Nel bel mezzo della guerra, la nazionale di calcio è stata in grado di far sognare e “distrarre” l’intero Paese
Non è una favola, ma la breve interruzione di un incubo. Il potere del calcio non batte il terrore, però può sospenderlo per qualche attimo: negli occhi i siluri all’incrocio, invece delle bombe sulle case e gli ospedali. La Striscia di Gaza, almeno per quattro partite, è diventata una linea di speranza: per la prima volta nella storia la Palestina si è spinta fino agli ottavi di finale della Coppa d’Asia. La corsa si è arrestata lunedì scorso contro i padroni di casa del Qatar, quasi un testa-coda di quel posto fantastico e crudele chiamato “mondo”: da una parte il petrolio e la possibilità di comprare qualsiasi cosa (compresi gli eventi sportivi), dall’altra le macerie e la disperazione totale, mentre prosegue il conflitto di una tensione che ha origine in luoghi e tempi inaccessibili pure alla memoria umana. Il gap, in campo, è stato azzerato dal punto di vista tattico.
Dabbagh ha segnato il gol dell’illusione al 37′: pallone strappato sulla trequarti, difesa puntata uno-contro-tutti, sinistro incrociato in mezzo a tre uomini, imprendibile all’angolino. Il risveglio a cavallo delle due frazioni di gioco, opera di Al-Haidos e Afif (su rigore), il “Messi” del Qatar, nazionale detentrice del titolo conquistato nel 2019.
Sarebbe superfluo, e forse inutile, soffermarsi sui gesti tecnici piuttosto che sul sentimento resiliente che ha accompagnato la spedizione palestinese nel torneo, iniziato il 12 gennaio e con finale prevista il 10 febbraio. Un’edizione, la 18esima, che i “Leoni di Canaan” hanno disputato in condizioni di dolore e smarrimento, angoscia e sgomento. La Coppa d’Asia, in principio, era prevista a giugno e luglio 2023 in Cina, prima della rinuncia (ottobre 2022) a causa della pandemia di Covid-19 e il conseguente slittamento nel 2024 in Qatar, Paese disposto a incaricarsi all’improvviso dell’organizzazione.
Lo “Stato” emotivo – quello, sì, universalmente riconosciuto alla Palestina – non ha condizionato le prestazioni della Nazionale, bensì l’ha spinta a tirar fuori il meglio di sé: hanno fatto clamore i messaggi di pace, più di quelli politici e religiosi. I calciatori, prima, durante e dopo le partite, hanno lanciato appelli per un cessate il fuoco, provando a tenere accesi i riflettori sulla resistenza del proprio popolo. Lo sport più seguito al mondo è servito come cassa di risonanza.
Qualificazione storica
Mai la Palestina aveva superato la fase a gironi. Stavolta ci è riuscita qualificandosi come una delle migliori terze: 4 punti conquistati e pass strappato per le sfide a eliminazione diretta. L’eliminazione diretta, appunto: un’espressione che in un certo senso ricorda quella che purtroppo coinvolge i civili innocenti e non solo i criminali di guerra.
Troppo forte l’Iran, avversario dell’esordio: 4-1 netto, risultato pronosticabile. Troppo forte, anche, la voglia di reagire e regalare un sorriso in mezzo a un mare di lacrime: 1-1 con gli Emirati Arabi Uniti, poi il match da dentro o fuori contro Hong Kong, vinto 3-0 grazie alle reti del solito Dabbagh (doppietta) e Qunbar. Una soddisfazione senza precedenti che ha dato un attimo di respiro mentale: nella Striscia sono state allestite diverse tende di fortuna che hanno permesso alla popolazione di seguire l’impresa della Nazionale, in grado di regalare una piccola tregua personale all’area precipitata nell’inferno lo scorso 7 ottobre con la guerra tra Hamas e Israele.
Il percorso nella Coppa d’Asia è stato un urlo di felicità tra le grida dei bambini. Una partecipazione carica di simbologia, sostenuta soprattutto dal difensore Mohammed Saleh e dall’attaccante Mahmoud Wadi, gli unici due gazawi tra i convocati del ct Makram Daboub, tunisino in carica dal 2021. L’allenatore, prima dell’attacco di Hamas, poteva entrare in Cisgiordania, ma non ha mai avuto il permesso di mettere piede a Gaza per osservare dal vivo le partite o incontrare i giocatori di quei territori.
Nella sua lista sono entrati 26 calciatori provenienti dai campionati più disparati: 10 militano nei territori palestinesi, 10 all’estero tra Indonesia, Thailandia, Cile, Belgio e Svizzera, 3 in Israele e 3 addirittura sono senza squadra. Saleh e Wadi, grazie al tesseramento in club egiziani, sono riusciti a rispondere presente e a ritagliarsi un posto nella storia. Particolarissima, la storia di Wadi: nel 2018 era rimasto intrappolato a Gaza poiché le autorità gli avevano rifiutato l’ingresso in Cisgiordania per riunirsi alla squadra con cui era tesserato. Da lì la firma con il Pyramids FC in Egitto per la cifra record di 1,1 milioni di dollari: l’impedimento l’ha reso il giocatore più costoso della storia della Palestina.
Bombe sui campi da calcio
Tornando alla Coppa d’Asia, i gol festeggiati si sono trasformati in una costante rivendicazione di libertà: i calciatori, dopo ogni rete, hanno incrociato i polsi invocando la fine del massacro e fatto il segno della “V” con le dita, simbolo di vittoria e speranza, reso popolare da Winston Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale. Saleh è andato oltre e al termine della partita contro Hong Kong ha mostrato il braccio al pubblico, indicando una scritta in rosa che riportava i giorni trascorsi dal 7 ottobre: 110.
Per capire la portata dell’impresa è necessario sottolineare le modalità con cui la Palestina si è avvicinata alla Coppa d’Asia: il campionato della Cisgiordania è stato sospeso a ottobre dopo poche giornate, per questo la preparazione è stata svolta in emergenza in Algeria e in Arabia Saudita a partire dallo scorso 12 dicembre. Ma la situazione sportiva nella Striscia, serve ribadirlo, è compromessa da più di 10 anni per i bombardamenti che hanno coinvolto anche i campi da calcio, considerati da Israele posti strategici, utilizzati dai gruppi armati palestinesi per lanciare razzi. Sono diventati “obiettivi legittimi” e di conseguenza è stato distrutto ogni complesso infrastrutturale. A tutto ciò, naturalmente, va aggiunto l’aspetto sentimentale: i calciatori palestinesi, rappresentanti di un popolo intero, hanno disputato le gare di gennaio nonostante le tremende difficoltà nel reperire informazioni dai propri cari, con la “consapevolezza di essere inconsapevoli” della possibile morte di amici e familiari.
La sconfitta negli ottavi con il Qatar ha fatto scorrere i titoli di coda sul grande sogno, ovvero emulare le gesta dell’Iraq, che nel 2007, mentre la nazione era devastata dalla guerra, riuscì a trionfare piegando in finale l’Arabia Saudita (1-0 firmato da Mahmoud). La Palestina, più o meno, si è presentata al torneo nelle stesse condizioni: senza un centro sportivo, senza ricevere notizie dalle proprie famiglie, senza tornare in patria da oltre tre mesi. Cisgiordania lasciata via terra per le due partite di qualificazione ai Mondiali contro Libano e Australia, poi via al periodo di costrizione, non di un semplice ritiro: nessuno ha fatto ritorno a casa, complice il rischio di non poter abbandonare di nuovo la regione per rispondere alla qualificazione in Coppa d’Asia.
Le precedenti esperienze nella competizione erano state avare di gioia: ultimo posto nel girone nell’edizione del 2015 in Australia (0 punti nel gruppo con Giappone, Iraq e Giordania) e un’altra eliminazione nel 2019 negli Emirati Arabi Uniti per il terzo gradino alle spalle di Giordania e Australia (2 punti ottenuti in 3 partite). Ecco perché la qualificazione strappata nell’edizione in corso ha i connotati del miracolo sportivo e sociale.
Il messaggio dei bambini: “Rendici felici”
Jibril Rajoub, presidente della Federcalcio palestinese, ha spiegato le difficoltà enormi che hanno accompagnato l’avvicinamento alla Coppa d’Asia: “L’occupazione israeliana ha preso di mira gli impianti sportivi e le sedi della Federazione. Lo stadio Yarmouk è stato trasformato in un centro di detenzione. Si tratta di una flagrante violazione della Carta Olimpica”.
L’Algeria e l’Arabia Saudita hanno finanziato i campi per gli allenamenti della Palestina: “La preparazione è andata bene nonostante le circostanze difficili”, aveva confidato fiducioso il ct Daboub. Le successive partite ufficiali gli hanno dato ragione. Il coach, tra l’altro, si era anche espresso sulla tragedia avvenuta pochi giorni prima dell’inizio della Coppa d’Asia. Hani Al-Masdar, ex calciatore diventato poi tecnico dell’Under 23, è stato ucciso il 6 gennaio in seguito ad attacchi aerei israeliani su Gaza. “Era uno dei più grandi talenti sportivi palestinesi, per noi è una grave perdita. I più giovani della nazionale lo conoscevano molto bene, nessuno al mondo vorrebbe trovarsi nella nostra situazione”.
La stima parla di circa 71 giocatori deceduti, oltre a decine di allenatori e dirigenti palestinesi. Tra i messaggi più significativi e commoventi c’è sicuramente quello del portiere Ramu Hamadi, nato in Israele e diventato il primo giocatore della Premier League israeliana a giocare per la Palestina. “Mi hanno chiesto di far conoscere il nostro dolore a tutto il mondo, di fare del bene per la mia gente. Sono stato contattato da tanti bambini, mi hanno scritto ‘Per favore, rendici felici’. Io posso fare soltanto una cosa: dare il milione per cento, non il cento per cento. Voglio regalare una gioia a quei bambini”. Missione compiuta. Mentre già cala il buio e riprende l’incubo interrotto.