Oltre 60 pellicole tratte dai suoi romanzi, tra grande schermo e televisione. Una produzione sterminata che ha visto alternarsi dietro la macchina da presa grandi registi e oscuri carneadi, attori da oscar e illustri sconosciuti, sceneggiatori pluripremiati e scribacchini. A pochi mesi dall’uscita dell’ultimo, bellissimo, romanzo di King (Billy Summers), abbiamo deciso di stilare la nostra personale classifica dei dieci migliori adattamenti dalle opere di King, cui seguiranno i dieci peggiori. Una top ten che, per forza di cose, potrà risultare parziale, avendo escluso alcune pellicole di sicuro valore (vedi il Carrie di Brian de Palma, La metà oscura di George A. Romero, Le ali della libertà di Frank Darabont), ma che ha voluto essere comunque la più obiettiva possibile e la più oggettivamente inattaccabile.
Shining (The Shining), 1980, Stanley Kubrick
Le montagne del Colorado sferzate dalla neve, completamente tagliate fuori dal resto del mondo. Il cannibalismo della spedizione Donner. L’Overlook Hotel: infinito, infestato, saturo di spettri. Le sue stanze e i suoi corridoi, le sue hall gigantesche e le sue cucine immense. Danny che corre col triciclo. Le bambine. “Vieni a giocare con noi, per sempre, per sempre, per sempre…”. La luccicanza. Jack Nicholson alla macchina da scrivere. Jack Nicholson e la fedele ascia. Jack Nicholson e l’immortale “Wendy… sono a casa, tesoro”. Il sangue che invade ogni cosa, irrora lo spazio, lo inonda letteralmente. Lo sguardo spiritato di Shelley Duvall. Il Dies Irae di Berlioz in colonna sonora.
Inutile girarci sopra: il più bel film della storia del cinema horror e il miglior adattamento da un romanzo di King. Anche se lui lo ha sempre detestato e gli preferisce quella caccola diretta per la televisione nel 1997 da Mick Garris (colpevole di aver girato anche I sonnambuli, L’ombra dello scorpione e Riding the Bullet).
Cimitero vivente (Pet Sematary), 1989, Mary Lambert
C’è un terreno, appartenuto agli indiani MicMac, che ha la capacità di far tornare in vita chi vi viene seppellito. Ma i “revenants” che tornano a bussare alla porta di casa sono un po’ diversi da come ce li ricordavamo. Ma se a morire fosse nostro figlio, non faremmo carte false per averlo ancora con noi? Da uno dei romanzi più inquietanti, paurosi e dolorosi di King, un vertiginoso horror diretto con mano ferma dalla regista di Siesta. Un pugno allo stomaco dello spettatore, anche perché sferrato in un momento in cui il genere stava iniziando ad attraversare la sua maggiore flessione in termini visivi e contenutistici.
Il piccolo Cage, zombi in miniatura, armato di bisturi e voce infantile distorta è un’immagine che non si dimentica. Ma è tutta la pellicola a possedere un’aura sinistra che resta nella memoria e persiste nel tempo. Con seguito (pessimo), sempre diretto dalla Lambert, e un remake del tutto trascurabile.
Misery non deve morire (Misery), 1990, Rob Reiner
Sei uno scrittore di successo. I fan ti idolatrano. Qualcuno sa a memoria i passi dei tuoi romanzi. Altri vivono in attesa della tua nuova uscita editoriale. Tutto molto bello. Ma se fai un incidente di macchina, non puoi più camminare, e a prendersi cura di te è proprio la tua ammiratrice numero 1, le cose cambiano. Soprattutto se quest’ultima è completamente pazza, oltre che pluriomicida.
Incubo kafkiano, girato praticamente tutto in interni, sorretto dalle magistrali interpretazioni di James Caan (tutta in sottrazione) e Kathy Bates (quest’ultima premiata con l’Oscar ed inserita dall’American Film Institute al 17º posto nella classifica dei 50 migliori “cattivi” del cinema star and stripes) che, infagottata in vestaglie bisunte e pantofole sformate, sguardo suino e improvvise esplosioni di collera, dà vita ad una psicopatica indimenticabile.
Cinema mainstream allo stato puro che perde forse un po’ della malvagia ferocia della pagina scritta (anche se la martellata ai piedi di Caan è da salto sulla poltrona) ma dalla classe sopraffina, aiutato da una sceneggiatura ad orologeria (William Goldman) e diretto da un regista che fece il bello e cattivo tempo nella Hollywood di fine ’80 – inizio ’90 (Harry ti presento Sally, Codice d’onore).
The Mist (id.), 2007, Frank Darabont
Cala la nebbia e la città si popola di mostri lovecraftiani, fuoriusciti dalle profondità più abissali della terra. Ad un manipolo di persone (simbolo dell’intera umanità) non resta che trovare rifugio all’interno di un supermercato. Solo che la cattività può generare mostri ancora peggiori di quelli che si trovano all’esterno.
Contenuta nella raccolta Scheletri (Skeleton Crew), splendida trasposizione di una short story di grande fascino e ambiguità. Paura dell’altro, paranoia, delirio religioso (da applausi la Marcia Gay Harden invasata, tipica esponente della bible belt statunitense), effetti speciali raccapriccianti al punto giusto, finale assolutamente non consolatorio e beffardo.
Cinema horror di qualità, di quelli che si facevano una volta, diretto dal Frank Darabont che in passato si era già cimentato con King, con esiti buoni (Le ali della libertà) e meno buoni (Il miglio verde).
L’ultima eclissi (Dolores Claiborne), 1995, Taylor Hackford
Grande adattamento di uno dei romanzi più sottovalutati dello scrittore del Maine, tutto incentrato sul tema della colpa, della redenzione, del perdono, del rapporto genitori-figli. La domestica Dolores Claiborne ha veramente ucciso Vera Donovan, la facoltosa signora per cui lavora? Tutti gli indizi gridano alla colpevolezza, tanto più che in passato la donna è stata accusata di aver fatto fuori anche il manesco marito. Spetterà alla figlia, giornalista d’assalto, tornare nel paesello natale e fare luce su un mistero che ha i colori plumbei di un’eclissi.
Il Taylor Hackford di Ufficiale e gentiluomo e L’avvocato del diavolo dirige con classicità stilistica una storia sofferta e disperata, un robusto legal thriller in cui si innestano, nervosamente e istericamente, i fantasmi di un passato costellato di soprusi e violenze domestiche.
Sorretto ancora una volta (vedi Misery) dalla magistrale performance della Bates (ma non si può dimenticare anche l’apporto di Cristopher Plummer, mentre meno centrata appare la prova di Jennifer Jason Leigh) un film assolutamente da riscoprire e che sembra uscito dritto dritto dalla New Hollywood degli anni ’70.
Stand by Me – Ricordo di un’estate (Stand by Me), 1986, Rob Reiner
The Body: questo il titolo originale. Si tratta del cadavere di un ragazzino in cui si sono imbattuti alcuni giovani di Castle Rock durante il furto di una macchina e di cui non hanno denunciato il ritrovamento alla polizia per non passare guai. Ed è proprio alla ricerca di questo corpo che si muovono i quattro adolescenti protagonisti di Stand by Me. Diametralmente opposti, sia fisicamente che psicologicamente, vivranno un’avventura on the road sulle note di Buddy Holly, Jerry Lee Lewis, Ben E. King, Chordettes, combatteranno le loro paure e affronteranno, forse senza saperlo, il loro comin’of age.
Il Maine, l’estate, tutta la malinconia di un tramonto che avanza e di una giornata che finisce, tutta l’incommensurabile bellezza dell’adolescenza, tutto l’orrore esistenziale che essa può nascondere. Da uno dei romanzi più profondi, sinceri e commoventi di King, una pellicola ricca di spleen e tenerezza, disillusione e sogni infranti. Bravo Reiner alla regia, ma se il film è per molti un tuffo al cuore lo si deve al poker di moschettieri davanti la mdp: Will Wheaton, River Phoenix, Corey Feldman, Jerry O’Connell. Uno più bravo dell’altro ad incarnare tutta l’insostenibile leggerezza della tenera età.
Doctor Sleep (id.), 2019, Mike Flanagan
Da uno dei registi horror più interessanti del momento (splendido Oculus – Il riflesso del male, e notevoli anche Il gioco di Gerald, sempre da King, e Il terrore del silenzio), uno dei sequel più riusciti di sempre, tenendo anche conto dell’immortale capostipite.
Danny Torrance (interpretato con sofferta immedesimazione da Ewan McGregor) torna sul luogo del delitto, all’interno di quell’Overlook Hotel dove suo padre perse la vita (e la ragione). Un ritorno nell’incubo per salvare una ragazza che come lui (più di lui) ha il dono della luccicanza e che è stata presa di mira da un gruppo di zingari/vampiri/ di mansoniana memoria che si nutrono proprio di questo potere/condanna.
Un film che gioca con la cinefilia e la memoria, con il tema del rimorso e del rimosso, della solitudine e della paura. Senza tradire la pagina kinghiana, Flanagan compie un viaggio a ritroso, indaga il presente affacciandosi sul passato, scoperchia i vasi di pandora sepolti nelle tenebre della psiche e ci regala un film pauroso e commovente allo stesso tempo.
E quando le porte dell’Overlook si spalancano per la seconda volta, dando vita ad una nuova, splendida festa di morte, la pelle si accappona e le lacrime dello spettatore iniziano a scendere.
Creepshow (id.), 1982, George A. Romero
L’unica delle pellicole fin qui prese in esame a non essere tratta da un romanzo di King, ma così pregna di umori kinghiani che sarebbe un delitto dimenticare.
Il film, diretto dal papà degli zombi e scritta dallo stesso King, è una scatenata cavalcata nell’universo dei fumetti horror della EC Comics, frutto proibito per tutti gli adolescenti made in Usa degli anni ’50, di cui gli autori furono assidui lettori e da cui King ha attinto a piene mani per forgiare la sua poetica.
Cinque short stories, a cui si aggiunge un prologo ed un epilogo, che prendono di petto, immersi in colori pop e inquadrature sotto LSD, spauracchi e orchi della cultura horror: morti che risorgono dalla tomba per vendicarsi, creature mostruose nascoste in antichissime casse, strani esseri caduti dallo spazio, schifosissime blatte carnivore. Un tripudio di gore fumettistico e di umorismo macabro che all’epoca deliziò gli amanti del genere e mandò in brodo di giuggiole la critica giovanilistica.
Grandi FX del mago Tom Savini, locandina italiana disegnata da Renato Casaro da incorniciare e appendere al Louvre. Con un mediocre seguito nel 1987 e un orripilante terzo episodio direct-to-video nel 2007.
La zona morta (The Dead Zone), 1983, David Cronenberg
A volte finire in coma è l’ultimo dei tuoi problemi. Ti potresti infatti svegliare e scoprire di possedere uno strano potere: predire il futuro delle persone con cui si stabilisce un contatto fisico. E le cose si metterebbero ancora peggio se venissi a sapere che il nuovo candidato al Senato degli USA entro qualche anno diventerà presidente e scatenerà un conflitto nucleare su scala mondiale. E, ovviamente, nessuno crederà al tuo grido d’allarme…
Da uno dei romanzi più politici di King, un’amara parabola sui meccanismi del potere USA, sulla manipolazione dei media e sulla paura millenaristica di una guerra totale. Diretto da uno dei registi più profetici e dei nostri anni (Videodrome), poeta della “nuova carne” (Existenz) e cantore della deformazione corporea (Crash) e mentale (Il pasto nudo), il film si regge tutto sull’interpretazione scarnificata e malata di un Cristopher Walken da Oscar. Prodotto da Dino de Laurentiis, purtroppo, fu un clamoroso fiasco commerciale.
The Night Flier (id.), 1997, Mark Pavia
Tratto da un breve racconto inserito nella raccolta Incubi e deliri, ecco il classico film a cui non daresti due lire e invece è capace di far alzare più di un sopracciglio. Un giornalista di nera sulle tracce di un serial killer dal modus operandi vampiresco (dissangua le sue vittime), che girovaga nell’entroterra americano a bordo di un velivolo skymaster. Presto il reporter scoprirà che il killer di vampiresco non ha solo il modo di agire.
Un B movie con i controfiocchi, uscito alla chetichella nell’estate del ’97, e praticamente passato inosservato. Un vero peccato perché si tratta un gioiellino macabro, teso come una corda di violino, discretamente pauroso, violento al punto giusto e assolutamente non consolatorio. E il killer, mantello nero di draculiana memoria, volto mostruoso e zanne affilate, è uno dei più inquietanti babau apparsi sullo schermo alla fine degli anni ’90.
Dirige Mark Pavia (chi?) che dimostra una padronanza del mezzo e un senso della suspense da far invidia a tanti altri colleghi più blasonati.
(to be continued)