Quest’anno la sezione Venezia Classici, a latere delle iniziative della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale 2022, presenta una serie di film restaurati in occasione di vari omaggi (Teorema, La marcia su Roma, La voglia matta, Teresa la ladra) ad artisti come Pier Paolo Pasolini, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Catherine Spaak e Monica Vitti. Non meno interessante il recupero di pellicole provenienti da vari luoghi: Stati Uniti (Cavalcata, The Black Cat, e I conquistatori), Francia (Mes petites amoureuses, Le strane licenze del caporale Dupont), Inghilterra (I misteri del giardino di Compton House), India (I giocatori di scacchi), Taiwan (A Confucian Confusion), Tagikistan (Bratan), Repubblica Ceca (L’Orecchio), e il Giappone (Una gallina nel vento, Il profondo desiderio degli dei e La farfalla sul mirino).
Al lettore il divertimento di rinfrescare la memoria su queste proposte se non, addirittura, di apprenderne l’esistenza per la prima volta.
Molto probabilmente l’attenzione del pubblico si concentrerà su due opere recuperate. La prima è Therese and Isabelle (1968) di Radley Metzger, adattamento del romanzo erotico che Violette Leduc (protetta di Simone de Beauvoir) scrisse nel 1954. Inizialmente si intitolava “Ravages”, ma Gallimard accettò di pubblicarlo all’unica condizione che venissero emendate le prime 150 pagine, considerate di “un’oscenità incredibile”. Questa parte, pubblicata molti anni dopo e in seguito a numerose vicissitudini con il titolo “Thérèse et Isabelle”, raccontava l’iniziazione saffica di una collegiale diciassettenne da parte di una compagna. Vicenda palesemente autobiografica, il testo venne recuperato nel 1966 in seguito all’acquisito successo della Leduc, ma in una versione rimaneggiata e mutilata dall’autrice. Soltanto nel 2000 il romanzo apparirà nella sua versione originale. Metzger, potendo utilizzare il testo ancora intermedio, realizza un film erotico in bianco e nero, romantico e mélo, a tratti onirico. Il regista statunitense, che aveva iniziato nel soft-core (che non disdegna inserti hard) devierà sempre più esplicitamente nel “porno d’autore” con lo pseudonimo di Henry Paris. Per gli estimatori, Metzger ha accorciato le distanze con Hollywood – in virtù del suo talento artistico – affermandosi come l’inventore del “porno-chic”. Sarà, ma c’era bisogno di un recupero a Venezia, a parte il fatto che il film è stato restaurato da Nicolas Winding Refn per la sua collezione privata?
A noi interessa maggiormente, la riproposta di quella che potrebbe essere la vera (ri)scoperta del Festival: La farfalla nel mirino (Koroshi no rakuin, 1967) di Seijun Suzuki.
Goro Hanada(interpretato dall’attore preferito di Suzuki, Joe Shishido) è l’assassino numero tre dell’Organizzazione. Accetta di aiutare il suo amico Kanada per portare a termine una missione a lui affidata – trasportare un certo Sakuro da un punto all’altro del Paese – ma che non si sente in grado di compiere da solo: Kanada è un killer al limite, rovinato dall’alcol. Durante il viaggio, i due vengono molestati da orde di assassini e Kanada viene ucciso in una rissa. Hanada riesce a mettere in salvo Sakuro, non senza essersi opposto al killer numero 2 dell’Organizzazione. Sulla via del ritorno incontra una donna misteriosa che lo segue discretamente a casa sua, dove lo attende la sua frivola moglie. L’Organizzazione, nel frattempo, gli ha assegnato quattro nuovi contratti. Esegue tre degli obiettivi. Misako Nakajo (Anne Mari, dal viso singolare e quasi surrealista), la sconosciuta che deve uccidere è il quarto obiettivo, ma la vittima rilancia proponendo al killer un incarico più allettante. Hanada accetta questa nuova missione che richiede una mira perfetta. Ma nel momento cruciale, una farfalla si posa davanti alla sua vista, facendogli sbagliare il colpo e causando la morte di un passante. Questo errore lo esclude dall’Organizzazione, la cui politica è di sbarazzarsi dei sicari che uccidono una persona innocente, non prevista nel contratto. Ad Hanada non rimane che individuare il misterioso n°1 prima che sia a sua volta eliminato. In Nikkatsu, la più vecchia casa di produzione nipponica sono sempre più imbarazzati da Seijun Suzuki, dal suo taglio anarchico, dalla sua mancanza di morale. Lo studio viene infatti regolarmente segnalato alle autorità per le sue produzioni deviate e la cattiva pubblicità comincia a contare più degli incassi, considerati comunque troppo esigui per i film girati da Suzuki.
Il 1968 è l’anno giusto affinché si consumi il divorzio fra il committente e il regista iconoclasta, e il pretesto è proprio La farfalla sul mirino. Per i dirigenti della Nikkatsu il film è incomprensibile, vergognoso: «Non c’è bisogno di un regista che fa film che nessuno capisce». Questo brutale licenziamento distruggerà la carriera di Suzuki, nonostante il sostegno di studenti, critici e registi (tra cui Nagisa Ôshima) che organizzeranno manifestazioni di protesta davanti alla Nikkatsu: i cinque grandi studi del paese si rifiuteranno di assumerlo costringendolo a vivere di filmati pubblicitari per oltre dieci anni. Suzuki fece causa a Nikkatsu, che bloccava le copie dei suoi film e impediva che gli venissero saldati i compensi, un processo che vinse nel 1971. Nonostante questa vittoria e i molteplici sostenitori, riuscì a tornare sul grande schermo solo nel 1977, iniziando una seconda carriera nel cinema indipendente. Un’attività molto discreta basata su opere sostanzialmente sconosciute fuori dai confini del Giappone. Suzuki uscirà presto dai radar dei critici e solo dall’inizio degli anni ’90 sarà oggetto di una vera e propria riabilitazione.
La Nikkatsu, paradossalmente, garantiva una forma di libertà a Suzuki, a cui piaceva improvvisare durante le riprese.
Nonostante fosse inquadrato dai molteplici vincoli del grande studio, il regista poteva contare sui mezzi della Nikkatsu (tecnici e umani, accessori, scenografie, costumi…) per realizzare quasi all’istante le idee che gli venivano durante le riprese. Poteva così sganciarsi facilmente dalla sceneggiatura, trasformando o immaginando nuove scene secondo la sua ispirazione. Una modalità che gli offriva grande libertà nella realizzazione dei film di “serie B” a lui affidati. La produzione indipendente si muoveva su altre dinamiche, non potendo contare su una base finanziaria solida, richiedeva di rispettare piani di lavoro consolidati. Analogamente a molti artigiani della Hollywood degli studios, Suzuki era il tipico professionista da studio. Ma torniamo a questo La farfalla sul mirino: “Non bere, non toccare le donne, quelle sono le cose che perdono un assassino …”, questa citazione all’inizio del film riassume praticamente ciò che verrà. Opera al culmine dell’approccio stilistico di Suzuki è un film palesemente di rottura. Il regista approfitta della mancanza di progetti in Nikkatsu per far passare una sceneggiatura che ha scritto con alcuni amici. Lo studio, preso in contropiede, non comprende la proposta ma accetta di derogare alle sue dinamiche produttive abituali e lascia che Suzuki giri il film. Libero dai vincoli produttivi consueti, totale “padrone” del film al quale sta lavorando, Suzuki può dare libero sfogo alla sua straripante immaginazione. E dal momento che parte dello script è ancora in divenire, piuttosto lacunoso, parte per la tangente e firma un film che non si basa più solo sulla sua regia. Suzuki, come in un sogno, lavora con una libertà che non ha mai avuto e non avrà mai più, anche nell’ambito delle produzioni indipendenti. Se La farfalla sul mirino si colloca nella continuità degli esperimenti formali in cui Suzuki è stato impegnato dai tempi dei suoi precedenti noir, è comunque un film che contrasta in molti punti con il suo lavoro abituale. Il più visibile di questi cambiamenti è il ritorno al bianco e nero, con il regista che abbandona i colori sgargianti che erano il suo marchio di fabbrica. Un bianco e nero che condiziona l’intera atmosfera del film: Suzuki abbandona il lato pop dei suoi più grandi successi a favore di un’atmosfera strana, inquietante, al limite del fantastico. Un altro sviluppo importante è la contaminazione di ogni inquadratura con il suo gusto per il formalismo.
Fino a quel momento, Suzuki aveva concepito scene shock, visivamente eccitanti, ma lasciando che la sceneggiatura seguisse il suo corso più o meno tradizionale di sviluppo. Ne La farfalla sul mirino, le scene hanno un taglio stretto, ellittico, raffinato ed elegante. Qui nessun fotogramma è semplice: fotogramma nel fotogramma, profondità di campo esagerata, oggetto prominente posto in primo piano, effetto riflesso, lavoro sulle prospettive. Ogni immagine del film è disturbata, parassitaria, complicata da scenografie e accessori che rendono ogni inquadratura un enigma. Un modo per mostrare Hanada agire in un mondo tentacolare, incomprensibile e assurdo, sul quale ben presto scopre di non avere alcun controllo. A seconda dei momenti, questi passaggi sono più o meno lunghi e numerosi, e Suzuki non era mai arrivato a saturare di effetti un suo film. Il pubblico è spiazzato (oltre ai produttori), non sembra comprendere che è immerso nel cervello confuso di Hanada, in un crescendo di delirio che fa perdere l’equilibrio al personaggio ormai preda dell’alcol. Ne condividiamo le fantasie, le visioni, la deriva. Dopo un inizio quasi classico da film noir, il suo incontro con Misako – femme fatale per eccellenza, ma anche una fata cattiva – segna la prima tappa della sua discesa agli inferi. Dal momento in cui lei gli confessa che è attratta solo dalla morte, lui sviluppa un’ossessione morbosa nei suoi confronti. La morte è la sua vita, il suo mestiere, e questa donna che la incarna risucchia tutti i suoi pensieri. Quando cade tra le sue braccia, il film diventa circolare, ripetendo scene quasi identiche.
Hanada si ritrova prigioniero di questa donna ragno che vuole possedere e uccidere. Dopo il periodo dell’ossessione per Misako, arriva il momento della paranoia. Hanada si ritrova braccato e rinchiuso proprio nell’appartamento in cui stava lottando con Misako. Il cappio si chiude, è costantemente osservato, ogni suo gesto spiato da un osservatore invisibile. Le inquadrature si stringono intorno a lui, non ha più spazio, si raggomitola e soffoca. E si sfiora l’assurdo quando Hanada cerca di capovolgere la situazione stanando il numero 1 per scalzarlo, in una ricerca di potere che ben presto si rivelerà effimera. Il pensiero va allo straordinario Senza un attimo di tregua (Point Blank, 1967), diretto nello stesso anno da John Boorman, dove Lee Marvin cerca di scalare un’altra Organizzazione tentacolare. Due film in cui l’eroe si immagina rappresentante di un’aristocrazia criminale – con le sue leggi, il suo codice d’onore, la sua gerarchia – e che si trova a scontrarsi con un mondo che non ha più senso. All’interno del genere della yakuza-eiga (lo Yakuza film), La farfalla sul mirino è una denuncia del culto del successo e dell’individualismo che attraversa la cultura giapponese. Una critica a una società moderna disumanizzata e meccanica che Suzuki ricrea attraverso questi criminali che dedicano la loro esistenza alla disperata alla scalata sociale nel mondo del crimine. Comprensibilmente la Nikkatsu non poteva apprezzare questo lavoro che non incontrava più i suoi desideri. Suzuki gioca con i codici del genere, li dirotta, li capovolge, facendo quasi una parodia dei film yakuza. Propone un’opera complessa che dista mille miglia dalle solite produzioni di “serie B”, trasformando un film su commissione in un manifesto modernista, a tratti surrealista. Con La farfalla sul mirino Suzuki si pone su una linea di demarcazione tra sublime e grottesco, un sentiero stretto che permette ai cosiddetti film di genere più singolari di resistere al tempo. È il caso di questo film indimenticabile che, a cinquantacinque anni dalla sua produzione, resta sorprendente e unico (come dimenticare la farfalla che atterra sul sesso di Misako?).
Chi ha amato Angeli perduti (Fallen Angels, 1995), di Wong Kar Wai, non si troverà spaesato.