Commemorazioni e ipocrisia

Il 19 luglio si avvicina. Tra pochi giorni ci sarà la commemorazione della strage di via D’Amelio. Si attendono i soliti vuoti e ipocriti comunicati stampa dei politici sulla mafia da sconfiggere e sullo Stato che non si piega. Si attendono le solite, ipocrite, presenze in via D’Amelio delle cosiddette “autorità”, pezzi grossi della Repubblica seguiti con devozione da addetti stampa e social media manager. Magari si tratterà delle stesse autorità che mesi fa hanno votato la legge Cartabia o che hanno “piazzato” i loro uomini al Consiglio Superiore della Magistratura, quel CSM che è appena riuscito a nominare procuratore di Firenze il PM gradito alla Lega e a Renzi, grazie al voto irrituale del vicepresidente dell’organo Fabio Pinelli ex avvocato di Alberto Bianchi, presidente della fondazione Open, la storica “cassaforte” renziana. Alcuni mesi fa, a Milano, partecipai a un convegno sulla giustizia e sulla lotta alla mafia insieme al procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. In quell’occasione il PM disse che “il disastro della riforma Cartabia era solo all’inizio”. Aveva ragione. Il 28 giugno scorso il Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana ha annullato un’interdittiva antimafia che era stata disposta a un imprenditore di Partinico. Il signore aveva patteggiato un anno e dieci mesi di carcere per 416-bis. Il divieto di esercizio della professione era scattato immediatamente. Lo prevedeva il Codice antimafia, del resto. Tuttavia, quel divieto è stato annullato per gli effetti della legge Cartabia. Dunque, l’imprenditore che ha patteggiato per un reato di mafia potrà continuare a gestire la sua impresa, a partecipare a gare pubbliche e a ottenere fondi da parte dello Stato. Ma “lo Stato non si lascerà intimidire” diranno i soliti sepolcri imbiancati. 

Commemorazioni e ipocrisia – “L’Italia è una Repubblica fondata anche sul depistaggio”

Lo Stato, o quanto meno una parte di esso, da quarant’anni si è lasciato intimidire. E nonostante sia difficile da credere, è successo anche il contrario. La mafia si è lasciata intimidire obbedendo agli ordini dello Stato o, meglio, di una parte di esso. Insistere su pezzi di Stato deviato o servizi segreti deviati, per tentare di giustificare l’ingiustificabile, è pura retorica. L’Italia è una Repubblica fondata anche sul depistaggio. Paolo Borsellino non è morto di vecchiaia. È saltato in aria mentre andava a trovare sua mamma. Pare che l’esplosione gli abbia fatto perdere all’istante braccia e gambe. In una delle ultime interviste parlò di Marcello Dell’Utri. Oggi Marcello Dell’Utri viene trattato con i guanti dalla stampa nostrana. Come si potrà mai sconfiggere la mafia se il 90% dei giornalisti italiani hanno un atteggiamento quasi di reverenza nei confronti di un uomo condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa? Dell’Utri ha appena ottenuto 30 milioni di euro da Berlusconi. Ebbene, Dell’Utri viene trattato come un vincitore del Superenalotto, uno baciato dalla fortuna. “B. ha scritto nel Nuovo Testamento 30 milioni a Dell’Utri. Aveva pochi giorni di vita, ma temeva la verità pure da morto” ha scritto alcuni giorni fa Travaglio. È la verità. Dell’Utri è andato in galera per aver fatto da intermediario tra Berlusconi e i principali boss di Cosa nostra palermitana. Berlusconi in carcere non c’è finito mai. È morto nel suo letto, a differenza di Borsellino. Che tenere la bocca chiusa per i due fosse un valore è cosa nota. Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, mafioso e pluriomicida, venne da loro definito un eroe. Ovviamente il suo merito è stato quello di tenere la bocca chiusa. Come i fratelli Graviano, ma non come Gaspare Spatuzza, che osò raccontare agli inquirenti fatti sconvolgenti sulla nostra Repubblica. Fu Spatuzza, sicario di Cosa nostra, nonché uno degli assassini di Don Pino Puglisi, a rubare la Fiat 126 che esplose, con il suo carico di tritolo, in via D’Amelio. Ebbene, Spatuzza disse che nel garage dove venne collocato l’esplosivo all’interno dell’automobile si aggirava un soggetto che non aveva nulla a che fare con la mafia. Della strage di via D’Amelio si autoaccusò un tal Vincenzo Scarantino, un pesce piccolissimo di Cosa nostra. Era un depistaggio. Fu lui stesso a raccontare di aver mentito sul suo coinvolgimento spinto dall’allora capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Nonostante questa confessione La Barbera fece una carriera di tutto rispetto. Questore a Napoli e a Roma, prefetto, capo dell’antiterrorismo. Nella sentenza del processo “Borsellino quater” c’è scritto che La Barbera ebbe “un ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia ed è stato altresì intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa”.

Commemorazioni e ipocrisia
Strage di via d’Amelio, foto LaPresse

C’è una caratteristica che accomuna le principali stragi che hanno segnato la Repubblica italiana: i depistaggi. E chi depista, solitamente, non sono i criminali ma i poliziotti, i carabinieri, i servizi segreti. Lo Stato, insomma. I mandanti della mattanza di Portella della Ginestra, la strage di braccianti e bambini siciliani avvenuta il primo maggio del 1947, mentre l’Assemblea costituente discuteva i princìpi sui quali si sarebbe dovuta costruire la Repubblica italiana, restano ignoti. Per la strage di piazza Fontana, avvenuta a Milano il 2 dicembre del 1969, vennero condannati per depistaggio alcuni esponenti dei servizi segreti, tra i quali il generale Gianadelio Maletti, capo del reparto D del controspionaggio. Anche le indagini sulla strage di Peteano, una frazione di Sagrado, in provincia di Gorizia, vennero depistate. Era il 31 maggio 1972 e un’autobomba uccise tre carabinieri. Ebbene, nel 1992, il Generale Dino Mingarelli e il Colonnello Antonino Chirico, entrambi appartenenti all’Arma, vennero condannati per depistaggio. E le indagini sulla strage di piazza della Loggia a Brescia, otto morti e oltre cento feriti? Depistate! Tra l’altro uno dei condannati, Maurizio Tramonte, era un informatore dei servizi. Nel 1974, sul treno Italicus venne piazzata una bomba. Dodici morti e cinquanta feriti. Ancora una volta indagini depistate dai servizi e dalle forze dell’ordine. In particolare da coloro che appartenevano alla P2, la loggia guidata da Licio Gelli, a sua volta condannato per i depistaggi relativi alla strage di Bologna, la peggiore carneficina della storia repubblicana. Ma Gelli non fu l’unico a depistare, per lo stesso reato vennero condannati uomini dello Stato come Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci, rispettivamente colonnello dei carabinieri e ufficiale del SISMI (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare) e agente segreto.

Commemorazioni e ipocrisia – L’agenda rossa

Ed arriviamo a via D’Amelio. L’agenda rossa, l’agenda che Borsellino portava sempre con sé e che, presumibilmente, conteneva informazioni sulle ultime indagini del giudice, non sono stati i mafiosi a farla sparire. Sono stati gli uomini dello Stato. C’è chi sostiene che l’Italia degli anni ’90 era simile alla Colombia di Pablo Escobar. Attentati, omertà, politici corrotti, giudici e giornalisti assassinati. Tutto vero ma con una differenza sottile. Quando Escobar, il patron del Cartel di Medellin, si sentì in un vicolo cieco con Washington che premeva affinché, in caso di arresto, fosse estradato negli Stati Uniti, decise di intavolare una trattativa con lo Stato colombiano. Si sarebbe consegnato in cambio di una detenzione in un carcere del suo Paese. Un carcere dove avrebbe potuto continuare a gestire il Cartello, cosa che effettivamente fece. Anche in Italia in quegli anni vi fu una trattativa tra Stato e la mafia, una trattativa per la quale sono stati condannati i mafiosi ma non gli uomini dello Stato. Ma mentre in Colombia furono i criminali a chiedere allo Stato di poter trattare, in Italia accadde il contrario. Spesso si sente dire, e a ragione, che senza la corruzione della politica la mafia non sarebbe mai stata così forte. Andiamo oltre. La verità è che senza lo Stato o, meglio, una parte di esso (e non una parte marginale, anche la narrazione relativa alle mele marce è stomachevolmente retorica) la mafia non sarebbe mai cresciuta così tanto. Oggi la mafia uccide meno, oggi investe nella finanza, gestisce appalti pubblici, continua a ramificarsi nelle Istituzioni. “Lo Stato c’è” diranno i politici il 19 luglio. Solita ipocrisia. Io non credo più ai discorsi sulla mafia che non contengono le parole “depistaggi”, “connivenza”, “responsabilità della politica”, “trattativa”. Borsellino sarà anche stato assassinato dai mafiosi, ma l’ordine non lo diede Cosa nostra. Altrimenti l’agenda rossa non sarebbe sparita nel nulla. Come l’onorabilità di una parte delle nostre Istituzioni, del resto. Sparita con essa, per molti, la voglia di votare.

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