Dal Movimento Cinque Stelle al 5%

Ogni partito ha le sue crisi e sarebbe illusorio pretendere che il Movimento Cinque Stelle faccia eccezione. Nella storia repubblicana solo la Democrazia Cristiana conserva per lunghi decenni un intoccabile e superiore equilibrio grazie ad alcuni minuscoli particolari come la lotta al comunismo sovietico e l’influenza statunitense. L’attuale panorama politico italiano, meno influenzato dai blocchi geopolitici del Novecento, risulta certo meno estremizzato e più variegato. Le ideologie cedono agli slogan e i leader si passano il testimone dell’effimero successo elettorale con estrema velocità: da Mario Monti a Mario Draghi è un attimo. Così come lampante è il successo dei pentastellati nell’epoca dei Vaffa day orchestrati da Beppe Grillo e delle piazze piene al suono di “apriamo il Parlamento come una scatoletta di tonno”. Giorni in cui centrodestra e centrosinistra sembrano concetti vetusti, in cui la giustizia sembra rivalersi sui magheggi della vecchia classe parlamentare, in cui l’ars politica sembra tornare cosa pubblica. Basta casta, fine dei vitalizi, a morte le auto blu, mai più doppio mandato. Ebbene i pentastellati, a ormai quattro anni dal trionfo delle politiche 2018, non solo falliscono il loro intento rivoluzionario diventando parte integrante delle istituzioni ma perdono il ruolo di terzo polo e, dopo i risultati delle ultime amministrative, rischiano perfino di scomparire. Ogni partito ha le sue crisi, vero. Ma quella che oggi è chiamato a risolvere Giuseppe Conte sembra più complessa di altre e, come ogni grande implosione che si rispetti, ha una storia e un percorso ben precisi.

Nella scatola nera del Movimento

Il primo governo Conte nasce all’alba del giugno 2018. Le elezioni lanciano un segnale chiaro: l’Italia vuole i pentastellati al potere. L’esecutivo però scalpita e, nelle calde ore del Papeete, viene sfiduciato dal proprio ministro degli interni. Il destino regala all’avvocato degli italiani una seconda chance, stavolta con alleati opposti. Solo il Covid e un Matteo Renzi scatenato lo esiliano da Palazzo Chigi in quelle che, di primo acchito, appaiono normali scaramucce di palazzo. Tutto però porta a conseguenze più o meno immediate e, nel caso del Movimento, particolarmente atroci. In quasi tre anni la creatura del rivoluzionario Belle Grillo governa con la Lega di Matteo Salvini (storicamente vicino a Silvio Berlusconi e alla sua Forza Italia) e con il Partito Democratico di Nicola Zingaretti. Le due fazioni politiche maggiormente detestate dall’elettorato grillino: le dirette responsabili dei recenti guai della Seconda Repubblica.

Dal Movimento Cinque Stelle al 5%

Gli analisti politici più esperti o gli elettori più attenti sapevano sarebbe successo, un po’ per l’estremo fascino che le larghe intese esercitano sui palazzi romani ma anche per l’estrema instabilità dell’ancora attuale legge elettorale di stampo proporzionale. Da sempre, ventennio a parte, tutti sono costretti a governare con chiunque. Servono però attenzione ed enorme rispetto dei valori risultati vincenti in campagna elettorale e, anche prevedibilmente, il Movimento Cinque Stelle degli ultimi anni li spegne progressivamente uno a uno senza forse rendersene conto.

Una comunicazione scellerata

A testimoniarlo è forse l’uscita più controproducente che un esponente (anche di spessore) del Movimento abbia mai pronunciato: l’abolizione della povertà dell’allora ministro degli Interni Luigi Di Maio. L’annuncio, folcloristico nei modi oltre che nei contenuti, arriva dal balcone di Palazzo Chigi dopo l’accordo sul Def con la Lega. Secondo gli allora due vicepremier: “L’Italia sarebbe cambiata per sempre”, oggi si ritrova con l’inflazione alle stelle e con numerosi posti di lavoro vacanti grazie – anche – all’introduzione del reddito di cittadinanza. Sorvolando su missioni raggiunte o meno è la comunicazione a contare. Gli slogan appartengono a tutte le parti in causa, chiariamoci, ma quelli dei grillini stupiscono per la faciloneria della soluzione trovata, la retorica dell’essere primi, l’ipocrisia di indossare i panni degli unici paladini della giustizia in campo. La politica, verrebbe da dire, non è mai bianca o nera e soprattutto non v’è accordo che soddisfi davvero tutte le componenti sociali.

Dal Movimento Cinque Stelle al 5%

Se gli uomini di Grillo parlano in maniera tanto scellerata alla propria base – e per scellerata intendiamo spesso priva di serie fondamenta – un motivo c’è. Quel modus operandi è figlio della prima e grande cavalcata del 2013 capace di trascinare tanti politici improvvisati dalle speranze di un cambiamento alla comoda poltrona di Montecitorio. Insistere per accarezzare le origini mentre l’opera di attrazione verso un altro tipo di elettorato (più moderato e a caccia davvero di un terzo polo distante dai deliri del centrodestra e dall’esasperato correntismo del centrosinistra) finisce per perdersi in un bicchier d’acqua. Isolarsi per rafforzarsi, in soldoni, paga poco.

La componente complottista

Negli anni del Covid, il Movimento manca un’altra, grande occasione: condannare quella percentuale del suo elettorato tremendamente vicina a posizioni complottiste di carattere sanitario. Tutti o quasi gli attuali parlamentari complottisti finiti nel Gruppo misto sono ex grillini. No scie chimiche, no vax e no 5G, chip sotto pelle, fan del guerrafondaio Putin e così via: non opinioni ma finte notizie esplose sui forum online e raccontate al paese come scandali nascosti. La narrativa dei “poteri forti” appartiene ai membri dei Cinque Stelle come l’odio verso gli immigrati sta a quelli di Salvini, due macchie capaci di impedire qualsivoglia dibattito serio al di fuori di certi luoghi comuni. Se il leader del Carroccio può far esplicitamente leva su ossessioni simili (da sempre parte integrante del suo curriculum politico) il Movimento, in piena istituzionalizzazione, ha davanti due scelte: accogliere e fomentare tanta ignoranza o ripudiarla apertamente.

Dal Movimento Cinque Stelle al 5%

Nel corso dell’attuale legislatura su 988 parlamentari, 200 hanno cambiato gruppo politico e il record spetta proprio al M5S, che ha perso il 29% dei suoi parlamentari per una vera e propria diaspora dovuta a espulsioni o a scelte personali. Il tentativo c’è ma è tardivo: restando in Parlamento, seppur sotto altre bandiere, gli ex danno sfogo a tutta l’eredità del grillismo vecchia scuola antecedente alla trasformazione del M5S in un “partito di palazzo”, scacciando ulteriormente quei centristi che vedono in Conte tutto sommato una speranza per il futuro. Eppure proprio l’avvocato prestato alla politica rappresenta, suo malgrado, l’ennesima toppa peggio del buco.

Una leadership compromessa dall’inizio

Sconfitto da Italia Viva dopo un estenuante secondo governo Conte, l’ex premier non vuole mollare e cerca pure il terzo mandato. Un eroe romantico che, surclassato solo dal Superman della politica europea Mario Draghi, fa una scelta di campo diventando a tutti gli effetti il leader politico del Movimento. Subentra qui però una questione tutt’altro che irrilevante: la mancata simpatia di Beppe Grillo. Nei giorni delle trattative con il garante, Conte è costretto a indire una conferenza stampa per dargli addirittura un ultimatum. Lui cede, certo, ma senza risparmiargli un notevole e duraturo scetticismo su programmi e intenzioni nel lungo periodo. Doppio mandato, smantellamento di Rosseau, riforma dello statuto, superamento delle correnti interne: non c’è un punto chiaro su cui il vertice politico del movimento sembri coeso.

Con il disastro delle amministrative di domenica scorsa, la leadership di Conte e con lei il destino del M5S sono al minimo storico. Gli tocca andare in conferenza stampa per commentare il tonfo: “Un risultato deludente, anzi cancellate: poco soddisfacente”. Dice che ora cambierà tutto nel partito e che sotto a questo buco nero “c’è la sofferenza degli italiani per la presenza di Mario Draghi nel governo”. Tuttavia assicura che non farà scherzi.

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In questa chiosa, seppur pronunciata a poche ore dai risultati elettorali e quindi con un coinvolgimento emotivo non indifferente, c’è tutta l’incomprensibile ostinazione del popolo pentastellato (leader incluso) nel cercare qualcuno a cui scaricare il barile senza assumersi un pizzico di responsabilità. Le cause del buco nero esistono e poco hanno a che fare con l’ex capo della Banca centrale europea, trovano invece radici in anni di disorientamento politico e carenza di missioni chiare, peggiorate da un evidente e recentissimo malcontento tra leader e garante. Se neanche Giuseppe Conte arriva a capirlo il futuro della fazione politica da lui capitanata è davvero segnato: da Movimento Cinque Stelle a Movimento Cinque Percento è un attimo.

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