Vizi e virtù del Piano Mattei per l’Africa

Roma torna nel Continente Nero per fermare l’immigrazione e accaparrarsene l’energia. Il tentativo di un nuovo paradigma è necessario, ma la strategia è vaga e già rischiosa

Il Piano Mattei nasce per occuparsi di due necessità strategiche per l’Italia divenute sempre più urgenti negli ultimi anni: trattenere l’ondata di migranti in arrivo dalle coste nordafricane con l’obiettivo di combattere alla radice le cause dell’immigrazione verso il vecchio Continente e trovare un’alternativa stabile al gas russo con la prospettiva di trasformare l’Italia nello snodo “naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa”.

Il Piano Mattei per l'immigrazione
Il Presidente dell’Unione Africana Azali Assoumani e il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni al vertice internazionale “Italia-Africa. Un ponte per una crescita comune” – (foto LaPresse) ilMillimetro.it

L’impellenza del primo obiettivo sorge dall’aumento del numero di migranti arrivati nel Bel Paese, salito nel 2023 del 50% rispetto all’anno precedente: oltre 155mila le persone sbarcate sulle nostre coste, tra cui 17 mila minori non accompagnati.

Sarà davvero un nuovo approccio?

L’incombenza del secondo obiettivo, invece, nasce dal bisogno, italiano ed europeo, di aggirare il taglio delle importazioni di gas alla Russia a seguito della guerra in Ucraina. L’idea fondante di questo progetto è cambiare il paradigma alla base della cooperazione fra Italia (e potenzialmente degli altri paesi europei) e Africa.

Un altro argomento rappresenta il tipo di rapporto da instaurare con la Russia
Il presidente russo Vladimir Putin visita l’impianto di lavorazione del gas dell’Amur di Gazprom, vicino alla città di Svobodny – (foto LaPresse) – ilMillimetro.it

Da una logica puramente predatoria ed estrattiva, tipica dell’Occidente europeo corso ad accaparrarsi le risorse del Continente Nero con spirito neocolonialista, a un approccio paritario e solidale volto ad assicurare “mutui benefici” per entrambe le coste del Mediterraneo. Il Piano per ora prevede una cabina di regia che fa capo a Palazzo Chigi e alla Farnesina e un investimento di 5,5 miliardi di euro spalmati su almeno 5 anni tra crediti, operazioni a dono e garanzie (3 provenienti dal fondo italiano per il clima che fa capo al ministero dell’Ambiente, e 2,5 dal fondo per la cooperazione allo sviluppo). Cinque sono le aree chiave di intervento: l’istruzione e la formazione professionale, l’energia, l’agricoltura, la sicurezza idrica e la salute. I progetti-pilota individuati finora riguardano Stati come il Marocco per un centro di formazione professionale sull’energia rinnovabile, la Tunisia per la riqualificazione infrastrutturale delle scuole, la formazione e l’aggiornamento dei docenti, l’Algeria per un progetto di monitoraggio satellitare dell’agricoltura, il Mozambico per un centro agroalimentare che valorizzi le eccellenze e le esportazioni dei prodotti locali, l’Egitto per investimenti sull’aumento della produzione di cereali e nuove tecnologie di coltivazione, la Repubblica del Congo per la costruzione di pozzi e reti di distribuzione idrica a fini agricoli, l’Etiopia per il recupero ambientale e il risanamento delle acque. E ancora Kenya, Costa d’Avorio e altri da definire in base a un principio di libera scelta del partner. Saranno dunque i paesi africani a decidere se e in che forma partecipare, negoziando con Roma e Bruxelles. La scommessa del presidente del Consiglio Giorgia Meloni è lodevole, ma rischia l’ipocrisia. Secondo Roma, un’Africa economicamente forte dovrebbe bloccare sul nascere le partenze dei migranti verso l’Europa e nel frattempo, facendo leva sui fondi stanziati, l’Italia dovrebbe ottenere una corsia preferenziale per continuare a sfruttare le risorse energetiche e minerarie del ricco continente.

Un intento, quest’ultimo, già in contraddizione con l’abbandono di quella logica estrattiva, ma soprattutto con l’abbattimento di quella diffidenza, quello scetticismo, quel risentimento percepiti dalla società africana e su cui il governo italiano dovrà prestare massima attenzione, a partire da come il Piano Mattei verrà comunicato alle controparti africane. E stando alla stampa del Continente Nero che ha raccontato il Vertice Italia-Africa del 28-29 gennaio scorso, finora, non è chiaro chi sia il vero promotore e interlocutore dalla costa nord del Mediterraneo: Roma o Bruxelles? Incertezza legittima data l’intenzione dell’Unione Europea di ricondurre il Piano all’interno del cosiddetto Global Gateway, un maxi-piano da 300 miliardi di euro che dovrebbe concorrere alla Belt & Road Initiative di Pechino.

Una strategia italiana per l’Africa che ancora manca

Le iniziative presentate, per quanto positive, soffrono di alcuni evidenti deficit.  Primo: non sono legate fra loro da una visione o una strategia coerente e definita. Secondo: alcune di esse non sono affatto nuove, ma ricalcano progetti già avviati da ENI negli anni scorsi, a ulteriore dimostrazione del forte ruolo ispiratore del cane a sei zampe nella redazione del Piano: la produzione di biocarburanti in Kenya, ad esempio, è stata lanciata da ENI già nel 2022, mentre il progetto d’interconnessione elettrica tra Italia e Tunisia è in programma dal 2017 e ha chiuso il fundraising nel 2023. Le mani in pasta in Africa, insomma, Roma ce le ha già da tempo con la società di Stato più grande d’Italia (un fatturato di 74 miliardi nel 2022 e un guadagno netto di 5 miliardi), presente in 13 paesi africani dagli anni Cinquanta dove ha storicamente agito come agente e longa manus della politica estera italiana. Nulla di nuovo: l’amministratore delegato Claudio Descalzi, uno dei pochi di cui la Presidente si fida, ha guidato Meloni nell’inserire le varie iniziative in Africa di Eni e delle altre società italiane come Enel, Snam e Terna all’interno di una cornice istituzionale che, però, sebbene faccia un tentativo di ordine, manca ancora di organicità. Terzo: benché i progetti mettano al centro la questione energetica, non sembrano ancora delineare l’intenzione di creare un’industria della trasformazione in Africa per lavorare in loco le materie prime, fondamentale per assicurare alle nuove generazioni africane quel “diritto a non emigrare”. Quarto: non abbracciano altre aree d’azione strategiche come quella securitaria. Questione chiaramente complicata da affrontare per molti dei paesi che difettano di un grado di statualità sufficiente per assicurarne l’affidabilità e con cui diventa quindi difficile dialogare o anche solo individuare i molteplici interlocutori.

Quinto: tra i grandi assenti sia nei progetti del Piano sia alla conferenza Italia-Africa del gennaio scorso, vi sono alcuni dei paesi più importanti del Sahel da cui partono i flussi migratori che si riversano in Italia come Niger, Ciad e Sudan. Non solo. Non hanno partecipato nemmeno Mali e Burkina Faso, due paesi che insieme ad altri coprono l’area del passaggio principale dei migranti verso il Mediterraneo, e con cui l’Europa e l’Occidente non riescono più a dialogare. Perché? La questione richiama il pregiudizio africano con cui un qualsiasi paese europeo deve fare i conti e di cui capofila è storicamente la Francia, paese che negli ultimi anni è stato costretto a ritirarsi dal continente, lasciando spazio all’ulteriore penetrazione delle forze russe e degli investimenti cinesi. Un esempio su tutti, la Libia: proprio mentre alla Conferenza Italia-Africa a Roma era presente il leader del governo di unità nazionale con sede a Tripoli Abdul Hamid Dbeibeh sostenuto da Ankara, il comandante in capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico con sede in Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, sostenuto da Mosca, incontrava a Bengasi il viceministro della Difesa russo Junus-bek Evkurov. Una visita che oltre a promuovere l’avvicendamento della Wagner con l’Afrikansky Korpus (la nuova longa manus militare russa ora in addestramento in Libia prima di raggiungere il Sahel e altri paesi africani), dovrebbe servire a proseguire lo sforzo del Cremlino di costruire una base navale sul Mediterraneo a Tobruk o a Derna, la seconda dopo Tartus in Siria. Sesto e ultimo, di certo non per importanza: nonostante il privilegiato rapporto instaurato da Meloni con l’attuale Casa Bianca, il governo italiano non è riuscito a ottenere (forse non ha nemmeno pensato di chiederlo, il che sarebbe grave) l’endorsement degli Stati Uniti, ai quali del resto non dovrebbe affatto dispiacere un cambio della guardia con la Francia in questo teatro. Movente insufficiente, a quanto pare, per smuovere quel disimpegno americano dal Mediterraneo che, a prescindere da chi siede nello Studio Ovale e guerre a parte, continuerà verosimilmente negli anni a venire.

Contro Cina e Russia, due modelli consolidati dall’antioccidentalismo

Nella nuova partita per l’Africa, il Piano Mattei si inserisce in ritardo e in svantaggio. Non solo per il retaggio neocolonialista che un paese europeo come il nostro deve togliersi di dosso per riaccreditarsi benevolmente con le capitali africane, ma anche perché negli ultimi decenni Cina e Russia si sono inserite in maniera strutturale nel continente con soldi, armi, uomini, infrastrutture con l’intento di occuparsi di alcune delle priorità dei paesi africani: lo sviluppo, il debito nazionale, la sovranità alimentare, l’accesso all’energia.

L'Italia contro due potenze mondiali
l presidente cinese Xi Jinping, a sinistra, e il presidente russo Vladimir Putin si stringono la mano – (foto LaPresse) ilMillimetro.it

Così conquistando la fiducia, il consenso delle genti e acquistando gradualmente la capacità di influenzarne l’opinione pubblica. Del resto, per la creazione di un soft power sino-russo a Mosca e Pechino basta ad oggi porsi come antitesi al paternalismo occidentale che gli africani hanno subito per secoli. Nel solco delle Nuove Vie della Seta, la Cina investe in alcuni settori fondamentali per le economie locali. Pechino è il principale creditore governativo delle economie emergenti: detiene circa il 17% del debito degli Stati dell’Africa subsahariana ed è stato coinvolto nelle recenti ristrutturazioni del debito di queste nazioni. Tanto che dalla loro, gli Stati Uniti hanno accusato la Repubblica Popolare di praticare una “diplomazia del debito trappola”, suggerendo che Pechino stia fornendo prestiti ai paesi africani con condizioni sfavorevoli, portandoli a un debito insostenibile che li renderà dipendenti dal finanziamento cinese. Il Drago ha finanziato anche la costruzione di infrastrutture come le reti ferroviarie del Kenya, l’aeroporto di Juba e il parlamento dello Zimbabwe, mentre dal punto di vista energetico promuove investimenti per garantire l’approvvigionamento di petrolio e gas e, secondo le cifre del China Global Investment Tracker, avrebbe investito circa 4 miliardi di dollari distribuiti in oltre 5000 progetti in tutto il continente riguardanti la partita dei minerali critici fondamentali per le rinnovabili. Secondo un rapporto di Goldman Sachs, Pechino ora controllerebbe circa il 90% della lavorazione degli elementi delle terre rare. La Russia, invece, punta sull’ingerenza politico-militare, a partire da quei paesi facilmente adescabili per via di un risentimento antioccidentale diffuso. Ad esempio, le visite dei vertici della Difesa in Mali, Niger e Burkina Faso – territori abbandonati dalle forze francesi dopo i colpi di Stato degli ultimi due anni – sono state costanti nel tentativo apparentemente già riuscito di portare al potere governi più vicini a Mosca. Fino all’estate 2023, il Gruppo Wagner e altre compagnie militari private russe erano presenti in una dozzina di paesi africani: Libia, Sudan, Mali, Guinea Bissau, Guinea, Sierra Leone, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Angola, Mozambico, Zimbabwe e Madagascar.

Ora a seguito dell’uscita di scena della compagnia che faceva capo a Evgenij Prigožin, Mosca sta inviando in alcuni paesi come il Burkina Faso, i primi soldati dell’Afrikansky Korpus, la nuova compagnia militare sotto la direzione del Ministero della Difesa che si avvicenderà alla Wagner. Di più. La Federazione è al primo posto nell’export di armamenti con una quota di mercato pari al 37,6% nel 2017, e di cui i principali paesi beneficiari sarebbero Algeria ed Egitto. Seguono USA, Francia e Cina. Dal punto di vista energetico, la Russia è molto attiva coinvolgendo ben undici paesi nella ricerca e cooperazione in campo nucleare, mentre diffusi sono anche gli investimenti minerari con l’obiettivo di controllare indirettamente le materie prime essenziali per l’industria pesante e manifatturiera. Mosca poi gioca le sue carte anche sul delicato dossier del grano: con la guerra in Ucraina che ha tagliato drasticamente le esportazioni di Kiev, la Federazione sta inviando centinaia di tonnellate di cereali ai paesi africani, dove le forniture restano fondamentali per scongiurare la crisi alimentare. Di fronte a una coppia sino-russa già rodata, insomma, la strada italiana verso l’Africa è nettamente in salita e, per iniziarla, Roma dovrà fare quello che tradizionalmente non fa o le riesce peggio: mettere a fuoco esattamente cosa vuole e comunicarlo chiaramente alle sue controparti.

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