Dario Argento

Spazi (ir)razionali nel cinema di Dario Argento

È un cinema costellato di luoghi, quello di Dario Argento. Di percorsi architettonici. Di topografie dell’incubo. Un immaginifico andirivieni in spazi urbani (re)immaginati, sognati, (ri)costruiti sulle fondamenta di un inconscio tormentato. Le ambientazioni in cui si muovono i personaggi-pedine del cinema argentiano hanno la consistenza sfilacciata dei sogni, sono dimensioni (ir)reali in cui perdersi per sempre, smarrirsi e morire. Questa concezione del “locus” è stata, da sempre, uno dei punti di forza del regista romano. Forse maggiore dell’evento delittuoso, di quell’estetica/erotica dello sguardo e della sensualità dell’omicidio di cui Argento è stato – ed è tuttora, basti vedere il primo rutilante omicidio di Occhiali neri, pellicola cialtronesca e sublime allo stesso tempo – il massimo esponente. Perché è proprio in questi contesti urbani e architettonici sghembi, irrazionali e immaginifici che la morte esplode in tutto il suo suadente splendore. Come se il delitto trovasse sublimazione nel luogo in cui viene compiuto, come se si elevasse all’ennesima potenza traendo linfa dal decòr che lo circonda, dal perimetro che lo ospita. Allora proviamo a mappare (senza presunzione di esaustività) cinque luoghi iconico-simbolici in cui, sanguinariamente e ferocemente, Argento mette in scena i suoi balletti di morte.

Il teatro di “Profondo rosso” (1975)

È nella sala di un teatro che inizia uno degli incubi più paurosi del cinema argentiano, il film che ha segnato una frattura definitiva fra tutto quello che c’era stato prima (la trilogia degli animali) e tutto quello che verrà dopo (l’alchimia stregonesca delle Tre madri). Qui si svolge il congresso di parapsicologia in cui la sensitiva Macha Meril “avverte” la presenza di una mente perversa che “ha già ucciso e ucciderà di nuovo”.

I relatori sono sul palco, davanti a loro la platea nascosta nel buio. La donna entra in contatto, letteralmente, con i pensieri dell’assassino presente in sala. Sono pensieri di morte, visioni che rimandano ad un delitto commesso anni addietro: un interno borghese, una nenia infantile, un coltello che colpisce, i piedi di un bambino che si avvicinano all’arma insanguinata. La sensitiva ha paura, inizia a proferire parole sconnesse, a tremare. Poi indica qualcuno, lì nel buio del teatro, accusandolo dell’atroce crimine. Quello stesso qualcuno che si alza, lascia la sala e si allontana indisturbato. Quello stesso qualcuno che la sera stessa farà visita a casa della donna che “sapeva troppo”. Un teatro, quindi. Uno dei luoghi più iconici nella e della filmografia di Argento. Talmente presente da diventare protagonista assoluto in Opera (il Teatro Regio di Parma), di aprire il gioco al massacro – il finto omicidio – in Quattro mosche di velluto grigio e di fare capolino anche nell’ultimo grande Argento, quello di Nonhosonno. Ma è solo in Profondo rosso che il teatro diventa luogo-spazio-incubo per eccellenza.

Un set carico di presenze, di memorie cattive, di fantasmi aleggianti. I pensieri dell’assassino ristagnano anche dopo la sua uscita di scena, infestano la sala, persistono come “solide ragnatele”. Evocano, in qualche modo, terribili memorie, danno il là alla nuova catena di omicidi di cui il film sarà costellato, distorcono nuovamente la psiche silente del maniaco. Quando la sensitiva abbandona il teatro affermando di “avere paura perché adesso sa chi è l’assassino”, la Mdp spia la donna da dietro le colonne della sala, la segue con lo sguardo fino alla sua uscita di scena, la osserva silenziosa. È già un’epifania di morte che presagisce l’orrore che esploderà immediatamente dopo. È uno sguardo astratto e metafisico. Un punto di vista irreale che trasforma la sala in uno spazio onirico, in una dimensione liquida, galleggiante. Dove i riverberi di un passato mostruoso echeggiano indisturbati e si librano malevoli fra tendaggi e quinte, uscite di sicurezza e corridoi, palchi e gallerie. Profondo rosso sebbene segua le coordinate del thriller, le scardina in questa sequenza, deviando in una dimensione “altra”, lambendo le acque del soprannaturale fantasmatico. Acque in cui il cinema di Argento sprofonderà, letteralmente, nelle due pellicole successive: Suspiria e Inferno.

La Tanz Akademie di “Suspiria”

“Le streghe praticano il male. Nient’altro al di fuori di quello. Conoscono e praticano segreti occulti che danno loro il potere di agire sulla realtà, sulle persone in senso maligno. […] Il loro scopo è ottenere vantaggi materiali e personali, ma possono raggiungerli esclusivamente con il male degli altri. Con la malattia, con la sofferenza, il dolore, con la morte di coloro che prendono di mira. Vede, si può benissimo ridere di tutte queste cose, anche della magia. Ma sappia che la magia è quoddam ubique, quoddam semper, quoddam ab omnibus creditum est. Ovvero: la magia è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti è creduta”. In questa frase è raccolto il cuore (selvaggio) di Suspiria. Infatti credere nella magia, nel suo occulto potere, nella sua capacità di deformare malignamente uomini e cose è la chiave di volta che ha permesso ad Argento di creare il più disturbante attacco visivo e sonoro del cinema horror, non solo italiano, ma tout court.

Argento (insieme a Daria Nicolodi che collaborò alla sceneggiatura) entra per la prima volta nel mondo irrazionale, lasciandosi alle spalle le (comunque) deviate traiettorie dei thriller degli esordi. E regala allo spettatore un incubo ad occhi aperti dove il luogo in cui agiscono le forze stregonesche risiede all’interno della Tanz Akademie, scuola di ballo in quel di Friburgo. Un edificio che è un vero e proprio elogio della pazzia (non a caso ospitò Erasmo da Rotterdam), un diamante liberty la cui immanente facciata, dipinta di un rosso acceso, è già incunabolo al sangue che scorrerà nei suoi corridoi, nelle stanze, nei passaggi segreti, nei lucernari e nelle soffitte/trappole. Una terra di nessuno scoordinata, un microcosmo irrorato dalle abbacinanti e fantascientifiche luci di Luciano Tovoli. Una visione escheriana, una pianeta “altro” dove le pareti istoriate con scritte in latino, i corridoi infiniti, le magniloquenti sale da ballo, i dormitori di fortuna creano un luna park a metà strada fra la casa stregata dei fratelli Grimm e la fantascienza “pop” del baviano Terrore nello spazio. Suspiria è un trionfo di specchi e tendaggi, di bric-a-brac e oggetti di antiquariato, di finestre ovoidali e porte decentrate che immettono su innominabili segreti. Un LSD su celluloide immortale e immarcescibile come ogni sabba che si rispetti.

Il palazzo di “Inferno” (1980)

Se Suspiria è il teorema aureo di un ignoto spazio superuranico, Inferno ne è il contraltare terrigno e terragno, la mise en abime di una dimensione che rimanda al “sotto”, al nascosto, al profondo. Tutto in questa totentanz è un continuo sprofondare verso il basso, verso un territorio sotterraneo in cui risiede il più terrificante spauracchio del genere umano: la signora dalla grande falce. Il palazzo di Inferno, tutto di facciata, immanente ed imponente, quasi goticheggiante nella sua ascensione, in realtà è paragonabile ad un ascensore la cui unica funzione è scendere verso il buio, nel sepolcro profondo. Lo ha costruito l’immaginario architetto Varelli come dimora per la più malvagia delle tre madri, quella Mater Tenebrarum che si rivelerà in tutto il suo sinistro splendore nelle ultime sequenze.

Sorta di labirinto, di puzzle rompicapo, di cimitero edificato con lacrime e dolore, il palazzo di Inferno è una babele che nasconde stanze segrete, sottoscala, botole, cantine, pertugi, scale a chiocciola, pozzi, voragini. Tutti, indistintamente, conducono nelle profondità del sottosuolo, nelle viscere della terra, nell’oltretomba. In questo manifesto dell’irrazionale architettonico, dove si può morire ghigliottinanti da una finestra, e dove ci si può imbattere in stanze completamente allagate dove galleggiano cadaveri in putrefazione, Argento dispiega (forse definitivamente) tutta la sua visione di un orrore ctonio ed universale. “Il segreto è sotto la suola delle tue scarpe” ci informa lo pseudobiblion che narra i segreti delle tre madri, quella delle lacrime, quella dei sospiri e quella delle tenebre. Per scoprirlo non resta altro che guardare meglio, guardare più da vicino, ed affacciarci verso l’abisso spalancato sotto le nostre inani certezze.

La Casalpalocco di “Tenebre” (1982)

Algida, bianchissima, quasi virginale nel suo immacolato candore. In netta contrapposizione con il titolo, la Casalpalocco di Tenebre è un abbacinante scenario di geometrica purezza. Dopo i ghirigori liberty e le vertigini gotiche del precedente dittico alchemico, Argento spariglia di nuovo le carte e decide di ambientare il suo ritorno al thriller in un ambiente “visibile” (non a caso il titolo originale di lavorazione era “Sotto gli occhi dell’assassino”), asettico, da luminescenza obitoriale. E in questo universo fatto di rigide griglie geometriche, ville hi-tech, piazze squadrate, viali inondati dal sole e battuti dall’eco di venti salmastri, dirige il suo vero e proprio film di “fantascienza”, sorta di riepilogo in chiave sci-fi de L’uccello dalle piume di cristallo e Profondo rosso.

Tenebre è un film che sembra provenire dal futuro e che, ancora oggi, è cinema del futuro. L’omicidio di John Saxon nella piazza piena di persone, sotto un sole battente e una luce infuocata è, a distanza di quaranta anni, rimasto ineguagliato non solo in tutto il cinema giallo che verrà ma in quello dello stesso Argento. Si tratta di una sequenza che sovverte i canoni classici del genere thriller/horror che vedono la vittima soccombere in ambienti oscuri, desolati, privi di vie di fuga. Qui, al contrario, la morte colpisce in un luogo “comune”, tra fidanzati che passeggiano e nonne con nipotini al seguito. Per questo è così scioccante: sancisce indelebilmente e incontrovertibilmente quanto la “fine” possa sopraggiungere improvvisa e irrazionale in qualsiasi luogo, anche il più rassicurante.

Memore della lezione di Antonioni, Argento fa irrompere l’osceno, il perturbante, il malsano in interni dal design cool, di lussureggiante modernità, facendo calare rasoi e asce su un’umanità becera e volgare: ladri e pervertiti, ninfette in erba e cleptomani, deviati e masochisti. Scagliando una sorta di apocalisse morale su personaggi “mostruosi”, Argento pone la pietra tombale al genere che lo ha reso immortale. E lo fa sterminandoli su paesaggi bianchi come il latte. Pronti a divenire rossi come il sangue.

Il treno di “Nonhosonno” (2001)

Ovvero la morte corre sulle rotaie. Nell’ultima pellicola in cui, senza ombra di dubbio, si può ancora intravedere il genio dell’Argento che fu, il regista colpisce nel segno nella feroce, sublime sequenza della prostituta assassinata sul treno. Un distillato purissimo di tensione dove le coordinate reali si sfaldano, andandosi a scontrare con le iperboli del sogno. Il treno dove si consuma il primo omicidio di Nonhosonno (da leggersi proprio così, come una nenia infantile che accompagna un’insonnia generatrice di mostri) è un lampo di luce che corre nella notte più buia.

Un convoglio lanciato verso il nulla. Completamente deserto, diventa la tomba in cui si rifugia la vittima, colpevole di aver visto e capito troppo. Un sudario che non presenta uscite di sorta, dove ogni scompartimento è desolatamente vuoto, dove la tecnologia non può aiutarci (i cellulari non prendono), dove i corridoi diventano trappole mortali. E dove i fendenti della lama omicida straziano le carni, lacerano giunture, solcano pelle e tendini. Un omicidio che possiede tutta l’anarchica bellezza dell’Argento passato, tutto l’estatica violenza dei tempi andati. Come se Argento, entrato nel nuovo millennio, abbia voluto dare il suo addio ad un’idea di cinema incompatibile con i tempi, abbia reso l’estremo saluto ad una visione che non può che collassare con l’imperante diktat neocatodico, razionalista e omologante.

Un diktat che leviga e smussa gli angoli più acuminati, che decide cosa mostrare e quando mostrarlo, che (re)visiona censurando. E, così facendo, uccide l’arte. Anche quella, poeticamente sublime, dell’omicidio.

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