Lo spirito del rugby impone di dover imparare a convivere allo stesso modo con vittoria e sconfitta: a 23 anni di distanza dall’ingresso nel Sei Nazioni però, dopo i tifosi, bisogna coltivare i giocatori.
C’era bisogno di far numero quando quel soleggiato giorno di ottobre del 1996, il professore di educazione fisica entrò dalla porta chiedendo chi fosse interessato ad assistere a Italia-Galles, amichevole di rugby all’Olimpico, la terza sfida in assoluto contro i Dragoni Rossi. Biglietti stampati su carta rosa, rigorosamente omaggio della federazione per le scuole. C’era bisogno di creare un pubblico ma gli spettatori presenti furono appena diecimila. Quest’anno, la media di presenze su suolo italiano per il Sei Nazioni è stata di 56.285 spettatori. Merito anche di francesi, irlandesi e gallesi, ma tant’è. L’attrattiva di Roma rimane intatta (soprattutto perché, al contrario del calcio, non si rischiano “puncicate” e/o scontri) e tra i paesi anglofoni, anche quando la pressione era altissima per estromettere gli Azzurri dal torneo più antico del mondo a favore della Georgia, quella romana rimane “LA” trasferta per eccellenza e i giornaloni misero subito da parte ogni velleità a favore dei qartvelebi pur di evitare il viaggio a Tbilisi. Rimanere nel giro per motivi “politici” però potrebbe andar bene nel medio ma non nel lungo termine.
Con il progresso di molte nazionali di seconda e terza fascia, l’Italia ha il dovere di rimanere ad alti livelli soprattutto per meriti sportivi. L’ha fatto decisamente bene nell’ultimo Sei Nazioni perché, al contrario degli ultimi dieci anni, la nazionale guidata da Kieran Crowley, è rimasta in partita per quasi tutti gli ottanta minuti in ogni singola gara (un bene anche per i diritti tv): solo 5 punti di scarto con la Francia; “attaccata” alla gara per 70’ contro Inghilterra e Irlanda; -12 col Galles e una sfida all’ultima meta contro la Scozia che non ha potuto evitare l’ennesimo cucchiaio di legno. Pur chiudendo all’ultimo posto per mete (8) e metri percorsi con calci di spostamento (3024), l’Italia ha prodotto un gioco più offensivo come dimostrano le palle portate avanti (2ª con 649), i palloni giocati alla mano (1ª con 1587) e i passaggi effettuati (1ª, 974). Ma non è la narrazione che ci hanno restituito gli ultimi Mondiali: dopo le vittorie contro Namibia e Uruguay, infatti, sono arrivati due capitomboli storici contro Nuova Zelanda e Francia che hanno fatto ripiombare il rugby italiano nel Medioevo. Ma è davvero tutto così buio?
Italrugby, dov’è la vittoria? – Le sfide del futuro
A livello europeo, gli Azzurri quantomeno sembrano aver invertito la tendenza che li aveva visti rovinosamente in picchiata almeno fino al 2021, per poi riprendersi e raggiungere livelli accettabili che consentono all’Italia di guardare negli occhi Galles, Inghilterra e Scozia (diverso il discorso per Francia e Irlanda). «Ci siamo concentrati sulla nostra identità in attacco – aveva spiegato il capitano Michele Lamaro al Telegraph – e ci siamo resi conto che in realtà eravamo già abbastanza bravi a giocare nello spazio. Stiamo cercando di riportare i tifosi dalla nostra parte anche attraverso l’intrattenimento perché è difficile instillare una cultura del rugby in Italia, una nazione in cui ci sono tanti calciatori e tanti altri sport molto diffusi, ma attraverso il modo in cui stiamo giocando possiamo lanciare un segnale. La gente adesso mi ringrazia per aver assistito ad una gara coinvolgente, ma non finisce qui perché dobbiamo ancora vincere. Per farlo però dobbiamo ancora credere in qualcosa e quelle prestazioni ci dicono che possiamo credere in quello che stiamo facendo e che siamo sulla buona strada per il futuro». Lo stile di gioco certamente aiuta a non annoiarsi: arrembante come quello scozzese ma più imprevedibile, in perfetto stile latino. E va certamente in questa direzione la scelta come nuovo ct a partire dal primo gennaio dell’argentino Gonzalo Quesada, uno che ha vissuto per dimostrare che non esistessero squadre invincibili nel Super Rugby.
Contrariamente ai famigerati “angeli dalla faccia sporca”, un vero “diavolo dalla faccia pulita”, proprio come Ange Capuozzo, premiato come Rivelazione dell’anno da World Rugby nel 2022, l’anno in cui finalmente l’Italia, ispirata proprio dall’estremo di Pont-de-Claix, è tornata a vincere dopo 36 sconfitte consecutive nel Sei Nazioni, una serie nerissima che durava da ben sette anni. Ange è uno che ha fatto la trafila delle giovanili, dando lustro al movimento già dal basso. L’età media del XV titolare contro la Scozia era di 26,4 anni, motivo per cui il meglio teoricamente deve ancora venire. Di più: da almeno quattro anni, l’Under 20 è stabilmente tra le nazionali più competitive, meglio di scozzesi e gallesi, alla pari di francesi, inglesi e irlandesi. Prima della sfida con la Francia, indimenticabile il discorso nello spogliatoio del capitano David Odiase che più di tutti incarna la voglia di emergere di tutto il movimento nostrano: «dobbiamo portare in alto sta maglia dove mai non è stata!» Per poi aggiungere a fine partita (persa di un solo punto) che «oggi stiamo lanciando un segnale molto forte a tutto il mondo del rugby, stiamo arrivando! Negli ultimi anni, abbiamo lavorato sodo, abbiamo mangiato tanta merda, ma adesso i risultati stanno iniziando ad arrivare ed è solo l’inizio di un lungo percorso».
Poi, a giugno, sempre loro (improvvisamente inzaccherati di marrone) sono andati a vincere in Sudafrica, nella pozza di fango del Paarl Gymnasium, una prima storica per tutto il movimento della palla ovale. Dal 2026, infine, Six Nations e SANZAAR (rispettivamente gli enti organizzatori più rilevanti nell’emisfero settentrionale e meridionale) rimpiazzeranno i test match di luglio e novembre con un campionato a 12 squadre (le prime 10 del ranking più, presumibilmente, Fiji e Giappone) che dal 2030 avrà anche retrocessioni e promozioni da una seconda serie che sarà invece appannaggio di World Rugby, la federazione mondiale. Un formato che ha già raccolto critiche e scetticismo a tutti i livelli del mondo della palla ovale, ma che sembra inevitabile per un miglioramento del livello collettivo e il risalto di paesi emergenti come la Spagna.
Italrugby, dov’è la vittoria? – L’esempio dell’emisfero sud
In questo senso, la federazione del rugby argentino (29 anni di vita in più della FIR) rappresenta certamente un punto di riferimento per tutte le nazioni emergenti della palla ovale perché con dedizione e programmazione ha dimostrato di poter stare stabilmente tra le prime dieci del mondo. I Pumas si presero prepotentemente la scena al Mondiale francese del 2007, battendo i padroni di casa allo Stade de France sia all’esordio che nella finale per il bronzo. Poi ancora quarti di finale (2011) e semifinale (2015) prima di uscire ai gironi in Giappone (2019). Una battuta d’arresto che, nei mesi successivi, non ha impedito all’Argentina di battere Nuova Zelanda, Galles, Scozia, Australia ed espugnare pure la roccaforte di Twickenham.
Una tradizione lunga più di 120 anni che ha dovuto far fronte a diverse difficoltà, riuscendo però ad emergere grazie ad una preziosa rete di scout e un’acuta programmazione (e non a caso, tra il 2008 e il 2020 è stata la federazione che ha portato in nazionale maggiore il maggior numero di atleti dell’Under-20: ben 69). La UAR ha beneficiato del sostegno attivo del Sudafrica, ma poi non si è tenuta tutto gelosamente per sé, andando a supportare nello sviluppo del rugby buona parte delle altre nazionali sudamericane. Pur non potendo vantare gli introiti di altre federazioni ben più ricche, l’Argentina ha fatto il suo, inserendosi nell’élite del rugby mondiale e garantendosi un posto fisso al Rugby Championship dal 2012.
La cosa stramba (almeno se vista con gli occhi di appassionati di altri sport) del rugby è che pare che non sia l’ossessione della vittoria la (è proprio il caso di dirlo) meta, ma piuttosto lo sforzo in quello che si fa. Come per un’alchimista ciò che conta è il processo che porta alla trasmutazione delle sostanze, così per il rugbista al primo posto c’è la prestazione. Cadere e rialzarsi in allenamento come in partita crea un’energia incredibile che è quella che spinge gli atleti a superare costantemente se stessi. La riprova sta nell’atteggiamento composto dei giocatori di Sudafrica e Nuova Zelanda dopo la combattuta finalissima di Parigi: se qualcuno si fosse sintonizzato in quel momento non sarebbe riuscito a distinguere i vinti dai vincitori. Aaron Smith, in particolare, incarnava “la serenità di aver fatto il suo”: dopo aver guidato la storica haka e dopo aver concluso la 125ª e ultima partita giocata in nazionale (lui giocatore numero 1112 nella storia degli All Blacks aveva appena perso 11-12 la finale), contemplava la medaglia d’argento sorridendo con il figlio in braccio. Come scriveva il poeta Joseph Rudyard Kipling, “se riuscirai a confrontarti con trionfo e sconfitta e trattare allo stesso modo questi due impostori […] sarai un uomo, figlio mio!”
Italrugby, dov’è la vittoria? – Nuovi giocatori
Per l’Italia di qualche tempo fa, sembrava che questa potesse essere una scusa perché oltre ai risultati, sembrava mancare soprattutto l’impegno. “Italiani no buoni per rugby” è una frase che la leggenda attribuisce all’ex ct Nick Mallett. “Se era forte giocava per Francia” disse invece Pierre Berbizier a proposito di David Bortolussi. Frasi denigratorie a parte, chi si è avvicinato di più alla verità è molto probabilmente il ct uscente Kieran Crowley quando, nell’ultima intervista post-partita ha detto che “l’Italia ha un bacino di due sole squadre” (Treviso e Zebre, peraltro uscite dal Top 10 italico, impoveritosi ulteriormente di sponsor e appassionati), spiegando che in Francia, nel Top 14, ogni club ha almeno due o tre tallonatori francesi per un totale compreso tra un minimo di 28 e un massimo di 42 tallonatori, in confronto ai 3-4 italiani.
Per decenni, inoltre, si sono cercate scorciatoie per convocare giocatori non cresciuti in Italia, ma con parenti alla lontana e quasi mai prime scelte. Urgono idee che garantiscano una continuità. Se si pensa al rugby base, potrebbe essere molto utile un “progetto scuole” curato dalla FIR per ampliare il numero dei praticanti, mentre già da qualche anno, in diverse città italiane, stanno prendendo sempre più piede anche i corsi pre-scolari di “rugby tots”. A 27 anni di distanza da quell’amichevole con il Galles, dopo i tifosi, c’è bisogno di coltivare giocatori.