Le battaglie dell’Alaska contro la pesca russa

Da secoli il mercato ittico russo è fortemente sviluppato, basti pensare all’enorme richiesta di caviale di salmone dell’Alaska o al commercio di merluzzo, ma si basa in maniera consistente anche su quanto viene pescato nelle acque orientali dello stretto di Bering, che la Federazione Russa condivide con l’Alaska, il più esteso degli Stati Uniti. Alcune aree sono a uso esclusivo del Paese statunitense, mentre altre della Federazione russa. Negli ultimi anni tra le due potenze si è consolidata una vera e propria competizione per l’accesso a quelle acque arrivando, nel novembre del 2020, a delle preoccupanti azioni intimidatorie che raggiunsero il culmine con un’esercitazione militare da parte dei russi, la più grande dai tempi della Guerra Fredda. L’area marittima è molto ambita dai due Stati, non solo per la varietà di specie marine richieste nei mercati di tutto il mondo, ma anche per i giacimenti minerari. Un’annosa competizione che di recente si è riaccesa, fortunatamente non in toni bellicistici. Il commissario del Dipartimento della pesca e della selvaggina dell’Alaska, Vincent Lang, ha esortato l’organizzazione che certifica i raccolti come “sostenibili” a revocare le sue approvazioni per il pesce pescato dalla Russia. In particolare, il commissario ha richiesto al Marine Stewardship Council (MSC, un’organizzazione no profit indipendente la cui finalità è proprio quella di verificare il rispetto di pratiche di pesca ecosostenibili assegnando un marchio blu “MSC ecolabel” a chi rispetta i criteri di valutazione) di interrompere la pratica di certificazione dei raccolti russi. Lang ha affermato che “è ingiusto consentire la certificazione di qualsiasi raccolto russo come sostenibile quando, sin dall’invasione dell’Ucraina, i rappresentanti del Consiglio sono stati limitati nello svolgimento delle loro attività di verifica”. L’incrinarsi dei rapporti diplomatici tra le due potenze, secondo il commissario, avrebbe avuto riflessi anche su alcune fondamentali pratiche di controllo all’interno dell’industria ittica russa. Sui prodotti raccolti sarebbe diventato impossibile fare controlli accurati e le certificazioni di sostenibilità attribuite sarebbero dunque inattendibili. Il Marine Stewardship Council ha reagito alle accuse contenute nella lettera di Vincent Lang sottolineando che è stato male interpretato il lavoro svolto. “Pur riconoscendo la preoccupazione nella lettera di Vincent Lang sulla guerra in Ucraina, riteniamo che non sia stata colta la realtà delle attuali operazioni di MSC relative alla Russia. Giusto per essere chiari: non abbiamo abbassato i requisiti di certificazione di MSC per consentire alla pesca russa di rimanere nel programma”,si legge nella dichiarazione dell’MSC, che ha ribadito – da parte propria – la totale assenza di interessi finanziari. C’è poi preoccupazione per quel che subiscono alcune specie una volta immesse nel mercato. Secondo l’Alaska, il pollock (varietà di merluzzo) pescato sul lato russo del Mare di Bering è chiamato indebitamente “pollock dell’Alaska”, il che gli conferisce maggior valore. La richiesta di Vincent Lang, va sottolineato, rientra nel più ampio sforzo – che va avanti da mesi – di limitare o addirittura fermare le importazioni di frutti di mare di origine russa che vengono illegalmente venduti negli Stati Uniti e in altri mercati occidentali nonostante gli embarghi. Secondo il Dipartimento della pesca dell’Alaska, la Russia starebbe portando avanti da circa un anno delle pratiche commerciali vietate (volte ad eludere gli embarghi) che gli consentono di fare arrivare i prodotti in altri Paesi, come la Cina, dove vengono lavorati e poi esportati e venduti come prodotti non russi. 

Le battaglie dell’Alaska contro la pesca russa – Stop al pesce russo nei mercati statunitensi 

La delegazione del Congresso dell’Alaska, a giugno, è arrivata a presentare alcune proposte di legge finalizzate a colmare quelle che i membri hanno definito “scappatoie”, che fanno sì che il pesce russo circoli nel mercato statunitense. Il 16 giugno i senatori repubblicani dell’Alaska, Dan Sullivan e Lisa Murkowski, hanno introdotto una legislazione che imporrebbe un divieto totale sull’importazione di tutti i prodotti ittici di origine russa negli Stati Uniti. Misura che arriva in risposta alle precedenti sanzioni imposte dalla Russia che, dal 2014, vietano l’importazione di prodotti ittici statunitensi e di altri prodotti della filiera occidentali. “Le azioni ostili della Russia nel mondo non si limitano alla terra. Sebbene abbiano vietato le importazioni di frutti di mare statunitensi, continuano a vendere il loro pescato, comprese grandi quantità di merluzzo pescato a strascico, nei nostri negozi”, ha spiegato la rappresentante per il distretto at-large dell’Alaska Mary Peltola, in una dichiarazione congiunta della delegazione.

Le battaglie dell'Alaska contro la pesca russa

“Spesso mascherano il loro prodotto trasformandolo e esportandolo di nuovo dalla Cina. Dobbiamo difendere la salute degli oceani e i nostri pescatori americani e assicurarci che gli americani non acquistino inconsapevolmente pesce da navi russe che hanno poca supervisione o regolamentazione”, ha sottolineato Peltola. Negli ultimi anni la questione dello squilibrio commerciale tra Russia e Stati Uniti è stata così scottante per l’Alaska che, nel 2020, l’Alaska Seafood Marketing Institute (ASMI) ha pubblicato un rapporto approfondito sul tema dal quale è emersa, ancora una volta, la netta competizione tra le industrie delle due potenze. Un punto chiave del documento è che l’Alaska e la Russia raccolgono molte delle stesse specie e molti prodotti di origine russa sono disponibili sul mercato statunitense, spesso a prezzi inferiori rispetto a prodotti comparabili dell’Alaska

Le battaglie dell’Alaska contro la pesca russa – Un settore fondamentale e sempre più green

L’Alaska si sta impegnando strenuamente, anche dal punto di vista giuridico, per difendere i propri mari e l’industria che da questi dipende. D’altronde, su una superficie di quasi due milioni di metri quadrati ci sono circa tre milioni di laghi, 3mila fiumi e più di 10mila chilometri di costa, di cui 8.980 km sul Pacifico e 1.710 km sul Mar Glaciale Artico. Ciò rende l’Alaska una delle regioni più pescose al mondo che vende il pescato non solo nel mercato interno, ma soprattutto in quello internazionale; migliaia di aziende, dalle più grandi alle più piccole, raccolgono complessivamente oltre 3 milioni di tonnellate di pesce (principalmente salmoni, gamberi, aringhe, granchi e merluzzi) e danno lavoro a quasi 80mila persone per un giro di affari da tre miliardi di dollari. L’industria ittica è per l’Alaska una delle principali fonti di sostentamento economico e il Paese negli ultimi anni ha dato anche dimostrazione del suo grande impegno affinché le pratiche di pesca fossero svolte nel massimo rispetto dell’ambiente e degli ecosistemi marini, sempre più fragili a causa del cambiamento climatico. Ma è fin dalle origini della sua Costituzione (1959) che il Governo dello Stato ha dimostrato l’attenzione su questa tematica; vi è infatti sancito che “le risorse ittiche devono essere utilizzate, sviluppate e conservate secondo princìpi dello sfruttamento sostenibile”. Il Paese ha stabilito, dal punto di vista giuridico, che ogni singolo abitante – che sia uno scienziato, un pescatore o un semplice cittadino – deve collaborare per accrescere l’occupazione della filiera ittica sostenibile al fine di rendere il mare un luogo di sviluppo sostenibile per il presente e il futuro. Parole che – a livello pratico – si traducono in vere e proprie azioni di controllo da parte delle Istituzioni. Alcuni fattori ambientali, come il livello dell’acqua nei mari e il comportamento dei salmoni, vengono costantemente monitorati dalle autorità che, di conseguenza, possono consentire o vietare la pesca in determinate aree. Gli esperti del National Marine Fisheries Service (agenzia federale statunitense) e decine di scienziati sono costantemente impegnati in studi approfonditi relativi alle specie che vivono nel Golfo dell’Alaska e nel Mare di Bering. Altri tecnici dell’International Pacific Halibut Commission conducono studi approfonditi sugli halibut. Il “made in Alaska” connesso all’industria ittica è un’etichetta preziosa che vale per il Paese miliardi di dollari. Che la Russia stia veramente minacciandone l’affermazione, contrariamente alle leggi, non è ancora stato del tutto provato, ma l’attenzione è massima e l’Alaska – ben determinata nel proteggere il proprio ecosistema – non sembra intenzionata a subire torti. Torti che significherebbero danni ingenti all’ambiente e all’economia del Paese.

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