Diritto all’aborto, a che punto siamo in Italia

Con la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di ribaltare la storica sentenza “Roe v. Wade” che dal 1973 garantiva l’accesso all’aborto a livello federale, si è tornato a parlare di aborto in tutto il mondo, compresa l’Italia. Tra passi indietro, diritti negati e proteste, i riflettori si sono accesi anche sul nostro paese dove nonostante una legge in vigore dal 22 maggio 1978 assicuri a tutte le donne l’aborto, le testimonianze parlano di una libertà sempre meno scontata e difficile da tutelare. A parlare non sono soltanto i numeri della relazione annuale del Ministero della Salute relativa al 2020 sull’attuazione della legge 194 e sulle interruzioni volontarie di gravidanza (IVG), ma le testimonianze dei medici sul campo, le storie di donne lasciate sole davanti alla scelta di abortire. Dal nord al sud Italia, il diritto di interrompere una gravidanza sembra trovare sempre più ostacoli, partendo dai percorsi differenti per poter abortire che può cambiare a seconda della Regione e dell’ospedale. Nel 2020 le IVG sono state 66.413 (-9,3% rispetto al 2019): i numeri riportano 10.720 IVG effettuate in Lombardia contro le 288 del Molise, dove l’82,8% di ginecologi è obiettore di coscienza – la percentuale in Italia è del 67%, quella degli anestesisti del 43,5%. Perché questa situazione? La 194/78 permette ai medici obiettori di non effettuare interruzioni di gravidanze volontarie, ma cosa succede quando viene negato il diritto di abortire? Lo abbiamo chiesto a chi ogni giorno è dalla parte delle donne. 

I passi indietro dell’obiezione di coscienza in Italia

A distanza di 44 anni dalla storica legge 194 che garantisce a tutte le donne la possibilità di accedere in Italia all’interruzione volontaria di gravidanza, giudizi contrastanti dividono ancora l’opinione pubblica e i cittadini. Anche dopo quasi mezzo secolo. Eppure prima di quella norma per il codice penale una donna che praticava l’interruzione volontaria di gravidanza rischiava fino a 4 anni di reclusione, arrivando a 5 per chi causava l’aborto a una donna consenziente. Come definire ad oggi il cambiamento arrivato con la legge 194? Un percorso non facile quello di questi anni, arrivato per tutelare i diritti delle donne e costretto a scontrarsi con pregiudizi, paura di raccontare e obiezione di coscienza. Un viaggio dal nord al sud dell’Italia per capire a che punto siamo sull’interruzione di gravidanza e l’obiezione di coscienza dei medici ginecologi, attraverso i numeri, le storie di associazioni e medici sul campo. L’articolo 9 della legge 194 riporta che “l’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza, e non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento”.  

La situazione nel sud Italia

Basta dare un’occhiata ai dati del Ministero della Salute per accorgersi della disparità tra nord e sud Italia riguardo l’obiezione per categoria professionale nel servizio in cui si effettua l’IVG: nel 2020 nelle Regioni del sud 675 ginecologi e 648 anestesisti, rispettivamente il 76,9% e il 61,4%, erano obiettori [i dati relativi alle isole maggiori sono calcolati singolarmente e non accorpati a quelli dell’Italia Meridionale]. E’ così che a primeggiare sia il Molise con il 82,8% di ginecologi obiettori, seguita da Basilicata (81,4%) e Campania (73,5%), Puglia (79,1%), Abruzzo e Calabria, rispettivamente 83,8% e 67,6%. In Sicilia e Sardegna la situazione non migliora con l’81,6% di ginecologi obiettori in Sicilia e il 55,6% nell’altra isola maggiore. Una questione di fede o di carenza di personale? Basti pensare che in Molise sono presenti solo 3 stabilimenti con reparto di ostetrica e ginecologia, di cui uno dove si effettuano IVG. Non vanno meglio Basilicata (7), Calabria (15) e Abruzzo (15), numeri che spesso costringono le donne a spostarsi in altre Regioni per l’interruzione di gravidanza. 

Diritto all'aborto, a che punto siamo in Italia

“C’è un abisso nella diversità di trattamento da ospedale ad ospedale”, spiega un’ostetrica campana dell’Ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli. “Le Regioni dovrebbero promuovere corsi di formazione su tale procedura e la sua diffusione”, si legge nell’ultima relazione del Ministero, smentita però da chi è sul campo: “Negli anni, mi è capitato di vedere applicate regole solo per un ospedale e di essere cambiate in altri con trattamenti burocratici differenti. Non sono mai stata obiettrice ma il paradosso è che in Veneto mi è stata subito posta la domanda a differenza di quando sono andata a lavorare in Campania, dove su 68 stabilimenti solo 19 effettuano l’IVG”. Secondo l’articolo 9 della norma la dichiarazione dell’obiettore deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dell’ospedale o della casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall’entrata in vigore della presente legge o dal conseguimento della abilitazione o dall’assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette alla interruzione della gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l’esecuzione di tali prestazioni. “A Catania invece”, conclude l’ostetrica, “mi dissero che le ultime arrivate non potevano essere obiettrici”. Quasi a voler dire che la legge sia stata bypassata da anni e che nel 2022 sull’interruzione di gravidanza non si sappia ancora abbastanza. Lo spiega anche Stefano Palomba, primario del Reparto di Ostetricia e Ginecologia del Grande Ospedale Metropolitano di Reggio Calabria: “la percezione che può avere un direttore di una struttura complessa è una cattiva collaborazione, senza una rete tra il territorio e gli ospedali il paziente arriva con un accesso diretto all’ospedale.

Questo fa sì che la struttura venga sommersa da richieste di interruzione di gravidanza senza nessun filtro”. Il primario spiega che spesso le donne non hanno quasi mai il certificato che per legge deve essere redatto dal medico competente che normalmente si trova sul territorio. Alla cattiva organizzazione del territorio – spiega Palomba – non viene affiancata una rete di collocamento tantomeno una selezione sul territorio del paziente. In Calabria infatti su 1645 certificazioni per IVG nel 2020, il 37,9% è avvenuto in consultori familiari – quelli funzionanti in Regione sono 64 per un totale di 439 nel sud Italia, 252 nelle isole, 437 al centro e 797 al nord. “Mancano i consultori – spiega il dottor Palomba – e deriva da un problema di tipo culturale” che allunga i tempi necessari per l’interruzione di gravidanza. Problematica alla quale si aggiunge una carenza di medici in Regione con un conseguente sovraccarico sugli ospedali centrali che peggiorano la qualità del servizio alla sua complessità. “Non soltanto il servizio non viene fatto, ma quando viene fatto peggiora”, conclude Palomba che intravede, tra le soluzioni, la creazione di dipartimenti materno-infantili realmente efficaci. Secondo uno studio Anaaoo Assomed che ha mappato le carenze dei medici specialisti Regione per Regione con una programmazione del fabbisogno di personale medico regionale e le proiezioni per il periodo 2018-2025, in Calabria è previsto un ammanco di 1410 medici. Le carenze principali riguarderanno, tra gli altri, la medicina d’urgenza con 245 medici, l’anestesia e rianimazione con 63 medici, la ginecologia con 51 medici, la chirurgia generale con 90 medici.

La situazione nel centro Italia

Rispetto al sud, nelle Regioni del centro Italia la situazione sembra essere migliore nell’attuazione delle interruzioni di gravidanza ma sempre con alte percentuali: secondo i dati del 2020 il 63,3% dei ginecologi e il 44,3% degli anestesisti sono contro l’IVG. “Senza contare i farmacisti che si rifiutano, illegalmente, di vendere la pillola del giorno dopo/dei cinque giorni dopo dichiarandosi obiettori in maniera informale”, spiega Chiara Lombardo, attivista trans-femminista con base a Pisa e presidentessa dell’associazione Obiezione Respinta. Di fronte all’aumento dei casi di obiezione, di violenza ostetrica e disinformazione generale su pratiche medico/sanitarie rivolte alle donne, il progetto di Obiezione Respinta è diventato con gli anni una rete di denuncia: dalla mappatura della città di Pisa per informare le donne su dove recarsi, alla creazione di una piattaforma autogestita che permette di mappare i luoghi dove si esercita l’obiezione di coscienza, e non solo.

Diritto all'aborto, a che punto siamo in Italia

Cliccando sui vari punti della mappa è possibile anche accedere ad un servizio gratuito di informazioni che comunemente non risultano facilmente reperibili, dai servizi offerti agli orari di apertura, fino alle esperienze di singole donne che condividono in forma anonima la loro esperienza. Anche nelle Regioni del centro Italia però la percentuale dei ginecologi obiettori non scende sotto il 50%, con 247 nel Lazio, 189 in Toscana, 91 nelle Marche e 57 in Umbria. Difficile invece dire quanti e quali ospedali italiani offrano il servizio di interruzione di gravidanza per la mancanza di informazioni – sul sito dell’Associazione LAIGA 194 c’è la possibilità di accedere ad una mappa “il più possibile esaustiva della situazione attuale” che non ha però “la pretesa di essere completa, poiché i servizi sanitari cambiano molto spesso a seconda del personale e delle politiche interne alla struttura”. “Il nostro obiettivo è da sempre proteggere le donne”, dice sicura la dottoressa Elisabetta Canitano, ginecologa ASL Roma 3 e Presidente di Vitadidonna, associazione la cui missione è aiutare le donne a poter esercitare il diritto di scelta e a proteggere la propria salute. “A Roma la situazione è abbastanza ragionevole”, spiega mentre racconta il suo impegno dalla parte delle donne, lasciate ad un angolo nel vasto problema dell’obiezione di coscienza. “Il punto è avere ospedali dove la donna venga messa a parità del feto”, continua Canitano. Eppure non è sempre così ascoltando le storie in cui negli anni è stata coinvolta, da medico e da donna.

Una in particolare per aiutare a capire i vari aspetti e spettri di un aborto, come quello per via farmacologica per bocca per interrompere una gravidanza extra uterina, severamente vietato dalla Chiesa. Nella spiegazione medica che dà la dottoressa Canitano, “in una gravidanza extra uterina l’embrione sta nella tuba, non ha nessuna possibilità di vivere ma ha la possibilità di ammazzare sua madre perché se la tuba si rompe può avvenire un’emorragia”. Negli ospedali cattolici però, la donna deve essere aperta chirurgicamente e dev’essere asportata la tuba in modo che l’embrione muoia per la conseguenza del gesto fatto per salvare la madre e non venga soppresso come azione. “E’ una cosa molto drammatica”, evidenzia la dottoressa Canitano ricordando una telefonata ricevuta di notte da una donna ricoverata al Policlinico Gemelli di Roma con il sacco rotto dopo la amniocentesi. “Sono ricoverata e continuano a parlarmi del mio bambino, io non sento una parola su di me. Mi può aiutare? Io ho un bambino a casa e non voglio morire”. Con le parole della donna, la dottoressa Canitano va a ritroso nella storia, racconta di aver trovato un posto letto in un ospedale laico e di aver ricevuto la mattina seguente un’altra chiamata dalla signora, convinta di voler dare una chance al bambino, “magari ce la fa”.  Dopo le convinzioni di non interrompere la gravidanza e le dimissioni da parte dei medici – perché la mamma non in fin di vita – la donna abortì al Policlinico Umberto I con un intervento delicato e rischioso. E una vita salvata.  

La situazione nel nord Italia

Stando ai dati del 2020 del Ministero della Salute, le Regioni del nord Italia sono quelle dove ci sono state più IVG, 31.025 (in calo rispetto al 2019 e al 2018 rispettivamente 34.217 e 35.739) con 10.720 interruzioni nella sola Lombardia, seguita dalle 6.025 dell’Emilia Romagna, 5.637 in Piemonte, fino ad arrivare alle 116 in Valle d’Aosta dove c’è un solo stabilimento con reparto di ostetricia e ginecologia che effettua IVG, e 3 ginecologi obiettori rilevati dal Ministero della Salute. Nelle Province Autonome di Bolzano e Trento sono rispettivamente 60 e 14 i ginecologi obiettori, 59 in Friuli Venezia Giulia, 63 in Liguria, 187 in Emilia Romagna, 214 in Piemonte, 241 in Veneto e 451 in Lombardia. In quest’ultima regione, è presente il più alto numero di consultori privati, 90, contro i 131 pubblici (nel 2019 erano 157 pubblici) – i consultori familiari pubblici funzionanti nel nord Italia sono 797. “Ho lavorato nell’ospedale dove si fanno più interruzioni volontarie di gravidanza”. E’ Alessandra Kustermann, ex primario oggi in pensione della Mangiagalli, clinica ginecologica del Policlinico di Milano, a spiegare che negli ospedali dove ci sono più nascite, ci sono anche più interruzioni di gravidanza.

Diritto all'aborto, a che punto siamo in Italia

Lo stato dell’arte dell’obiezione di coscienza in Italia che fa la dottoressa Kustermann, a differenza di altri medici, va oltre la questione etica e religiosa: “la maggioranza delle obiezioni sono legate al fatto che essere favorevoli all’autodeterminazione della donna vuol dire sovraccaricarsi di un peso maggiore, dover fare più sedute di sala operatoria. Ed è un sovraccarico”. E’ per questo che alla Mangiagalli, spiega Kustermann, chi si occupa delle IVG non fa solo quello, “chi non da l’obiezione più frequentemente fa un lavoro più gratificante, si occupa di altre cose – per esempio di gravidanze patologiche”. In più, alla Clinica ginecologica, ad entrare in gioco nella formazione dei medici è anche una ‘richiesta’ di empatia: “tu non sei quel paziente – dice la Kustermann riferendosi ai colleghi obiettori -, quello che per te è valido può non esserlo per la persona che hai davanti. E così senza conoscere quella persona, esprimendo un giudizio, stai dimostrando di avere un pregiudizio”. Eppure, per la Kustermann, nonostante l’aumento dell’uso di contraccettivi e la frequenza maggiore ad evitare una gravidanza, oggi come 30 anni fa le donne hanno le stesse identiche motivazioni davanti alla scelta dell’aborto: non avere posto psicologicamente per un figlio ed un’altra vita. Dopo anni di esperienza sul campo, sembra stia aumentando la richiesta di aborto farmacologico per quelle donne che sono sicure di non voler procedere alla gravidanza; per altre invece, è quello chirurgico a rimanere la scelta più seguita, non senza sofferenza. 

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