Tre settembre 1995: esce in sala Pasolini, un delitto italiano di Marco Tullio Giordana, a pochi giorni dalla presentazione alla 52esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Si tratta di una pellicola che in pochi ricordano e che ancora meno viene menzionata all’interno della filmografia di un regista che, fin dagli esordi, ha scandagliato il lato oscuro della italica storia, i suoi misteri insoluti, spalancando porte su un buio nero come la pece. Il terrorismo eversivo di Maledetti vi amerò (1980) e di La caduta degli angeli ribelli (1981), la tragedia dello stadio Heysel di Appuntamento a Liverpool (1985), il Peppino Impastato agnello sacrificale di Cosa Nostra ne I cento passi (2000), la strage della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano in Romanzo di una strage (2012), il brutale omicidio di Yara Gambirasio in Yara (2021). Senza contare la fiammeggiante rise and fall di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, divi idolatrati dalle fanfare fasciste e fucilati dai partigiani in Sanguepazzo (2008). È come se Giordana abbia tracciato le coordinate oscure di un Paese che, senza soluzione di continuità, dagli anni Venti ad oggi, ha visto la sua geografia attraversata da una violenza pervasiva, feroce e nichilista, che è andata a sporcare, a contaminare quasi, non solo “la meglio gioventù”, ma un popolo intero, indipendentemente dall’età, l’estrazione sociale, gli ideali politici.
La notte del delitto
Non è quindi insolita la scelta di un film che facesse luce su uno dei misteri più inquietanti del nostro passato recente: l’assassinio di Pier Paolo Pasolini, ucciso all’idroscalo di Ostia da Pino Pelosi la notte del 2 novembre 1975. Un delitto, fin da subito, classificato come un “fattaccio” a sfondo omosessuale”, una tragedia finita male. Pelosi infatti avrebbe reagito con violenza alle insistite avances del poeta, uccidendolo per legittima difesa non volendo sottostare alle sue profferte sessuali. Lo dice a chiare note il capo della Polizia all’ispettore che, occupandosi del caso, vuole vederci chiaro: “Qui abbiamo i terroristi che fanno gli attentati, i fascisti che sparano come l’altro giorno a San Lorenzo, abbiamo le rapine, i sequestri, lo spaccio, e tu stai a rompere co’ ‘sto Pasolini. Che cazzo vuoi controllare ancora? Pelosi ha anche confessato. È una storia di froci, punto e basta”.
Giordana dimostra che le cose non andarono proprio così e che, in realtà, il delitto avesse una profonda, quanto mostruosa matrice politica, volta a far tacere per sempre l’uomo che conosceva i nomi dei responsabili del “golpe”, di coloro che si macchiarono della strage di Milano del dicembre 1969, di tutti quelli che idearono e portarono a compimento le stragi di Brescia e Bologna dei prima mesi del 1974. Pasolini sapeva, ma non aveva le prove per dimostrarlo. Ecco cosa scriveva in proposito il 28 agosto 1975, a due mesi dalla sua morte: “Andreotti, Fanfani, Rumor e almeno una dozzina di altri potenti democristiani, dovrebbero essere trascinati sul banco degli imputati. E quivi accusati di una quantità sterminata di reati: indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, i banchieri, collaborazione con la CIA, uso illegale di enti come il SID, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani, responsabilità dell’esplosione selvaggia della cultura di massa e dei mass-media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione. Senza un simile processo penale è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese”.
Ed anche le parole di Bernardo Bertolucci, durante un’intervista rilasciata a pochi giorni dalla morte di Pasolini, sono lampanti: “Credo che questo sia un delitto non solo contro la sua persona, ma un delitto contro la cultura, l’intelligenza, la poesia. Non so chi siano stati gli assassini, né il movente che avessero, comunque loro hanno impedito a Pier Paolo di parlare, gli hanno chiuso la bocca per sempre. E questo è sconvolgente…”
Le indagini
Si trattò veramente di un delitto a sfondo sessuale? Della legittima difesa di un ragazzo che “non voleva fa’ la donna, perché questi non erano i patti?”. Tutte le prove raccolte sembrano dimostrare il contrario. A partire dal ritrovamento del cadavere, talmente straziato e martoriato che risulta quanto mai improbabile che a commettere un simile scempio possa essere stato il solo Pelosi, tra l’altro di corporatura esile. In questo senso l’esame autoptico sul corpo di Pasolini dimostra a chiare note come il Pelosi, che venne arrestato senza nemmeno una traccia ematica sui vestiti e sul corpo, non poteva essere da solo quella tragica notte: “Due larghe escoriazioni ecchimotiche alle regioni frontali laterali, un’ecchimosi escoriata alla regione zigomatica e masseterica di sinistra, frattura in due punti della mandibola, lesione trasversale a carico del padiglione auricolare sinistro, vasta lesione al padiglione auricolare destro, l’orecchio è praticamente strappato dal suo impianto; frattura di alcune falangi della mano sinistra e lesione da taglio al primo dito; frattura della sesta e settima costola destra; a sinistra frattura della sesta e settima costola, dell’ottava e della nona, complessivamente dieci fratture costali; si riscontrano lacerazioni capsulari del fegato (non menzionata nella perizia del tribunale). Riscontro come causa del decesso lo scoppio del cuore provocato dal sormontamento dell’auto”.
Il personaggio
Ma Giordana cerca anche di evidenziare il lato oscuro del poeta, quella dark side che ne aveva sempre contraddistinto il privato, la sfera personale, i gusti sessuali. Personaggio oltremodo scomodo il “pasola”, sorta di Giano bifronte, personalità duplice e contraddittoria. Sommo poeta e mente lucidissima, intellettuale acuto e grande regista. Mente capace di preconizzare il futuro, di prefigurare la massificazione e la mercificazione del proletariato, di presagire i cambiamenti epocali che una società in fase di transizione come l’Italia di quegli anni avrebbe affrontato, rimanendone stritolata per sempre (basti vedere il suo testamento spirituale, quel Salò o le 120 giornate di Sodoma, che dopo la solare gaiezza della trilogia della vita, avrebbe dovuto essere il primo tassello della funerea redde rationem della trilogia della morte). Ma anche uomo dal vissuto “umano, troppo umano”, più volte accusato e segnalato alle forze dell’ordine per corruzione di minori, molestie sessuali, adescamento di adolescenti, atti osceni in luogo pubblico, rapina a mano armata.
Una lunga serie di ombre sui cui fece leva il difensore legale del Pelosi (Rocco Mangia, interpretato con mimetica adesione da Antonello Fassari) nel corso del processo, sviando l’attenzione pubblica dalla probabile matrice politica e battendo invece sulla pista passionale. Un modus operandi che viene splendidamente evidenziato in questo passaggio del film, proprio nelle parole dell’avvocato difensore: “Ho accettato di difendere il Pelosi e per farlo ho iniziato a leggere i libri di Pasolini. Perché credo che in essi sia racchiuso il mistero per capire la sua malattia, quella paranoia erotica che la notte dell’idroscalo deflagrò in tragedia. I comunisti chiedono una considerazione ‘particolare’ per le oscenità compiute dal Pasolini solo perché era un esimio artista. Troppo comodo. Il minorenne Pelosi ha colpito per difendere il suo onore. Si è trattato di un gesto tragico, assoluto. Eppure in quel gesto disperato è racchiusa la simbolica rivolta del proletario che si ribella allo sfruttamento e alla violenza di una cultura pseudo libertaria. Questo processo farà capire fino in fondo cos’è il terrorismo culturale e chi era davvero Pier Paolo Pasolini”.
Pasolini, un delitto italiano è un film che ricorda con rabbia. Rabbia per un delitto che è stato scandalosamente e frettolosamente archiviato e di cui ancora oggi non si è dipanato il mistero. Rabbia per un Paese schiavo di ideologismi politici e fanatismi insensati. Rabbia per una generazione di giovani mandati al macello. Rabbia per una classe politica omertosa. Rabbia per tutti coloro che sapevano e non hanno parlato.
Roma
Ed è un film che ricorda con rabbia attraverso una ricostruzione storica impeccabile, attraverso uno stuolo di personaggi perfettamente calati nel ruolo, grazie ad uno sguardo d’ambiente che sa cogliere sfumature e contrasti, zone d’ombra e verità solo intuite. La Roma che fa da cornice a questo delitto epocale è una città brutta, sporca e cattiva. Lontana anni luce da quelle che accolse Pasolini, appena ventisettenne, nel lontano 1950. La stessa che il poeta descrisse in questo modo nel lancinante Il pianto della scavatrice: “Stupenda e misera città, che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini, le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre, come andare duri e pronti nella ressa delle strade, rivolgersi a un altro uomo senza tremare, non vergognarsi di guardare il denaro contato con pigre dita dal fattorino che suda contro le facciate in corsa in un colore eterno d’estate… Stupenda e misera città che mi hai fatto fare esperienza di quella vita ignota: fino a farmi scoprire ciò che, in ognuno, era il mondo”.
Una Roma osservata in tutte le sue facciate, in tutte le sue coordinate spaziali, sociali e geografiche: le borgate che si abbarbicano incontrollate alle porte della città, le bische intrise di fumo di sigaretta, le fatiscenti baraccopoli dell’idroscalo di Ostia, le periferie intossicate dal cemento armato, gli anfratti maleodoranti della Stazione Termini di notte, l’alterigia dei Ministeri, la sicumera degli studi legali, il grigio scuro degli uffici di Polizia. Una città tentacolare e babelica in cui si alternano, come in un balletto tragico, teppisti e avvocati, pederasti e poliziotti infiltrati, borgatari e filosofi, basso proletariato e radical chic. Un coacervo di volti, corpi, sguardi che viene reso magnificamente da tutto un parco attori capaci di dare vita a personaggi di magistrale aderenza iperreale. Come Nicoletta Braschi nella parte di Graziella Chiarcossi (nipote del poeta), in una performance tutta giocata sulla sottrazione delle emozioni e nell’implosione del dolore; Victor Cavallo in quella di Pino Pelosi, strepitosa maschera lombrosiana capace di suscitare sdegno e pietà allo stesso tempo; Toni Bertorelli in quella dell’Ispettore Pigna, dolente spettro alla ricerca di una verità perennemente rimandata; Antonello Fassari in quella dell’avvocato Rocco Mangia, borioso rappresentante di una legge miope ed oscurantista; Claudio Bigagli in quella di Guido Calvi, contraltare di Mangia, a cui spetta una delle battute più iconiche del film: “Comunque, se non l’avessi capito, a Pier Paolo l’hanno ammazzato i fascisti… Non dico proprio loro fisicamente, però il fascismo, l’aria che c’è intorno a noi, quest’orrore che respiriamo ogni giorno…”
È un film, questo, che dovrebbe essere mandato a memoria, proiettato nelle scuole, fatto vedere alle nuove generazioni. Perché è lucido come un trattato storico e riesce a visualizzare perfettamente fra finzione e realtà (splendidi, ad esempio, le immagini “vere” che si frappongono alla narrazione filmica: i Tg dell’epoca, le interviste commosse di Alberto Moravia, Ninetto Davoli, Sergio Citti, i funerali del poeta in cui la telecamera si sofferma sui volti degli italiani di allora, così lontani e così vicini a noi allo stesso tempo) un’Italia lacera e confusa, immersa in una cappa di disperante violenza e pervasiva inciviltà che, ancora oggi, la caratterizza. Il tempo non ha cambiato il nostro paese e non ha cambiato gli italiani. Gli anni trascorsi e gli sbagli commessi non hanno lasciato insegnamenti da cui imparare. La storia ripete se stessa. E, allora, non resta che ricordare con rabbia. Per non dimenticare.