Le radici della dezinformacija russa

Cosa hanno in comune Bucha e Katyn, l’incrociatore Moskva e il sottomarino Kursk? Niente e forse tutto: un “comandante”, Vladimir Putin, che oggi non si inginocchierebbe nella cittadina ucraina di Bucha come fece a Katyn nel 2010 per ricordare il massacro del 1940 dove morirono oltre 20.000 polacchi. Un ordine di uccidere arrivato direttamente da Yosef Stalin che mandò i prigionieri di guerra dei campi di Kozielsk, Starobielsk e Ostashkov, e i detenuti delle prigioni della Bielorussia e Ucraina occidentali, proprio nella foresta di Katyn e nelle prigioni di Kalinin (come allora si chiamava Tver’, in onore del primo presidente dell’Urss), Kharkov e di altre città sovietiche.

«I crimini del regime staliniano non possono essere giustificati anche se sarebbe sbagliato attribuire al popolo russo il massacro avvenuto nella foresta di Katyn». A parlare da uno dei luoghi simbolo degli orrori della Seconda Guerra Mondiale è proprio Vladimir Putin, allora primo ministro, durante una cerimonia organizzata per il settantesimo anniversario dell’eccidio nell’aprile del 2010. Una negazione lunga decenni: dal 1943, anno della scoperta del massacro da parte delle truppe naziste, fino al 1990 quando fu Mikhail Gorbaciov a riconoscere per la prima volta le responsabilità sovietiche e i crimini staliniani.

«Per anni si è cercato di coprire la verità con ciniche bugie – aveva dichiarato Putin prima di inginocchiarsi davanti al memoriale delle vittime al fianco dell’allora premier polacco Donald Tusk – Questi crimini non possono essere giustificati in alcun modo. Il nostro Paese ha dato una chiara valutazione legale e morale delle atrocità del regime totalitario. Una valutazione che non è soggetta a revisionismi».

Un’ammissione che non ha mai chiuso la ferita polacca, per gli orrori, per le accuse di Mosca nei confronti della Germania di essere responsabile della strage, e poi per quella che al tempo di Stalin veniva già chiamata dezinformacija (disinformazione in russo) fatta di silenzi, negazioni, e tre parole difficili da pronunciare, “crimini di guerra” – tra il 1991 e il 2004, la magistratura russa ha condotto un’indagine per accertare le responsabilità, chiudendola senza spiegazioni.

Fino a cancellare, nel 2020, la memoria del massacro rimuovendo 2 targhe commemorative a Tver’, cittadina a metà strada tra Mosca e San Pietroburgo, sistemate sulla facciata di un vecchio palazzo della polizia segreta nel 1991 e che oggi ospita la facoltà di medicina dell’Università di Tver’. Le dediche erano per ricordare la memoria dei torturati nella prigione del Nkvd, il Commissariato del popolo per gli affari interni dell’Urss, prima di essere uccisi o mandati in uno dei campi del Gulag; ma anche per non dimenticare gli oltre 6.000 soldati polacchi che, secondo le ricostruzioni degli storici, erano stati portati dal vicino campo di internamento di Ostashkov, giustiziati durante la notte e seppelliti in un bosco a 30 km dalla città, nei pressi del villaggio Mednoje. Un falso storico, quindi, e il ritorno della tesi nota come la “menzogna di Katyn”, senza che nessun crimine di guerra sia mai stato commesso.

Bucha come Katyn

Quello che oggi, nel 2022, Kyiv e gli ucraini chiedono a gran voce alla comunità internazionale dopo la scoperta dei cadaveri per le strade di Bucha, cittadina alle porte della capitale liberata dai russi a fine marzo, a poco più di un mese dall’inizio della guerra in Ucraina. Fosse comuni, corpi di civili abbandonati in strada ed un’unica posizione da parte del Cremlino: le immagini di Bucha non sono reali, non è stata compiuta nessuna strage, i cadaveri sono solo dei manichini lasciati di proposito per le strade di Bucha dagli stessi ucraini per impietosire il mondo.

«Le notizie su Bucha sono false – ha detto il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin citato dalla Tass – come quelle sulle armi chimiche in Siria». Una messinscena, come l’ha definita Sergey Lavrov, Ministro degli Esteri di Mosca, smentito all’inizio di aprile da un’inchiesta del New York Times: attraverso immagini satellitari e l’analisi di video girati dopo la riconquista ucraina della cittadina, è stato possibile stabilire che le vittime sono state uccise e abbandonate ai bordi della strada già 3 settimane prima della ritirata dei militari di Mosca.

Eppure, il Cremlino non ha esitato a sfiduciare una qualunque indagine che verrà avviata dall’Onu e una (dis)informazione che ormai fa acqua da tutte le parti.

L’affondamento dell’incrociatore Moskva

Anche se qualcuno, adesso, comincia a non credere solo alla macchina di stato, facendo domande e pretendendo risposte. «Non ci sono vittime, i motivi dell’emergenza devono ancora essere stabiliti», si sente al telegiornale del Pervyj Kanal (Primo Canale) della tv di Stato russa. Sono appena passati alcuni giorni dallo strano incendio a bordo dell’incrociatore Moskva affondato nel Mar Nero a metà aprile ma nella capitale russa sembra non si conoscano ancora le dinamiche. Un fiore all’occhiello della flotta russa, la sua terza nave più grande in servizio dall’inizio degli anni Ottanta, e 2 versioni diverse sulla sua fine. Da una parte quella Ucraina che afferma di aver colpito l’unità navale con missili Neptune, dall’altra quella della Russia, secondo cui il Moskva è andato a picco a causa dell’esplosione di un suo deposito di munizioni durante una tempesta. Ma anche di un incendio di natura imprecisata che avrebbe fatto detonare l’arsenale facendo perdere stabilità alla nave senza riuscire a recuperarla.

Nessun morto registrato tra i circa 500 membri dell’equipaggio e nessuna risposta dopo le testimonianze dei parenti dei marinai dispersi, tantomeno un rapporto ufficiale della Marina Militare russa o dal Ministero della Difesa sull’affondamento della nave. Un mistero quindi e un’inchiesta aperta dai russi per fare luce sull’accaduto. La stessa che chiedono i familiari dei marinai, tra le denunce delle decine di morti avvenute a bordo e quelle dei dispersi, non ancora del tutto quantificati. Anche se tra le poche comunicazioni dei primi giorni sull’affondamento del Moskva da parte del Ministero della Difesa russo, c’è solo la pronta evacuazione dell’equipaggio. 

Il disastro del sottomarino Kursk, dopo 20 anni ancora nessuna risposta

Quello che non accadde nell’agosto del 2000 quando a morire furono tutti i 118 membri a bordo del sottomarino russo K-141 Kursk, affondato nel Mare di Barents, a nord della Russia, a causa di 2 esplosioni durante un’esercitazione militare. Una tragedia, quella dell’incrociatore Moskva, che ha riportato alla memoria quella avvenuta a circa 150 km dalla base di Severomorsk, in Russia, 22 anni fa. All’epoca, salito da poco alla presidenza, Vladimir Putin incontrò le famiglie dei 118 marinai nella base della Marina di Vidyayevo a 10 giorni dalla strage. Tra la rabbia delle madri, le critiche nei confronti del Presidente erano tutte per i ritardi nei soccorsi e la mancanza di spiegazioni. Anche in quell’occasione, il governo russo non diede subito notizia dell’incidente ma solo a 2 giorni dall’esplosione, senza mai parlare delle dinamiche precise. Il 21 agosto, dopo 9 giorni, Mikhail Motsak, comandante della Flotta Nord della Marina Militare russa, comunicò che a bordo del Kursk non c’era nessun sopravvissuto. A differenza della Moskva, il sottomarino a propulsione nucleare era entrato in servizio nel 1995 ed era in grado di trasportare e lanciare missili a testata nucleare. Nell’inchiesta conclusa nel giugno del 2022, il procuratore generale Vladimir Ustinov diede la colpa a un siluro difettoso. Senza nessun responsabile e decine di domande ancora senza risposta.

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