Paolo Calabresi, attore di cinema e teatro, si racconta ai microfoni de il Millimetro: “Mi fa piacere essere fermato per strada. Se il cinema è romanocentrico? Sì, qui è uno stimolo continuo”.
Paolo Calabresi rientra in quei volti da tivù che ormai riconosci all’istante. C’è Roma nelle sue vene ma nell’accento si avverte sempre meno. È Biascica di Boris ma anche uno dei protagonisti di “Smetto quando voglio”. È teatro ma pure cinema. Da qualche anno pure serie televisiva. Ha sperimentato tutte le forme di recitazione, è stato ed è trasformista. Padre di un figlio calciatore e di una figlia attrice, parte anche lei del film “La guerra del Tiburtino III” diretto da Luna Gualano.
La trama è da subito coinvolgente: un meteorite cade dal cielo romano e viene raccolto da Leonardo de Sanctis che lo porta a casa. Di notte però avviene qualcosa di strano: un verme esce dal meteorite e gli entra nella narice. L’uomo inizia a comportarsi in modo strano, diventando dal giorno alla notte leader di altri abitanti e alzando le barricate per non far entrare più nessuno nel quartiere.
Strehler, Biascica e il Tiburtino III – “Il mio ultimo film è accattivante e fantascientifico”
Paolo, ma è vero che ti ha raccomandato tua figlia per il ruolo nel film?
“Sì (ride), è curioso. Ad aver ottenuto un ruolo è stata prima lei, che interpreta l’assistente della protagonista (Sveva Mariani)” Luna (la regista, ndr) ha poi avuto l’idea di chiamarmi”.
In Italia non siamo abituati ai fantascientifici. Come hai reagito quando hai letto la sceneggiatura?
“Non l’ho letto come un film di fantascienza ma dal genere indefinito, difficile da collocare. Rientra nella commedia ma esula dai canoni classici. I fantascientifici di solito si sviluppano in altri modi, qui invece senza la presenza del sarcasmo. È un’opera che non affonda radici in alcun genere ed è la sua forza, perché le permette di nascondere tra le righe temi molto profondi e attuali come la chiusura dei confini, l’occupazione di una terra e l’intromissione di una popolazione estranea. È un film accattivante e raffinato che non pigia mai sull’acceleratore, né ammicca o la butta giù dura. Eppure contiene molta attualità”.
Cosa ti ha colpito nello specifico del progetto?
“Il montaggio. L’editing finale del film contiene una colonna sonora stupenda, così come la grafica di classe e personalità. Lo capisci già dai titoli di testa, dietro ai quali c’è uno studio attento”.
Strehler, Biascica e il Tiburtino III – “Sono diventato attore grazie a una delusione di amore”
Il cinema italiano è romanocentrico?
“Indubbiamente. La Roma di questo film è simbolica e trasandata. La Roma reale è accentratrice perché capace di offrire il bianco e nero. È una città profondamente contraddittoria ma dalle mille opportunità”.
Come hai iniziato a svolgere il mestiere dell’attore?
“Senza avere il pallino né la vocazione. Devo tutto alla fine di un mio grande amore. Stavo sotto a un treno, non potevo più passeggiare per Roma perché tutto mi ricordava lei. Vado a Parigi da un mio amico che mi invita a rimanere. Mentre lui è impegnato io giro per la città. Una volta, davanti a un teatro, incontro una vecchietta che mi fa: ‘Sono rimasta sola a teatro che mio marito non sta bene, vuole accompagnarmi?’. Entro in sala con lei e mi ritrovo spettatore di Opera da tre soldi di Giorgio Strehler, con Milva. Rimango basito, F4, incantato, meravigliato da tanta bellezza. Esco con un altro cuore. Tre giorni dopo esce casualmente la selezione per entrare al Piccolo Teatro di Milano. Faccio il provino e vengo preso”.
Cosa ricordi di Strehler?
“Detestava gli attori in attesa delle indicazioni e metteva costantemente in discussione quanto diceva. Era il Maradona del suo campo. Non sbagliava mai pur sbagliando. Seguiva percorsi molto infantili e per questo aveva la capacità di parlare al cuore, senza uno sfondo intellettuale. Insegnava che il mestiere dell’attore consiste nel raccontare delle storie fingendosi altre persone da se stessi. Giocava come i bambini, in modo molto serio e con le loro regole precise”.
Strehler, Biascica e il Tiburtino III – “La commedia italiana sta crescendo”
Hai avuto altri punti di riferimento?
“Dopo il Piccolo di Milano sono rimasto con Strehler fino alla sua morte. Un corrispondente non l’ho mai trovato, ma altri professionisti di spessore sì. Penso a Massimo Castri e Mario Missiroli. Nel cinema scelgo Marco Bellocchio e Giuseppe Tornatore”.
Ci sono film a cui ti senti indissolubilmente legato? Sia da attore che da spettatore.
“Boris per me è stata la scoperta della macchina da presa dopo tanti anni di trasformismo, generato anche da situazioni dolorose. Poi Buongiorno notte, film struggente. Cito anche Tootsie, commedia perfetta”.
Commedie italiane?
“Siamo stati abituati a dimenticare la nostra, cara vecchia commedia. Forse la stiamo riacchiappando, quella che nasce dal dolore. Guardie e ladri finisce con uno squattrinato e l’altro in galera, Il sorpasso ha un finale tragico. La commedia non è una cosa da ridere per forza. Si ride tanto a condizione che si parta dalla verità. Smetto quando voglio parte da una situazione terribile, il precariato. Invece per anni, non so perché, ci siamo abituati a vedere una commedia in cui la comicità era pretestuosa. Bastava una pernacchia, come se i personaggi fossero coscienti di essere dentro un film. Quando invece un personaggio deve essere preso dalle proprie emozioni. Biascica per esempio non sa di far ridere, a lui interessano solo gli straordinari di aprile”.
Strehler, Biascica e il Tiburtino III – “Mi fa piacere essere fermato per strada”
C’è un ruolo che ti manca e che vorresti interpretare?
“Diversi, specie nel teatro classico. Non ho mai fatto Il misantropo di Moliere, per esempio. Ho dovuto arrendermi nel tempo ai ruoli leggeri, quando invece un attore debba poter dimostrare di saper fare tutto perché tutto comprende il drammatico e il leggero. In questo momento privilegio i ruoli drammatici. Anche se pure quelli comici contengono sempre una grande dose di malinconia. Penso alla comicità di Carlo Verdone, fondata su quella malinconia”.
Meglio un figlio nel calcio o nel cinema?
“Ambedue mi provocano le stesse gioie e preoccupazioni. Con Arturo tra i professionisti ho vissuto il calcio diversamente, vedendo cose che avrei voluto non vedere. Avevo sempre vissuto il calcio da tifoso, con abnegazione per la Roma. Poi una volta dentro scopri un mondo problematico che mette a rischio l’incolumità fisica di chi è al potere calcistico e di chi potrebbe subirlo. È un mondo omertoso e chiuso su se stesso e suoi propri deficit, stretto nelle sue irregolarità. Andrebbe gestito con una maturità che stiamo perdendo sempre di più, specie nelle figure guida. Gli avvenimenti degli ultimi mesi sono terribili. Scoprire che i giocatori, quando non si allenano, per trascorrere il tempo scommettono e non vanno per esempio al cinema è triste e pericoloso”.
Che rapporto hai con la notorietà?
“Credo sano. A me piace quando mi fermano per strada, specie se è per lavori che ho fatto. È bello essere popolari per delle cose che hai fatto. Molti attori sono convinti di vivere il proprio successo in maniera sana ma magari da fuori ti accorgi che non è così, quindi cerco sempre di stare in guardia”.