Un altro Ferragosto di Paolo Virzì è la malinconica disamina di un’Italia alla deriva
Vedendo Un altro Ferragosto non si può far altro che ricordare ad un altro film che riannodava storie e memorie del passato, rimorsi e rancori sedimentati nel tempo: ovvero La rivincita di Natale di Pupi Avati, seguito dell’immortale Regalo di Natale. Anche quella pellicola, come questa di Virzì, portava alla ribalta presenze spettrali, intese non come entità ectoplasmatiche, ma come persistenti ombre del tempo che fu. Infatti Un altro Ferragosto è un film di fantasmi, di presenze/assenze, di ricordi evanescenti e voci lontane, anche se indissolubilmente presenti.
Lo si capisce immediatamente, non appena partono i titoli di testa, quando la carrellata a pelo d’acqua, che corre a perdifiato verso la costa di Ventotene, sovrappone alle immagini, le voci ormai perdute dei protagonisti di Ferie d’agosto. E noi non possiamo far altro abbandonarci a quelle voci, e ricordare chi ha proferito quella singola frase, rivedere quei volti, riassaporare quelle sensazioni.
Il ritorno di una lotta di classe mai tramontata
Sembra passata una vita, ed infatti è così. Esattamente 28 anni. Un lasso di tempo che ha lasciato strascichi e cicatrici sui volti e sui corpi dei Molino e dei Mazzalupi, all’epoca di Ferie d’agosto rigidamente divisi da una lotta di classe che rispecchiava la destra e la sinistra di fine anni ’90, l’intellettuale borghese borioso e altezzoso che votava l’Ulivo e il cafone arricchito e fascista che vedeva solo Rete 4 e leggeva solo le istruzioni dei “telefonini”. Una divisione di classe che viene riproposta oggi con maggior enfasi, con ancor maggiore contrapposizione fra gli opposti scranni dello spettro politico.
Ventotto anni dicevamo. Sono cambiati i protagonisti sullo schermo, siamo cambiati noi, è cambiata l’Italia. Una nuova mutazione è avvenuta. Sia antropologica che culturale. L’era dei social impazza e si fanno soldi facili con le dirette e le emoticon. E chi prova a ricordare il passato storico, in particolar modo quello che riguarda gli esuli che provarono a scampare alle camicie nere e all’olio di ricino, sa bene che si tratta di un ricordo che non serve a nulla, che si può solo vagheggiare mentre la morte incombe, di cui si potrà divenire parte attiva solo quando si passerà al di là del guado.
I nuovi sono più brutti, sporchi e cattivi
La morte è onnipresente nel nuovo film di Virzì. È una presenza costante che aleggia in ogni frame, che fa capolino da ogni inquadratura. È un mondo di ombre incastonate fra terra, cielo e mare; una triste ballata di volti, sguardi, pensieri, fotografie, spezzoni presi dal primo capitolo, musiche, ambienti. Tutto rimanda a quanto avvenuto ieri, tutto si sofferma nel ricordo, forse perché il presente fa talmente schifo, è così deprimente che quanto avvenuto prima non ci sembra più un’inospitale terra straniera, ma qualcosa da vagheggiare e riporre nei cassetti di un tempo in cui, forse, si poteva anche essere felici.
Come afferma a chiare note Emanuela Fanelli nel tenero e lessicalmente sdrucito monologo a fine pellicola, “facciamo schifo e meritiamo di morire male, di una morte brutta”. Se Ferie d’agosto, malgrado la visione orripilante e caustica degli anni a cavallo tra Tangentopoli e l’ascesa irrefrenabile del Cavaliere, nella sua chiusura malinconica lasciava trapelare un briciolo di speranza, Un altro Ferragosto ha una chiusura monca, senza repliche, definitiva. Il suicidio di Tiziana Cruciani che sprofonda nelle azzurre acque d’agosto, in cerca di quell’oblio in cui finalmente potrà ricordare i cari estinti e riabbracciare le voci di dentro, più che il sapore di una liberazione ha il gusto amaro della sconfitta.
E anche i nuovi personaggi del film sono più brutti, sporchi e cattivi di quelli del 1996. Ancora più meschini, vere e proprie caricature boschiane, nella loro completa mancanza di empatia verso il prossimo, nella loro mostruosa voglia di apparire, nella lussureggiante cafoneria di cui sono intrisi. Dalla cinica Fanelli al parvenu De Sica (e qui, credo, l’interprete ideale sarebbe stato Massimo Ghini, attore che quando è traghettato dai cinepanettoni alla commedia amara – si veda A casa tutti bene – ha dimostrato di avere più carte da giocare rispetto alla monocromatica tessitura desichiana), passando per il volgarissimo Marchioni, il gelido Carpenzano fino alla stolidità bambinesca di Anna Ferraioli Ravel. Un altro Ferragosto è più bello di Ferie d’agosto? Difficile da dire. Forse una risposta si potrà dare tra qualche anno quando, voltandoci indietro, riusciremmo a capire se Virzì sia stato profeta, se la sua visione sarà stato in grado di cogliere nel segno e di carpire lo spirito di questi tristi tempi.
Un altro ferragosto è andato
Resta il fatto che la pellicola, una delle più belle di questo inizio anno, insieme all’Enea di Castellitto, fa ridere e commuovere, riesce a far vibrare le corde della malinconia e del rimpianto, tratteggia caratteri e psicologie con vivide pennellate, si avvale di uno stuolo di interpreti perfettamente in parte e di una sceneggiatura che alterna toni buffi e agrodolci, nuance dai colori autunnali malgrado il sole ammanti ogni cosa.
Travolta da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, la pellicola di Virzì ci porta per mano a ballare sotto le stelle cadenti di un’Italia che sta letteralmente cadendo a pezzi.