Prendendo in prestito la dizione liturgica ed efficace coniata da Papa Francesco nel 2014, la polveriera mediorientale è il più recente teatro della “Terza guerra mondiale a pezzi”. Per capire gli interessi in gioco, facciamo un passo indietro
L’opinione pubblica occidentale aveva rimosso la crisi israelo-palestinese dalla sua agenda per via di una politica estera che negli ultimi anni non aveva dato alcun seguito concreto alla inflazionata formula retorica della soluzione dei “due Popoli due Stati”. A un serio processo di pacificazione si è sostituito l’intreccio di iniziative diplomatiche contrapposte, guidate da Stati Uniti da un lato e Cina e Russia dall’altro. L’obiettivo americano in Medio Oriente, come testimoniato dalla fuga dall’Afghanistan del 2021, era costruire un’intesa fra i Paesi arabi e Israele che, a partire dagli Accordi di Abramo del 2019, puntava a instaurare e normalizzare un dialogo fra arabi ed ebrei sulla base dell’opposizione al nemico comune persiano, l’Iran. Il fine ultimo della strategia americana nella regione era appaltare a Israele la gestione del contenimento iraniano e progressivamente disimpegnarsi dall’area dopo 20 anni di sconfitte tattiche.
Questo, al netto dell’ombra nucleare che sarebbe rimasta una costante irrisolta. Il contraltare del progetto americano a trazione cinese è emerso invece con la mediazione riuscita di Pechino per un avvicinamento di segno opposto fra Arabia Saudita e Iran, conclusosi con un accordo il 10 marzo scorso e in linea con le mire di quell’Asse della Resistenza che unisce libanesi, palestinesi, siriani e altri gruppi armati sostenuti dall’Iran ostili a Israele. In tutte queste manovre, l’annosa questione palestinese è stata progressivamente accantonata dall’equazione degli equilibri regionali perché, al di là delle dichiarazioni di principio, veniva ritenuta da entrambi i blocchi perdente, non funzionale ai possibili accordi internazionali ed erroneamente non infiammabile.