti, questo diritto, già sancito dalla Corte, risulta difficilmente esigibile per molte persone. La Svizzera, con la sua legislazione avanzata, rappresenta per molti un ultimo rifugio per esercitare il proprio diritto alla dignità nella morte.
Il semaforo verde: la libertà di scegliere migliora la qualità della vita
Il processo per ottenere il suicidio assistito in Svizzera richiede che il paziente riceva il cosiddetto “semaforo verde” da un medico autorizzato. Questo avviene dopo un’attenta valutazione della documentazione e delle condizioni cliniche. Il “semaforo verde” rappresenta l’approvazione finale che consente di procedere con l’autosomministrazione del farmaco letale. Tuttavia, ottenere questa autorizzazione è solo una parte del processo e, sorprendentemente, molti pazienti decidono di non avvalersene. Per molti malati terminali, ottenere il “semaforo verde” rappresenta una sorta di via d’uscita psicologica. Sapere di avere il controllo sulla fine della propria vita fornisce un enorme sollievo emotivo. Questo potere decisionale contribuisce a migliorare la qualità della loro vita. I dati forniti da Dignitas lo confermano: meno della metà dei membri che ottengono il “semaforo verde” effettivamente procede con il suicidio assistito. Exit riporta statistiche simili. Molti pazienti, dopo aver ricevuto l’autorizzazione, trovano conforto nel sapere di avere un’opzione e decidono di non utilizzarla. Molti descrivono il momento in cui hanno ottenuto il via libera come un punto di svolta, che ha alleviato gran parte del loro stress e della loro ansia. La possibilità di scegliere quando e come terminare la propria vita ha permesso loro di concentrarsi su ciò che realmente conta, senza la paura di essere condannati a una sofferenza senza fine.
La discriminazione della sofferenza
Purtroppo nel nostro Paese, a causa di un legislatore timoroso e di una classe politica di ignavi, esiste una disuguaglianza tra coloro che soffrono: chi non rientra nell’alveo della legge sulle DAT non può essere aiutato in Italia. Per avere una speranza di scelta e autodeterminazione deve sottoporsi a un viaggio lungo ed estenuante che non tutti possono permettersi, fisicamente ed economicamente. Il tema del fine vita è un altro di quegli argomenti considerati “scivolosi” dalla politica. Per un motivo o per l’altro si trova sempre il modo di far saltare l’accordo. Questo nonostante la maggioranza degli italiani sia favorevole, come dimostra il record di 1 milione e 200mila firme, raccolte in soli 3 mesi, per il referendum per l’eutanasia legale, poi bocciato dalla Consulta.
Eppure, il compito del Parlamento è molto più semplice di quanto potrebbe apparire: non è necessario stabilire il confine tra dignitoso e inaccettabile; non è necessario definire il limite della sofferenza tollerabile, perché quello che vale per me non vale per un altro, e io stesso, nel corso della mia vita, posso cambiare idea. Il cardine della discussione quindi non è tanto la libertà di morire ma il diritto a vivere in maniera dignitosa anche l’ultima parte della nostra vita. Quello che il legislatore deve fare, quello che lo Stato deve fare per essere considerato uno Stato civile, è garantire a ognuno il diritto di scegliere per se stesso, fino alla fine.