Gli allevamenti intensivi rappresentano la prima causa del riscaldamento globale. Oltre a privare gli animali della loro dignità
Di cosa ci stiamo occupando? Anzi, di cosa non ci stiamo occupando? Perché anche le grandi associazioni ambientaliste schivano l’argomento? Interessi economici, sviluppo alimentare, maltrattamento degli animali, annientamento del pianeta: è arrivato il momento di dire basta. O, quantomeno, di interrogarci e cercare di capire meglio la questione. La zootecnica, scienza che studia la riproduzione e l’evoluzione genetica degli animali d’allevamento utili all’uomo, allo scopo di selezionare specie e razze sempre migliori e più produttive, è la prima causa di devastazione per la terra, l’acqua e l’aria.
Oggi, fortunatamente, una nuova consapevolezza globale pone alla coscienza del consumatore anche la questione animale, in merito al loro benessere e alla copertura dei fabbisogni alimentari nel mondo. L’obiettivo, purtroppo non per tutti, sarebbe quello di intraprendere una dieta più sana, mettere fine alla fame nel mondo, salvare la Terra e dare dignità agli animali. Detto così, è un concetto bellissimo e nemmeno troppo difficile da attuare. Dietro, invece, ci sono una serie di complicazioni che nessuno ha intenzione di affrontare. Partiamo con ordine: l’allevamento di bestiame a rendimento elevato viene considerato una delle cause principali, ad esempio, del riscaldamento globale, per le emissioni e la deforestazione.
Gli allevamenti intensivi in Italia, ma anche nel mondo, sono tra le maggiori minacce dell’inquinamento particolato. Infatti, contaminano l’aria più delle emissioni degli autoveicoli. Secondo uno studio pubblicato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione (FAO), l’allevamento bovino americano è tra i maggiori responsabili dell’inquinamento atmosferico. L’allevamento intensivo contamina la terra, le acque dolci e i mari attraverso sostanze tossiche mortali e la presenza considerevole di azoto e fosforo nell’acqua e nell’aria provoca carenza di ossigeno e uccide gli ecosistemi. Un disastro.
Gli animali, infatti, producono ogni giorno grandi quantità di liquami ricchi di azoto, fosforo e antibiotici. Va precisato che il concime naturale, derivante dai processi digestivi degli animali, è utile a reintegrare il suolo delle sue sostanze nutritive. Però, il modello di allevamento intensivo rende le reiezioni animali eccessivamente elevate rispetto a ciò che sarebbe necessario e sufficiente. I rifiuti, circoscritti a spazi limitati, non vengono gestiti e reimpiegati correttamente. Il loro accumulo libera ammoniaca nell’aria che, combinata ad altre componenti, genera polveri sottili. Un altro disastro.
Perché le associazioni ambientaliste non ne parlano?
La domanda è legittima e la risposta è sicuramente banale. Non ne parlano per questioni economiche, industriali, personali. Combattono per l’ambiente, o almeno così dicono, e poi non affrontano il tema. E parliamo di grandissime associazioni, sicuramente le più famose che ogni giorno troviamo su qualche giornale. Sul tema, e non solo, vi consigliamo un documentario molto bello e dettagliato che si trova su Netflix: Cowspiracy. La storia viene raccontata in prima persona dal regista, Kip Andersen.
Dopo un inizio basato su un percorso di attivismo compulsivo, atto a ridurre la sua impronta ecologica (docce brevissime, solo bicicletta, riciclo e raccolta differenziata), viene folgorato da un post su Facebook: un rapporto della FAO del 2006 in cui si collega ufficialmente per la prima volta l’allevamento intensivo al riscaldamento climatico con dati e numeri dell’emergenza eco-alimentare. In pochi secondi Kip realizza che mangiare un solo hamburger equivale a usare l’acqua necessaria per due mesi di docce.
Da qui parte una ricerca – personale e giornalistica – alla scoperta del lato più oscuro della nostra vita: l’alimentazione e ciò che questa comporta a livello ambientale. Che si tratti, ovviamente, di carne rossa, pollo, pesce o latticini la situazione non cambia. Insomma, di fronte alla folgorazione dell’impatto devastante delle nostre diete sul mondo, la domanda che il regista si pone – e che diventa il filo conduttore del film – è: perché le organizzazioni ambientaliste che combattono contro il cambiamento climatico e per la salvaguardia degli habitat naturali non toccano mai questo argomento?
Detto più esplicitamente: perché non chiedono alle persone non solo di usare meno plastica o andare in bici, ma anche di smettere di mangiare carne o pesce? «Penso sia una battaglia persa a livello politico – ha risposto Michael Pollan (autore di alcuni libri-inchiesta sul cibo) – molte di queste organizzazioni sono associative. Vogliono massimizzare il numero di persone coinvolte nei loro progetti e se venissero identificati come “anti-carne”, sfidando quindi qualcosa di molto caro alle persone, avrebbero problemi con la raccolta fondi». Ecco qui, dunque, questioni economiche.
Animal Equality, l’unica organizzazione dalla parte degli animali
Migliaia di volontari in giro per il mondo, tantissime persone che si sono unite a questa splendida realtà: dalla parte degli animali sfruttati, privati della loro dignità e costretti a vivere in condizioni inimmaginabili. Animal Equality nasce nel 2006 e da quel momento in poi ha affrontato tantissime battaglie e portato avanti inchieste che altri (gli ambientalisti) non avevano mai approfondito. Una squadra internazionale, tre uffici in tre diversi continenti e tanta voglia di fare. Le loro battaglie hanno fatto rumore e qualcosa fortunatamente sta cambiando.
Come, ad esempio, lo stop del foie gras, prodotto considerato di lusso che si ottiene alimentando forzatamente anatre e oche. Ogni giorno questi animali vengono spinti a ingerire dai 200 ai 400 grammi di mangime. Tale pratica avviene attraverso l’uso di un tubo di metallo di 20-30 centimetri, che viene infilato in fondo alla gola delle oche o delle anatre contro la loro volontà. Animal Equality sta chiedendo al governo italiano di sostenere la fine all’alimentazione forzata nella produzione in tutta l’Unione Europea. Ma non solo: è in corso una petizione per evitare la macellazione dei cavalli per il consumo umano, una pratica crudele che le organizzazioni denunciano da decenni.
Animal Equality in passato ha investigato sulla questione in Spagna, come anche in Italia e Messico, mostrando che gli animali venivano spesso uccisi mentre erano ancora coscienti, causando loro sofferenze inutili e ingiustificabili. Battaglie e successi straordinari, come il divieto di abbattimento dei pulcini maschi in Italia entro il 2026. Il 7 settembre 2023 il governo ha approvato il decreto attuativo per rendere effettiva la legge grazie alla quale circa 35 milioni di pulcini verranno risparmiati dalla triturazione a poche ore dalla schiusa: un altro grande traguardo, raggiunto dopo anni di campagna, sempre da Animal Equality.
E poi c’è lo scontro sulle gabbie, il team sta continuando a lavorare incessantemente affinché gli animali non vengano allevati in condizioni disumane. Più di 110mila persone hanno firmato e chiesto al governo di schierarsi contro questa pratica. I risultati sono sorprendenti e all’ordine del giorno: Animal Equality è una realtà fantastica, con delle idee giuste, portata avanti con passione e voglia di cambiare le cose. Il loro canale YouTube, interessantissimo per gli amanti della questione, conta quasi 40mila iscritti.
Dalla parte della zootecnica?
La questione è complicata, eliminare gli allevamenti intensivi sarebbe la soluzione più logica ed emotivamente appagante. In molti però non rinunciano alla carne, alcuni non possono per questioni di salute, ma amano comunque gli animali. È un paradosso? Forse, giudicare è complicato, quasi impossibile.
Cecilia Capucci, consulente per aziende agricole, propone una sorta di guida al compromesso: «La zootecnica può essere sicuramente un problema per l’ambiente, ma è irrealistico pensare che l’intera popolazione si converta al vegetarianesimo/veganesimo. Bisogna pensare a soluzioni alternative. Alcune ci sono, ma i consumatori non ne sono in toto consapevoli. Esistono normative europee, e ancor più stringenti nazionali, che impongono alti standard per il benessere animale offrendo incentivi affinché le aziende si convertano. Ecco, aumentare gli aiuti europei e italiani in modo che tutte le aziende entrino in un circolo virtuoso, premiare le aziende che si adeguano e rendere i consumatori informati può essere un primo passo. Consentirebbe una riduzione dei costi di tutta la filiera ed i consumatori in fondo sarebbero incentivati ad acquistare da questi allevamenti senza dover optare per prodotti da filiere non regolamentate perché costano meno».