È un sabato pomeriggio di maggio.
Quando arrivo all’Aeroporto Internazionale di Gallipoli il sole regala ai turisti paganti una pessima anteprima di come sarà l’estate. Sui tabelloni luminosi, sopraffatti dai ritardi delle compagnie aeree che proprio non ci sanno stare un solo anno senza creare scompiglio, lampeggia come un mantra “38 gradi”. Si spegne, si accende, poi si spegne e si riaccende ancora. 38 gradi centigradi. “E siamo a maggio” puntualizza un vecchio nel divorarsi l’unghia del mignolo, prima di aggiungere che è davvero incredibile che a ridosso del mese di giugno ancora nessuno si sia mosso per mettere in piedi un fottuto tormentone. Dice proprio così, fottuto tormentone, in doppiaggese stretto, senza pudore, distruggendo vigliaccamente quella cadenza pugliese che ha regalato al mondo numerosi morti di barzellette e altrettante meravigliose incursioni di Linea Verde tra orecchiette e trulli. Tutta la mia curiosità nasce dalla lettura di un Focus Junior di un paio d’anni fa. Cito testualmente: “L’industria del tormentone musicale è assai più raffinata e pericolosa di quanto si possa immaginare. Dietro gli accordi sdolcinati e il reggaeton che fomenta il bacino, si nasconde un giro d’affari da far impallidire la guerra in Libia.” Tanto basta a farmi studiare il fenomeno e a cercare in giro per il dark web un po’ di complici che, in cambio di qualche spicciolo, riescano a farmi accedere al girone dell’inferno in cui Salento e America Latina vanno a braccetto. Ne trovo uno, affidabilissimo, che per tutelare in termini di privacy chiameremo Nico Fidenco. È biondo, ha il pettorale pronunciato e in auto ascolta solo Bach, azzardando un patetico bluff. Peccato, infatti, che io sappia tutto di lui. Che i suoi 32 anni in realtà sono 55, che è stato il fonico di Ricky Martin nell’ultimo clamoroso tour pre-coming out, che ha suonato la tromba di Lou Bega in Mambo Number 5 e ha fatto parte del coro delle Les Ketchup quando in radio, nei supermercati, ai semafori si cantava solo Asereje, senza sapere nemmeno cosa significasse. Un po’ come per PNRR.
Nico mi fissa attraverso lo specchietto retrovisore e mi ripete continuamente che la nostra è una missione rischiosa, evidentemente per stomaci forti, privi di ogni forma di sensibilità. Io gli consiglio di accelerare, poiché ho atteso per troppo tempo questo momento per disintegrarlo con un’ondata di senso di colpa e ansia. Sono il primo giornalista, peraltro senza patentino, ad infilarsi nel covo che ogni anno partorisce il peggio della musica mondiale da ombrellone, salvando dalla bancarotta decine di migliaia di lavoratori dello spettacolo, e mandandocene milioni che si sputtanano il bonus vacanze nei villaggi turistici, in fervida attesa che il dj passi il loro pezzo preferito. Il preferito di quest’anno, s’intende. Perché già dal prossimo l’avranno dimenticato, per far spazio a nuovi pezzi preferiti con la stessa sonorità, le stesse parole ma il titolo diverso. E mentre immagino le facce solcate da cicatrici e grasso di questi narcos della bachata, domando a Nico il perché di Gallipoli. E lui mi spiega che la filiera è gigantesca e Gallipoli è solo il primo step. “I brani vengono composti qua. Anche quelli sud americani. Sono tutti di autori pugliesi che si firmano con pseudonimi esotici per non dare nell’occhio. Poi le canzoni vengono inviate in Messico, dove ex agenti della dittatura di Diaz le riarrangiano inserendovi bonghi e chitarre in levare, prima di trasferirle allo Stato Panamense, noto al mondo per la più longeva tradizione di autotune (ndr. quel fantastico effetto che corregge la voce del performer trasformandolo in un robot, e ne corregge le magagne di intonazione)”. A Panama, solitamente nel mese di marzo, il sindacato dei cantanti estivi di tutto il mondo (quest’anno il presidente in carica è Enrique Iglesias) si ritrova per decidere le linee guida della stagione musicale che verrà, e spartirsi il territorio internazionale. Nico mi fa notare che nel ’95 c’è stata una piccola ma significativa faida interna al sindacato, secondo il cui regolamento gli esecutori dell’arcinota hit “Macarena” avrebbero dovuto limitare la sua diffusione al territorio sud americano. Un errore umano, invece, pare abbia fatto uscire la canzone dal laboratorio di Caracas in cui era in fase di rifinitura, favorendone la diffusione in tutta Europa, segnando il destino e la salute mentale di almeno tre generazioni di ballerini amatoriali che faticano a togliersela dalla testa. A pochi metri dal bunker, Nico frena, scende dall’auto, preleva una busta dell’Ikea e me la infila in testa, stringendo non poco, perché alla mia vista sfugga completamente la strada che percorreremo. E ci riesce. Per dieci lunghi minuti, vedo tutto blu svedese. Poi, quando ci siamo, frena di nuovo e mi fa scendere. Mi accorgo però che il panorama è lo stesso che precedeva l’inserimento della busta sul mio volto. Quindi deduco che è un altro clamoroso bluff, come quello dei vinti di Verga. Solo che lui non ha mai letto Verga, e questo giro a vuoto gli servirà esclusivamente ad accentuare l’enfasi del racconto quando dovrà raccontarlo ad una cubista per portarsela a casa.
Scendo e, mani legate, vengo fatto infilare in un pozzo. Dal pozzo cammino per 150 metri nel buio, imbocco una galleria illuminata male, alle cui pareti si alternano i più grandi successi delle estati scorse. Da Vamos a Bailar (della coppia più incestuosa di sempre), a Waka Waka, da Andiamo a Comandare a Mambo Salentino, fino ad Amore e Capoeira. Uno stillicidio grafico che culmina con una porticina microscopica per il cui accesso è necessario chinarsi. Peccato che non si apra fino alla formulazione della parola magica che, manco a dirlo, è “Chiwawa”. La scandisco e la porta si spalanca, regalandomi lo scenario più desolante di sempre. Una stanza gigante, come quelle deposito dei musei, priva di ogni guizzo creativo. La botola dall’alto fa filtrare il sole, farcendo di colore un interno notte disadorno e umido. Nico, che nel frattempo si è evitato la trafila di corridoi e passaggi segreti, prendendo un banalissimo ascensore, si palesa nuovamente accanto a me. “Proceda, proceda”, centellina con la voce dei cattivi di 007. E io procedo, fino a intravedere il capo di questa setta che tanto male infligge al mondo. Quel capo è microscopico, basso, coi capelli lunghi, biondi. Quel capo è una bambina, catatonica, priva della sua infanzia naturale. È titolare di un alone angelico e di un vestito lungo bianco, che la fa somigliare ad una potenziale santa in balia del rogo. Salta tra i tasti neri e quelli bianchi di una gigantesca Roland ai suoi piedi, improvvisando note casuali. Di tanto in tanto si ferma, le riascolta e invia il risultato ad un obeso, sul versante opposto dell’oscurità che grida “schifo” o “buona”, secondo parametri francamente incomprensibili. Anche in questo caso Nico ha bleffato. Mi aveva parlato di autori, al plurale, lasciandomi immaginare chissà quali menti eccelse, diplomate al conservatorio con lode. E invece davanti a me c’è soltanto una bambina, forse senza età, sicuramente senza coscienza. Nei pochi minuti che sono lì, la bambina concepisce col suo talento almeno cinque brani meritevoli del giudizio “buona”. Il che vuol dire che sono un privilegiato, perché le mie orecchie in via del tutto eccezionale hanno ascoltato con largo anticipo ciò che finirà sulle spiagge del 2023. La bambina si volta, s’accorge di me e comincia strillare, pensando che sia uno dei servizi sociali venuto a strapparla a quel contesto deplorevole. Oppure pensa sia un melomane di pucciniana memoria con l’intenzione di ucciderla per ripristinare il bel canto. Insomma mi teme, ma Nico la tranquillizza, abbracciandola forte e presentandomi a lei come un giornalista sottopagato che ha smesso di occuparsi di camorra per provare brividi criminali ben peggiori. E non ha tutti i torti, visto che uno squallore del genere, in termini di scenografia e lavoro minorile, io non l’ho mai visto nemmeno quando seguivo Cutolo nelle sue tournée omicide.
- “Chi è la bambina?” domando timido a Nico. Lui ci pensa su. Dirmelo o non dirmelo.
- Poi opta per la verità: “È la figlia biologica di Giusy Ferreri”.
Io sbianco, lui continua, “L’ha avuta con uno dei Boomdabash nove anni fa. Un errore di gioventù che però ha cambiato le sorti della musica mondiale. È un talento incredibile, come Mozart ma molto più proficuo. Scrive musica con i piedi, ma ha l’attenuante di aver ascoltato solo i pezzi di mamma e papà, e questo la scagiona da qualsiasi giudizio morale.” Annuisco, stupefatto dallo scherzo della natura che si mostra davanti ai miei occhi. Poi chiedo a Nico se posso scambiare qualche parola con lei. Lui ci pensa, ci ripensa e anche in questo caso acconsente, purché siano frasi tratte da tormentoni: “È la sua lingua, non conosce altro.” Così compio un paio di passi e prendendole la mano sussurro: “Voglia di ballare un reggae in spiaggia, voglia di riaverti qui tra le mie braccia, In una piazza piena…” E lei timidamente risponde: “…per fare tutto quello che non si poteva”, poi sorride, anticipando il mio desiderio di farla ballare, sfogare, divertire su quell’hit che lei stesso ha partorito, senza mai conoscerne le conseguenze. Ma è un attimo. L’obeso di cui sopra, forse inconsapevole della mia visita, scorgendomi abbandona la postazione in cui è solito poltrire, per scagliarsi contro di me. Mi invita con le cattive ad abbandonare l’edificio, mentre la figlia di Giusy Ferreri grida “Portami con te, portami con te!!” e io non capisco se è un invito a rapirla o il testo di un tormentone che mi è sfuggito. Nel dubbio scappo: percorro il corridoio al contrario, il tunnel. Tutto a ritroso, fino a scalare il pozzo e raggiungere la superficie. Qui mi attende, fedelissimo, il buon Nico Fidenco che, anche per il ritorno, ha accantonato la verve da spy-story per risalire in ascensore. Almeno sulla strada verso l’aeroporto si risparmia la pantomima della busta Ikea ed evita di impreziosire la nostra conversazione silenziosa con un capolavoro di Bach. Accende la radio e insieme a me subisce il fascino di una prima volta. La voce di Anna Pettinelli annuncia l’arrivo del primo vero brano dell’estate, “Katatonika”, una hit memorabile eseguita a tre voci da Emma, Elodie e Marcella Bella (inserire vecchie glorie nei reggaeton estivi pare faccia punteggio al Mibact). Anna Pettinelli non lo chiama tormentone. Si guarda bene dal farlo. È una parola che giudica. E la figlia di Giusy Ferreri, che dei tormentoni è regina sovrana, non ha diritto a dita puntate contro. È una bambina prodigio, una sensibilità nascosta, e da oggi in poi possiederà la porzione del mio cuore che fino a ieri tenevo vacante nell’attesa di un figlio. Lei è più di un figlio. Lei è la colonna sonora della nostra vita.
Quantomeno quella che ci meritiamo.