“È finita. Vacanze. Vacanze. Vacanze. Per tre mesi. Come dire sempre”.
Inizia così, con quella nostalgia che accompagna sempre la fine dell’anno scolastico, il più bel romanzo di Niccolò Ammaniti, Ti prendo e ti porto via. Con il protagonista della storia, il dodicenne Piero Moroni, che si appresta a varcare la soglia dell’istituto in attesa che vengano affissi in bacheca i fatidici quadri, per scoprire, facendosi largo fra i rumori e le voci indistinte dei suoi compagni di scuola, di essere stato bocciato. La scuola di Daniele Luchetti inizia ventiquattro ore prima rispetto a questo momento cruciale, focalizzando la sua narrazione nella dimensione temporale degli scrutini, quel lasso di tempo in cui il corpo docente si siede a tavolino e decide il destino di quegli alunni con cui, volenti o nolenti, ha passato insieme l’intero anno.
E tra un appena sufficiente e un ottimo, fra un cinque che diventa sei, e un sei che viene degradato a cinque, ci presenta i protagonisti della storia: gli insegnanti di un istituto tecnico della periferia di una Roma bruciata dal sole dell’estate (il film è stato girato nell’Istituto Superiore Livia Bottardi nel quartiere La Rustica), con le loro paure, i loro dubbi, le loro idiosincrasie, i loro sogni e i loro desideri “umani, troppo umani”.
Regia di Daniele Luchetti
È un film malinconico e amaro, La scuola. Un film che recupera la tradizione della commedia all’italiana (non a caso alla sceneggiatura troviamo Rulli e Petraglia) indagando un mondo a parte, quell’universo delimitato fra quattro mura, fra banchi e lavagne, cancellini e fumo di sigaretta, corridoi e registri, risate e amicizie, primi amori e paura di crescere, in cui tutti abbiamo passato parte della nostra vita.
E a dirigerlo non poteva essere che un autore calato perfettamente nella realtà sociale di quegli anni. Dopo Il portaborse e Arriva la bufera, affreschi dalle vivide pennellate sulla classe politica di una Repubblica fondata sull’inganno e le tangenti, Luchetti (che in seguito ci regalerà anche i bellissimi Mio fratello è figlio unico e La nostra vita) decide infatti di adattare i romanzi di Domenico Starnone Ex Cattedra e Sottobanco, regalandoci una delle visioni più plumbee e pessimiste dell’istituzione scolastica, squassata solo due anni addietro dall’introduzione della Riforma Moratti.
Siamo nel 1995 e la scuola italiana cade letteralmente a pezzi. E qui a cadere in frantumi, oltre al soffitto della biblioteca (specchio evidente dell’incuria amministrativa, emblema di una voragine culturale che i tagli alla ricerca non faranno che allargare) è il corpo docente, osservato con tenera ferocia e caustica amarezza, grazie ad un approccio intimista che sa coglierne smarrimenti e rimpianti. Ed estremo disamoramento nei riguardi del loro lavoro, non più visto come una missione, ma come una condanna: “Io da dodici anni insegno un programma idiota e l’anno prossimo dovrò fare la stessa cosa. È come essere ripetenti tutta la vita”, afferma il vicepreside Fabrizio Bentivoglio, in uno dei ruoli più riusciti della sua carriera.
Un cast perfetto
C’è Silvio Orlando, professore di Italiano e Storia, emulo del John Keating de L’attimo fuggente, che cerca di trovare la poesia negli occhi dei ragazzi, soprattutto in quelli più problematici, difendendoli a spada tratta da un mondo che non saprà accoglierli, ma solo divorarli. C’è la bellissima Anna Galiena, professoressa di matematica, materna e comprensiva. C’è il vicepreside isterico e crudele, che vorrebbe solo spiccare il volo verso una scuola di prestigio, e sfoga la sua rabbia contro i ragazzi. E, ancora, il professore di francese che vorrebbe bocciare tutti (“Tutti che vogliono andare a scuola, beduini che vogliono fare i medici, beduini che vogliono fare i professori. Voi volete un mondo senza beduini.
Qualcuno avrebbe dovuto avvisarmi e io non ci sarei proprio andato a scuola, avrei lasciato perdere e invece nessuno mi ha detto niente e mi hanno fatto prigioniero a sei anni e non mi hanno rilasciato più. E a che pro? In trent’anni di insegnamento avrò avuto tre o quattromila alunni, e ce ne fosse stato uno, dico uno, che abbia fatto carriera. C’è chi è nato per studiare e chi è nato per zappare la terra. In questa classe dovrebbero essere tutti mandati a lavorare nei campi”), quella di inglese fobica e terrorizzata dagli studenti, quello di religione la cui fede è stata smarrita da tempo, se mai c’è stata. Senza dimenticare lo sciatto preside dell’istituto, pozzo di ignoranza senza fondo, di cui rimangono celebri le sue citazioni, dal risolvere la questione “in totem” ad “Elisa Morante”.
Insomma, c’è un mondo di volti, sguardi, pensieri. Di uomini e donne che, forse, hanno dimenticato cosa significhi insegnare: ovvero tracciare qualcosa di duraturo nella mente e nel cuore dei ragazzi, indicare loro una strada da seguire, affinché non si trovino impreparati quando faranno il loro ingresso nel mondo reale, nelle pieghe di un’Italia che, smarriti anche gli ideali politici, fra berlusconismo e crollo delle sinistre, corre zoppicando verso il duemila.
L’ultimo giorno di scuola
E il giorno dello scrutinio questa umanità si ritrova insieme, per l’ultimo volta dell’anno, a parlare del suo operato, a decidere il futuro di chi ha avuto davanti, a cercare di far quadrare un cerchio che non trova quasi mai una quadratura. Chi bocciare? Chi promuovere? Chi comprendere? Chi condannare? Ognuno ha il suo metro di giudizio, ognuno una diversa visione dei fatti, ognuno una prospettiva da cui non vuole deviare. E a farne le spese saranno i ragazzi.
Anche se ne viene bocciato soltanto uno, il famigerato Cardini. Quello che ha perso la madre ed ha il padre in carrozzina. Quello che non viene mai a scuola. Quello che quando viene, disturba. Che l’unica cosa che sa fare bene è “la mosca”. Sì, proprio la mosca: ne imita il volo, il ronzio, lo sfregare delle zampette; cade stecchito a terra se qualcuno finge di spruzzargli il veleno contro gli insetti. Ovviamente, la sua è una richiesta d’aiuto. Lo spiega bene Silvio Orlando al preside in uno degli ultimi passi del film, quando cerca con tutte le sue forze di non fargli perdere l’anno: “La mosca trema, si dibatte, vola per l’aula, urla di paura e dice: È Cardini che ho dentro, cacciatelo via! Sì, perché Cardini non si trasforma nella mosca, ma è una mosca che si trasforma in Cardini e si spaventa. Allora Cardini si rivolge alla sua compagna di banco: Fammi uscire dalla mosca, aiutami. Voglio solo essere amato. Non sono una mosca, guardami…io voglio solo che mi vuoi bene, nient’altro”. Cardini, ovvero l’emblema del fallimento del sistema scolastico, di quell’incapacità di fornire una proposta formativa adeguata e diversificata. Come giustamente è stato definito: una mosca intrappolata in una bottiglia, in una stanza, in una scuola.
Diametralmente opposto il caso di Astariti, il primo della classe. Anche lui, come Cardini, è un outsider, una sorta di UFO, di strana monade. Un ragazzo senza amici e senza sorrisi che così ci viene descritto: “Astariti non è bravo, è un primo della classe. Non ha i capelli tagliati alla mohicana, non si veste come il figlio di uno spacciatore, non si mette le scarpe del fratello che puzzano. È pulito, perfetto. Interrogato si dispone al lato della cattedra senza libri, senza appunti, senza imbrogli. Ripete la lezione senza pause e tutto quello che gli esce di bocca rispecchia pedissequamente tutto quello che è stato fatto in un anno di lavoro. Lui è la dimostrazione vivente che la scuola italiana funziona solo con chi non ne ha bisogno”.
Nostalgia passata
E gli altri? Gli altri sono il mare magnum delle italiche scuole, quell’oceano di adolescenti che passano per il rotto della cuffia, che si arrabattano per arrivare alla sufficienza, o che, se studiano, lo fanno solo perché devono farlo. Ragazzi che dovrebbero trovare nella scuola, e in chi vi insegna, quel quid in più, un qualcosa sui cui fare affidamento, e che naturalmente non trovano. Una scuola sempre più matrigna più che magister, che prima li accoglie e poi li respinge, che mai riesce a coinvolgerli, né li stimola, o li aiuta a crescere intellettualmente ed eticamente. Non è un caso se alla domanda del questionario “descrivi la tua scuola ideale” i ragazzi del film rispondono così: campo da tennis e campo di calcio, piscina con trampolino da tre metri e piattaforma da 10, sala multimediale e museo per le opere d’arte degli studenti, officina attrezzata per la riparazione dei motorini, discoteca e tavernetta, pronto soccorso per le crisi d’astinenza, laboratorio per il test anti aids, camere da letto per fare l’amore, sauna normale e sauna finlandese. E le aule? Le aule non ci sono… non c’è nemmeno la sala professori.
Ambientato quasi interamente nello spazio circoscritto dell’istituto (eccezion fatta per la gita a Verona), scandito temporalmente fra l’oggi degli scrutini e lo ieri in cui si evincono le dinamiche susseguitesi nel corso dell’anno (compreso il tenero amore, mai sbocciato, fra Silvio Orlando e Anna Galiena), interpretato da un cast in stato di grazia, accompagnato da una colonna sonora che alterna Senza Parole di Vasco Rossi alle melodie jazz di Bill Frisell, La Scuola si aggiudicò il David di Donatello come miglior film e, a distanza di ventisette anni, si rivela ancora oggi uno spaccato veritiero ed incontrovertibile della crisi didattico-istituzionale che dagli anni Ottanta in poi si abbatté sulla scuola italiana.
Una crisi che ammanta la pellicole dalla prima all’ultima sequenza. Infatti, alla fine del film, quando tutti se ne sono andati, quando le voci, le risate, le urla, a volte le lacrime, hanno lasciato spazio al silenzio, l’unico rumore che echeggia nei corridoi è il ronzio di una mosca. È la mosca/Cardini che vola all’impazzata tra i corridoi, ancora una volta costretto a comunicare con il vuoto assoluto. Un vuoto che, però, riesce a riempire di senso. Perché almeno lui, a differenza degli insegnanti che mai lo hanno compreso, è capace di volare.