Le acque in fiamme e la fatica della potenza americana impongono un ripensamento della marittimità della penisola in senso autonomo
“L’Italia è per noi un Paese amico, con una grande tradizione marinara e di cultura del mare. […] Ci chiediamo perché abbia deciso di partecipare alla coalizione degli americani e degli inglesi […] È un peccato che abbia abbattuto un nostro drone. Noi ci comporteremo di conseguenza […] Non attacchiamo l’Italia in quanto tale, ma se intralcia la nostra azione non ci lascia altra scelta”. Le dichiarazioni rilasciate alle agenzie italiane un paio di giorni fa da Zayd al-Gharsi, direttore del dipartimento dei media della Presidenza della Repubblica a Sanaa, dovrebbero lasciare perplessi i palazzi del potere romano.
Non tanto perché – come ci si poteva aspettare dopo l’abbattimento ordinato dal capitano di vascello Andrea Quondamatteo, nel basso Mar Rosso, di un drone diretto verso il nostro cacciatorpediniere Caio Duilio lo scorso 2 marzo – la milizia sciita yemenita filoiraniana ha risposto con retorica minacciosa a fine di deterrenza. Ma piuttosto perché, se gli Houthi effettivamente ricollegano l’impegno dell’Italia direttamente a quello di Stati Uniti e Regno Unito, presenti in quelle acque con la missione Prosperity Guardian, vale la pena chiedersi quanto sia servito lo sforzo del governo e del parlamento italiani nel promuovere e nel narrare la natura strettamente “difensiva” dell’operazione militare europea Aspides (“scudo” in greco). La distruzione intervenuta oggi di altri due droni provenienti dalla milizia yemenita “in attuazione del principio di autodifesa”, come comunicato dallo Stato Maggiore della Difesa, ribadisce in ogni caso lo spirito dell’iniziativa assunta da Roma nel teatro di crisi mediorientale.
Cosa si deve sapere sulla missione europea Aspides a guida italiana
La missione europea in questione vede al momento il contributo delle Marine di Francia, Germania, Belgio e Grecia per un totale di quattro navi e un pattugliamento aereo. Alla Caio Duilio si affiancano la fregata tedesca Hessen, la belga Marie-Louise e un cacciatorpediniere francese, oltre a jet di pattugliamento francesi e tedeschi con base a Gibuti. Il comando strategico è affidato al Commodoro greco Vasilios Griparis nel quartier generale di Larissa, mentre quello tattico-operativo alla Marina italiana nella figura del Contrammiraglio italiano Stefano Costantino. Il mandato esclusivamente difensivo comporta che “qualsiasi risposta sarà sempre conseguenza di un attacco e sarà necessaria, proporzionata e limitata allo spazio marittimo o aereo internazionale”.
Ma distaccata non significa autonoma o indipendente. Anche per avvalersi di strutture, capacità e competenze già esistenti e operative in teatro, la missione Aspides è coordinata con la missione europea Atalanta, che mira a combattere la pirateria nell’Oceano Indiano, e si inserisce nella copertura della missione europea Agenor volta a proteggere i flussi marittimi attraverso lo Stretto di Hormuz (che divide la Penisola arabica dalle coste dell’Iran) fino al Golfo Persico. Ma Aspides resta coordinata in qualche modo anche con la missione Prosperity Guardian. Non ci sono dettagli sul tipo di lavoro congiunto fra la missione a guida italiana e quella anglo-americana, ma si può immaginare che comporti anzitutto lo scambio di informazioni di intelligence utili per intercettare droni e missili in arrivo dalle coste dello Yemen. La vaghezza mantenuta sul tema da tutte le cancellerie occidentali è legittima e imperativa per la buona riuscita di operazioni sensibili che si inseriscono – vale la pena ricordarlo – in quella che è forse la più grande sfida navale che gli stessi americani combattono dalla Seconda guerra mondiale. A onor del vero, poi, come ricorda lo storico della navigazione, professore associato alla Campbell University e marinaio, Salvatore Mercogliano, anche la stessa “Prosperity Guardian cerca semplicemente di proteggere la navigazione. Il suo comandante, l’ammiraglio Cooper, è stato chiaro: la postura è difensiva. Reattiva, non proattiva. Cerca di minimizzare il pericolo. Non rimuove la minaccia”. Gli americani infatti si premurano di ribadire che gli attacchi aerei in territorio yemenita, volti a deteriorare le capacità offensive degli Houthi, vanno tenuti distinti dalla missione Prosperity Guardian. In altre parole, nessun occidentale vuole portare la guerra sul mare. La ratio italiana, francese e tedesca di mantenersi ufficialmente fuori dall’ombrello securitario fornito dalla guida della Marina statunitense, del resto, risponde a un’esigenza di narrazione e percezione dovuta alle potenziali ripercussioni e a un cambio di paradigma dettato dalle necessità del tempo. L’esigenza politica è evitare di diventare, agli occhi degli Houthi, nemici a pari grado di USA e Israele, finendo così bersaglio dei loro attacchi.
Lo slogan con cui nasce il movimento della milizia Ansar Allah è “Morte all’America, morte a Israele”. La necessità strategica è quella di prepararsi in maniera indipendente dagli Stati Uniti, prefigurando un principio di strategia autonoma, tanto più di fronte al graduale disimpegno marittimo degli americani dal Mare Nostrum. È di qualche giorno fa la notizia secondo cui la task force da sbarco, con le due portaelicotteri Bataan e Hall della Marina statunitense, avrebbe varcato lo stretto di Gibilterra e starebbe facendo rotta verso casa, ovvero a Norfolk, in California. Al momento non è chiaro se la US Navy intenda inviare un altro gruppo o nave simile nel Mediterraneo, dove la presenza di una portaerei o di un gruppo anfibio è pressoché continua dopo l’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022. Ma la mossa si inserisce nel solco di un’attuale incapacità della potenza militare americana – dopo anni di tagli alle spese della Difesa – di far fronte a più guerre in contemporanea fra Europa e Medio Oriente, soprattutto quando la priorità di Washington resta nelle acque dell’Indo-Pacifico.
L’Italia marittima s’è desta
Ma la nostra Marina non è solo una “scorta” alle navi mercantili e portacontainer o alle grandi task force americane. Di fronte ai repentini sconvolgimenti di teatro e agli automatici riflessi in acqua che la guerra in Ucraina col Mar Nero e quella in Medio Oriente col Mar Rosso hanno palesato, la nostra Marina si sta corazzando per rispondere al principio della prontezza operativa, con un focus speciale sulla dimensione “subacquea” del mare. Nave Trieste, ovvero la più grande nave da guerra italiana costruita dalla cantieristica militare italiana dopo le corazzate classe Littorio dalla Seconda guerra mondiale, avrà il suo battesimo del mare questa primavera. Si tratta di una fra le navi più grandi e più tecnologicamente avanzate nel suo genere in tutto il mondo: una portaerei e una portaelicotteri in grado di svolgere il compito di nave d’assalto anfibia e di trasportare veicoli e truppe in località remote. Di più. Stiamo aumentando la linea delle Fregate Europee Multi Missione (FREMM) e il numero dei pattugliatori d’altura e dei sottomarini di ultima generazione, con l’obiettivo di coprire uno spettro sempre più ampio di circostanze sopra e sotto il livello del mare, a partire dalla difesa dei cavi sottomarini. Purtroppo, permane un grande problema di munizionamento: è recente la dichiarazione, poi smentita (perché certe cose non s’hanno da dire), del ministro della Difesa Guido Crosetto sullo scarsissimo numero di missili in dotazione alle nostre navi: solo 63. Peggio. Alcuni sistemi, anche molto costosi, sono disponibili in numero così limitato che con due guerre in corso (in cui siamo coinvolti) siamo costretti a scegliere.
Il sistema di difesa terra-aria Samp/T, frutto di un progetto italo-francese, e che è stato fornito all’Ucraina per difendersi dagli attacchi russi, spara i missili Aster 30, ovvero gli stessi utilizzati dalle fregate italiane e che ci sarebbero serviti per creare scudi difensivi nel Mar Rosso. Non essendo più disponibili, nel Mar Rosso abbiamo dovuto inviare una nave più vetusta, come il cacciatorpediniere Caio Duilio, e non una FREMM. Non che i nostri alleati se la passino meglio: a febbraio, sempre Crosetto ha affermato che nel corso degli attacchi condotti dalle unità navali americane contro la milizia yemenita è già stata utilizzata l’intera produzione annuale dei missili da crociera Tomahawk. Le sfide della Marina italiana sono diverse, continue e iniziano dai mari di casa: ci sono le navi e i sommergibili russi nel Mediterraneo e c’è il rischio continuo di sabotaggio alle infrastrutture critiche sottomarine che trasportano dati ed energia. La vera questione resta la volontà dell’opinione pubblica e della leadership politica di abbandonare una mentalità e una cultura strategica “imbelle” che non ci permette di assimilare i princìpi di un interesse nazionale declinato sui mari che la Marina, di per sé, avrebbe già ben chiaro. Col rischio che il timore e la pigrizia ci inducano all’inganno, suggerendoci finte soluzioni alternative volte alla persistente deresponsabilizzazione, come la Difesa europea – un concetto che verrà necessariamente mediato, quindi indebolito, dalle sensibilità di Paesi, ad esempio, non mediterranei – rischia di rivelarsi.